martedì 26 gennaio 2016

IL LIBRO

Da Auschwitz a Trieste, il viaggio a ritroso di Maddalena 



Elia e Edith Grünglas con i quattro figli: Miriam, Rita, Rachele ed Eugenio



 Miriam, con i fratellini, nella pensione gestita dei genitori, in via di Torre Bianca a Trieste. Alunna nella scuola ebraica di via Del Monte, registrata come Maddalena. Bambina allegra nelle passeggiate sulle Rive insieme al padre, nella città di mare di cui si era innamorato durante un viaggio in Italia e dove di lì a poco si abbatterà l’annuncio delle leggi razziali. Per lui, cantore di sinagoga, la moglie Esther e i quattro figli, ebrei di origine cecoslovacca, quelle parole sono l’ordine di andarsene.
Comincia da qui, da piazza Unità e dal discorso del Duce, il viaggio a ritroso di Miriam-Maddalena verso la casa dei nonni a Tyachiv, sul fiume Tibisco, in Slovacchia. Sarà la tappa finale, l’ultimo momento sereno di bambina, a respirare in cucina il profumo familiare di strudel e paste creme, prima di salire sul treno per Auschwitz insieme ai suoi cari. Dal lager, lei sola, riuscirà a uscire viva.
Oggi Miriam Grünglas è un’anziana signora che vive in un quartiere residenziale di Toronto, circondata da figli e nipoti, nel calore di un’intera esistenza spesa nel paese che l’ha accolta dopo la segregazione. È lì che, nonostante qualche acciacco, Miriam continua nell’impegno di trasmettere la memoria, raccontando ai giovani, nelle scuole, gli orrori del campo di concentramento, la perdita degli affetti e delle radici.
A Toronto l’ha conosciuta Rosanna Turcinovich Giuricin e dal loro incontro è nato il libro “Maddalena ha gli occhi viola” (Comunicarte, euro 18,00, pagg. 135) in cui le due donne decidono insieme di raccontare la storia di Miriam nella lunga Storia del secolo breve, degli esodi e degli sradicamenti che investirono gli ebrei, ma anche gli italiani di Istria e Dalmazia, come la stessa Giuricin.

È proprio quest’ultima a raccogliere la testimonianza dell’amica, non solo da scrittrice e dunque “mediatrice” nel fluire del racconto, ma da interprete empatica di quello smarrimento che segue all’abbandono dei propri luoghi e panorami, affettivi e fisici.
I ricordi corrono a ritroso, da Toronto a Trieste, dove la famiglia Grünglas gestiva una pensione in via di Torre Bianca (e una a Grado) e i quattro figli - Miriam nata nel ’27, Eugenio, Rita e Rachele nei primi anni ’30 - conducevano la vita spensierata dei bambini: i giochi, la musica tanto amata da papà Elia, il dialetto triestino come lingua condivisa con gli amichetti, per Miriam la divisa da “giovane italiana” indossata con orgoglio, le passeggiate al giardino pubblico finchè non vi comparve la scritta “ingresso proibito ai cani e agli ebrei”.
Un anno prima dell’annuncio delle leggi razziali, mamma Esther scrive al fratello Chaim emigrato in America chiedendogli ospitalità per la famiglia, costretta, come tutti gli ebrei stranieri, a lasciare l’Italia nel giro di sei mesi. Quella missiva non arriverà mai, colpevolmente “persa” da un impiegato che non sapeva come interpretare la richiesta di ricovero oltreoceano (forse un attentato alla mistica fascista della sicurezza? Meglio segnalarla a un superiore, attestando così i propri dubbi, o semplicemente farla scivolare tra qualche faldone?).
Quando, due anni dopo, altre lettere a Chaim otterranno risposta, i Grünglas, espulsi dall’Italia, sono già sul treno verso il paese dei nonni materni. Le deportazioni degli ebrei slovacchi cominciarono nel ’42, ripresero nel ’44 e, in quell’anno, tutta la famiglia di Miriam partì per il lager. La Germania occupò l’intera Slovacchia, furono cacciati 70mila ebrei, circa 65mila uccisi. Ad Auschwitz, Miriam vide il padre per l’ultima volta. Si incrociarono marciando in fila in direzioni opposte, separati dal filo spinato. Elia le lanciò un pezzo di pane che finì più avanti e, mentre altri prigionieri vi si gettavano sopra come cani, i due si scambiarono un lungo sguardo, l’addio tra padre e figlia. Ma la ragazzina riuscì a resistere, anche grazie a Carlo, un internato militare catturato sul fronte dalmato, che incontrò nella fabbrica di munizioni di Fallersleben, dove era stata messa al lavoro. Risentire la lingua italiana, comunicare con lo stratagemma del canto, risvegliò in lei il senso dell’attesa, la lotta per la vita.

Dopo la liberazione degli alleati e un periodo in un orfanotrofio di Praga, Miriam riceve la lettera di una cugina da Cleveland. Dentro, un regalo inaspettato: una foto di tutta la famiglia sulle Rive, nella “mia splendida, adorata Trieste”. Con la foto, la cugina le invia anche le lettere della madre al fratello con la richiesta di aiuto. “Erano scritte sulla carta intestata della pensione Grünglas, parte in lingua ungherese, parte in jiddisch. Erano loro, la mia famiglia, tutto ciò che mi rimaneva”. Miriam decide così di lasciare l’Europa, di portare a compimento il progetto dei suoi cari. E oggi, oltre sessant’anni dopo, a Toronto, continua a raccontare questa storia ai giovani, perchè attraverso la memoria le loro ombre non si dissolvano.
twitter@boria_a

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