mercoledì 26 marzo 2014

LA MOSTRA
Gorizia è un ornamento scintillante

Abiti "scintillanti" nel nuovo allestimento del Museo della Moda e delle Arti applicate di Gorizia (foto Bumbaca per Il Piccolo) 

Formidabili quegli anni del jazz. Le feste del Grande Gatsby, colorate e indiavolate, scorrono sullo sfondo e prendono vita i due abiti di Margaret Stonborough Wittgenstein, sorella del filosofo Ludwig, che Klimt ritrasse in abito da sposa, regina della mondanità viennese e mecenate di artisti: sembra gonfiarsi il crespo di seta verde smeraldo percorso da girasoli dorati, manda bagliori il raso nero ricamato con perline di vetro turchese e filati metallici ramati, quest'ultimo, siamo nel 1925 circa, confezionato dalla sartoria delle Sorelle Callot.
Si alza il sipario sul nuovo allestimento del Museo della moda e delle arti applicate di Gorizia, che inaugura due sale ulteriori e invita i visitatori a una serata a teatro, per uno spettacolo o una festa danzante, dove, nell'intimità dei palchi ricavati intorno a un'ideale scenografia o salone da ballo, tra lo sfarfallio dei ventagli di piume, si ammira e si è ammirate. Il filo conduttore della mostra è l'«Ornamento scintillante», filo tematico ma prima ancora prezioso elemento decorativo, che abbraccia senza interrompersi tutti i circa venti abiti da sera esposti in questi spazi (in tutto il percorso ce n'è quaranta), suggestiva finzione accanto a un cimelio autentico, conservato in una piccola stanza a lato: un palco autentico dell'antico Teatro di Società di Gorizia e un frammento dell'affresco di Eugenio Scomparini.

«L'ornamento scintillante viveva di luce e di movimento», dice la sovrintendente Raffaella Sgubin, storica del costume, che ha curato il progetto della mostra. Paillettes, perline di vetro, canutiglie, strass e filati metallici si rincorrono nel buio, dai ricami delle toilette, alle borsettine da sera e alle stole, spruzzati a profusione su abiti di un arco cronologico che va dalla fine del Settecento ai frenetici anni Venti del Novecento, quelli di una moda più morbida e innamorata del corpo femminile, che la sovrintendente ama particolarmente. E l'allestimento, racconta, ha permesso anche di operare un certosino e massiccio restauro su molti pezzi della ricca raccolta museale (la collezione della triestina Marialieta Verchi quasi completa e altre acquisizioni), pezzi la cui magia coincide con la loro stessa fragilità: decori sbrilluccicanti e altrettanto pesanti su supporti impalpabili, sete e tulle, spesso da rinvigorire con sottogonne che permettano all'ornamento di aggrapparsi e non franare.


Dopo il colpo d'occhio delle "mise" degli anni folli indossate da Margaret Wittgenstein, ecco, dall'altra parte della sala, un tuffo nel Direttorio, con un abito color crema con ricami in ciniglia dai toni autunnali e paillettes d'argento, toilette da corte, che - si mormora, senza certezza - sia appartenuta a Paolina Bonaparte, imponente sullo sfondo di altre sequenze cinematografiche, "Orgoglio e pregiudizio", "Vanity fair", la Penelope Cruz volteggiante in "Volavérunt".

 
Penelope Cruz in "Volavérunt"



Intorno, nei palchi, un blogger ante litteram renderebbe all'istante "virali" le immagini di uno splendido vestito Impero avorio, di altri due modelli delle parigine Callot, il primo nero e con le maniche di merletto dorato, il secondo rosa antico impreziosito da perle di vetro soffiato, entrambi appartenuti a un'aristocratica triestina, e, ancora, delle toilette che precedono di poco la Grande Guerra, già fluide e con il tocco di eccentricità delle frange a orlare la gonna.


Infine, nell'ultimo palco, eccoci tra le signore degli anni Venti pieni, con la silhouette rivoluzionata e il punto vita abbassato ai fianchi per permettere alle gambe di lanciarsi nei nuovi ritmi sonori: un abito torrone con decori di vetro - e qui i restauratori hanno dovuto veramente fare un'opera di puntello - e un nero su cui si sbalzano fiori di strass nei toni del verde acqua e smeraldo. Disseminate nei palchi, preziose borsette in tinta, carnet de bal, binocoli, bocchini da sigaretta, tutti della collezione triestina Verchi, ricchissima di accessori.

Nella giornata che precede l'appuntamento serale a teatro, la signora "fashionista" passeggerà in centro, guardando le vetrine. Ecco, allora, che l'allestimento goriziano ricostruisce il "liston" più glamour, con il negozio della modista, che propone copricapi dal 1860 (allacciati sotto il mento con un nastro, come nei libri delle sorelle Brönte...) fino al 1920, quando vanno di moda berretti, cloche e cappellini dalla forma arrotondata (ce n'è un paio appartenuti alle sorelle di papa Luciani). Un'occhiata alle botteghe del calzolaio e del cappellaio, ingombre di strumenti di lavoro, e al negozio per bambini, dove si fanno ammirare la marinaretta femminile, bordata di rosso e corredata di cestino, scarpette e ventaglio, e il costumino per le prime villeggiature.


 Poi una sosta davanti alle vetrine che suggeriscono alle dame il guardaroba del tempo libero (tutte in bianco, come le protagoniste di Downton Abbey nei té all'aperto) o per stare in casa, tra fuselli e chiacchiere, e le amiche che sui quaderni della padrona di casa lasciano disegni e poesiole sulla "virtù del cuore" e la "modestia della fronte". 

Museo della Moda e delle Arti applicate di Gorizia

A materializzare l'atmosfera vivace di un corso cittadino, sulla parete di fronte alle varie teche scorrono le immagini di Parigi, Vienna, del mondano varo della "Viribus Unitis" a Trieste nel 1911 e quelle di Gorizia, ricostruite attraverso una serie di cartoline che accompagnano il visitatore in un'ideale camminata, dalle due stazioni, la Transalpina e la Meridionale, fino in centro.

E spunta, in fondo al corso "mitteleuropeo", la merceria del triestino Carlo Burgstaller, specializzata in corredi da sposa, un tripudio di cuffiette da notte, fazzoletti e asciugamani cifrati con sedi in via Campanile e via Sant'Antonio, e poi la bustaia, le cui fatture e depliant raccontano un'epoca e una trasformazione dei costumi.
Elvira Minzi nel 1915 si faceva pagare un busto in corone, ma nel 1920, per due reggipetti, il conto per la cliente era espresso in lire. Quattro anni dopo, la commerciante cambiava anche il suo logo: una modella con i capelli corti, taglio alla garçonne, testimonial dei tempi nuovi.
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domenica 9 marzo 2014

IL LIBRO

Michel Pastoureau: diabolico verde che ammazzò Napoleone

"Ritratto dei coniugi Arnolfini" di Jan van Eyck (1434)
I greci, letteralmente, non lo vedevano. Nemmeno un sommo poeta come Omero. Per loro era una sfumatura pallida, debole e poco significativa, che finiva con lo smarrirsi in altre tinte. Bisognerà aspettare l'epoca ellenistica perchè il verde trovi posto nella lingua di Pericle, e su influenza del latino: viene definito "prasinós", color del "porro", senza andare troppo per il sottile con le nuance.
Già in questi esordi linguistici indecisi, sta scritto il destino di un colore che sarà a lungo ambiguo e ambivalente. Verde simbolo di speranza, fortuna, natura e libertà, ma anche di veleno, denaro, tavolo da gioco, addirittura del diavolo e del suo codazzo poco raccomandabile. Giudizi contrastanti, che dall'antichità arrivano fino ai giorni nostri, frutto delle trasformazioni culturali della società in cui si sviluppano, e che ci permettono di attraversare arte, scienza, medicina, in un viaggio affascinante nei mutamenti sociali e dei costumi dell'Occidente.
A guidarci nel percorso è Michel Pastoureau, storico francese docente alla Sorbona, che per Ponte alle Grazie ha scritto il terzo capitolo della sua personalissima "palette" (pagg. 240, euro 29,80): dopo il blu e il nero, ecco "Verde. Storia di un colore". Che i latini, al contrario dei greci, non avevano problemi a definire con il termine "viridis", da cui deriva "verde" in tutte le lingue romanze, forse perchè popolo rurale più abituato a osservare l'ambiente circostante. Come i Germani, i latini sapevano tingere e dipingere il verde, ma a lungo lo considerarono un colore "barbaro", tant'è che così vestivano a teatro Germano, personaggio insolito e comico. Le difficoltà tecniche a fissare il colore, tuttavia, lo limitavano all'abbigliamento femminile, più fornito e variato, anche quando, nei primi secoli dell'era cristiana, divenne tinta alla moda, da indossare nella vita quotidiana e nelle occasioni più effimere, dove un tocco di eccentricità non era fuori luogo.

"Ritratto dei coniugi Arnolfini" di Jan van Eyck (1434)

Sarà per colpa dell'instabilità chimica, che lo fa "impallidire", ma il verde nel corso dei secoli è associato a tutto ciò che è mutevole, effimero e volubile, come l'infanzia, l'amore, la speranza, la fortuna, il caso. Nella Roma del Basso impero i neonati si avvolgevano nel verde per augurare loro buona sorte, nel Medioevo sceglievano questo colore le ragazze in cerca di marito, e poi, una volta accasate, lo indossavano nell'attesa del lieto evento. Lo splendido "Ritratto dei coniugi Arnolfini" di Jan van Eyck (1434-1435), uno dei più famosi di tutta la storia della pittura, conservato alla National Gallery di Londra, mostra una donna incinta vestita di un sontuoso abito smeraldo, attributo del suo stato.
Nel Medioevo le connotazioni del verde si moltiplicano, ma la sua "instabilità" lo lega inesorabilmente a menzogna, perfidia e ipocrisia: se l'eroe cavalleresco più famoso, Tristano, incarnazione dell'amore, della magia e del destino, è il testimonial vincente del verde, decisamente sinistro è il suo utilizzo da parte del diavolo e del bestiario di demoni, stregoni e draghi che appare nelle miniature e in tante vetrate gotiche.


 
James Franco è Tristano nel film di Kevin Reynold con Sophia Myles


Verdi, e viscide, sono le creature temibili dell'acqua, draghi, coccodrilli, sirene, vipere, e sono rappresentate in vesti verdi le streghe, della stessa sfumatura dei loro occhi, simbolo di una natura astuta, falsa e dissoluta.
Nel tardo Medioevo e poi nell'età Moderna, verde è il colore dei tappeti e dei banchi dove si sistema e si conta il denaro. Ben prima del 1861, quando fa la sua comparsa il dollaro americano, il verde è sinonimo di soldi: di questa tinta è il berretto imposto ai debitori morosi, a banchieri e mercanti che hanno fatto bancarotta fraudolenta. A partire dal XVI secolo, a Venezia, i tavoli da gioco si rivestono di un tappeto verde, che simboleggia caso e sfida, mentre nel secolo successivo, in Francia, si chiamerà "langue verte" il gergo aspro e immaginifico dei giocatori di carte.
Sarà il Romanticismo il momento della riabilitazione all'insegna del "green". Un'onda lunga che arriva fino ai giorni nostri e che, ribaltando credenze consolidate nei secoli, attribuisce al verde virtù rigeneranti e salutistiche, a volte addirittura salvifiche. Non è più solo la tinta della natura, della speranza e della libertà, ma anche quella del benessere e del tempo libero, dei piaceri della vita e del senso civico. Essere verde significa essere "eco", sostenibile, rispettoso dell'ambiente e in armonia con esso.
Fu Goethe, per primo, nella sua "Teoria dei colori", a considerare la tinta verde "rasserenante" e a raccomandarne l'impiego nei locali destinati al riposo e al convivio. Napoleone ne andava pazzo, anche se forse fu proprio il "verde di Schweinfurt", la pittura messa a punto da una ditta tedesca nel 1814 con trucioli di rame dissolti nell'arsenico, e con cui erano dipinte molte stanze della sua residenza dell'esilio, Longwood House, a causarne la morte a Sant'Elena. La prima fashionista a sdoganare il verde fu invece l'imperatrice Eugenia, impazzita per la nuova nuance densa e luminosa, inventata da tintori di Lione con chimici tedeschi: il verde all'aldeide. La consorte di Napoleone III lo indossava a balli, teatro e opera, spruzzandosi una polvere d'oro sui capelli per enfatizzare i riflessi di seta smeraldo.

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Jane Fonda fotografata da Horst per Vogue (1959)

giovedì 6 marzo 2014

IL LIBRO

Laura Schiavini: a tutto sesso ma senza frusta


"A qualcuno piace dolce" (Newton Compton)

Mr. Grey delle "Sfumature" usava il dolore. Mr. Robin di "A qualcuno piace dolce" preferisce la gentilezza. Che sia questa la nuova frontiera della trasgressione? Dopo il successo in rete, best seller tra i più scaricati del 2013, arriva oggi in libreria il romanzo della triestina Laura Schiavini (Newton Compton, pagg. 279, euro 9,90), storia di un'aspirante giornalista della rivista newyorkese "Manhattan Rumors" che, a caccia di gossip sulle celebrità, s'imbatte in Mr. Sweet. Niente coltelli e corde, ma polpastrelli più brucianti di una frustata, carezze e baci per esplorare ogni piega dell'erotismo. Ce la farà Amy a sottrarre Robin alle legioni di signore impazzite dal principe degli sfioramenti? «Ho voluto affrontare il tema da un'altra prospettiva», racconta Laura Schiavini. «Mi ha colpito il successo di libri che parlano di sesso "malato" e anche il gran numero di commenti favorevoli in rete da parte delle donne. E mi sono chiesta: ma che cosa ci trovano? Perchè sognare con un tipo di rapporto che brutalizza? La mia anima di femminista si è risvegliata e ho scritto una storia per dire che ci si può divertire anche con un principe azzurro senza corde e manette. È una presa in giro leggera, che non fa la morale a nessuno, divertente e che io stessa mi sono divertita a scrivere».
La triestina Laura Schiavini
Si è ispirata ad amiche e conoscenti?
«Ad amiche no, ma a un programma televisivo in tarda serata che ho visto a New York. Una signora tutta perbenino, ben vestita e con la permanente, parlava di un vibratore con le telespettatrici. E ne spiegava l'utilizzo con una banana, illustrando come un certo tipo di frutto, piuttosto acerbo, non fosse "igienico" e come fosse preferibile sceglierne uno più roseo. Era esilarante. La figlia di mia cugina, poi, che va al college, mi ha raccontato che tutte le ragazze hanno un vibratore e se lo portano in giro nella borsetta. È questo lo spunto, vero, da cui parte il libro».
Risposta alle "sfumature"?
«Me l'avevano regalato in e-reader, ma non sono riuscita a scaricarlo e ho lasciato perdere. D'altro canto ho avuto sotto gli occhi talmente tanti commenti sulla trilogia, che mi sembra di averla letta davvero. Tante sostengono che i matrimoni sono stati "rinvigoriti" dal sadomaso. In un gioco tutto è lecito, ma credo che il confine con la violenza sia labile. Ho cercato così un modo leggero per dire: donne, state attente, se avete un compagno affidabile va tutto bene, ma non fantasticate su questo genere di cose. Spero di esserci riuscita».
In pillole, il suo slogan è: dolcezza batte sadomaso?
«A mio modo di vedere, è più erotica e più appagante. Ma non è facile trovare uomini dolci, mentre abbondano i tipi "ti sbatto contro un muro". Lo slogan potrebbe essere: parità, libertà e dolcezza».
Prima di pubblicare in rete, aveva tentato con un editore cartaceo?
«No, ho scelto subito la rete. Per tanti anni sono stata una scrittrice "erotica" e anche se a un certo punto mi è venuta la nausea di questo filone, ho lasciato aperta una porticina per una storia che parlasse di sesso ma con ironia. Sarà stato il titolo, sarà stato il prezzo, 0,99 centesimi, ma il libro è salito subito su Media World, che gli editori guardano molto, e ha mantenuto il primo posto per due settimane. Quando mi ha contattato Newton Compton ho ritirato il romanzo dalla rete ed eccomi qui».
Perchè ha scelto di ambientarlo a New York?
«Perchè ero lì quando ho visto la famosa trasmissione di istruzioni sul vibratore, la città mi è piaciuta e ho pensato che la storia fosse più funzionale a quell'ambiente. Ho un altro romanzo nel cassetto, una storia chick-lit ambientata a Trieste, e avevo cercato di piazzarlo tramite una mia amica agente letteraria. Amo la mia città e mi piaceva l'idea di una location diversa da quelle scontate, Londra, New York. Sa cosa mi hanno risposto? "Bella storia, peccato che non sia ambientata in una metropoli..."».
Lei l'ha mai trovato un tipo come il suo protagonista Robin? Bello, colto, amante perfetto, realizzato?
«Eh, magari. In realtà ho cercato di descrivere un uomo più normale, non straricco, non manager. È un docente, anche se è vero che negli Stati Uniti sono più quotati e meglio pagati».
Di che cosa parla il suo romanzo ambientato a Trieste?
«S'intitola "Precari, joga e galline. Come trovare il principe azzurro con un lavoro a tempo determinato". La protagonista ha il dono di capire quando qualcuno mente. È una ragazza "alternativa", ma lavora in una società di prestiti in contante. È convinta di amare il suo maestro di joga e invece finisce per essere attratta da un manager di successo, con cui ha un rapporto molto conflittuale. Il padre della ragazza è un musicista del "Verdi", ci ho messo anche delle citazioni del sindaco Dipiazza. Più personaggio di lui...».
Sta lavorando a qualcos'altro?
«Un racconto estivo che sarà inserito in una raccolta Newton Compton. E, tra qualche mese, al mio "romanzo della pensione". Non c'è molta letteratura scritta da donne sessantenni, come me, sulla loro vita. Ho preso spunto dalle Segnalazioni del Piccolo, che mi pubblicano spesso: il personaggio sarà un'opinionista reclutata da un quotidiano per parlare dei problemi di tutti i giorni».
Suo marito?
«È molto orgoglioso. E siccome è anche presentuoso, mi dice: "Se non era per me che ti spronavo a leggere...». Da ragazzina ero piuttosto svogliata, ma, per scrivere, bisogna prima aver letto molto».
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Un'immagine dall'archivio Corbis

sabato 1 marzo 2014

  L'INTERVISTA

 Katarina Čas e il lupo sul tappeto rosso



Katarina Čas nella celebre scena di "The wolf of Wall Street"

 Il suo primo ruolo lo ottenne a tredici anni, in un film per la televisione slovena che si intitolava "Peklenski nacrt", piano infernale. Tra qualche giorno sfilerà sul tappeto rosso del Kodak Theater di Los Angeles, insieme al cast di The wolf of Wall Street, il film di Martin Scorsese candidato a quattro Oscar, che ha già assicurato a Leonardo DiCaprio il Golden Globe come miglior attore.
Lei, Katarina Čas, attrice slovena nata a Slovenj Gradec, è quel fisico statuario avvolto in mazzette di denaro di una delle scene più pubblicizzate della pellicola. Bionda, trentotto anni, lineamenti scolpiti, ha alle spalle una lunghissima gavetta televisiva, cominciata con spot pubblicitari e particine quando era ancora una ragazzina che praticava la danza jazz.
Passione precoce e altrettanto robusta, quella per la recitazione. Che Katarina ha coltivato in parallelo allo studio, dividendosi tra scuola e piccolo schermo: in Slovenia ha recitato in molte serie e condotto programmi tivù, frequentando anche l'Università di Lubiana, dove si è laureata alla facoltà di Economia.
Il primo passo deciso verso il red carpet è arrivato tre anni fa con l'audizione a Londra per una parte nella "black comedy" The Guard - in italiano "Un poliziotto da happy hour" - diretta dal regista irlandese John M. McDonagh, che è stata presentata in anteprima al Sundance festival nel 2011 ottenendo critiche positive e riconoscimenti in varie rassegne, tra cui la menzione speciale come miglior opera prima al festival di Berlino e la candidatura al Golden Globe per il protagonista, Brendan Gleeson.
Londra le offre subito molte opportunità in televisione e Katarina partecipa alle serie poliziesche "A touch of cloth 2" e "New tricks" su Bbc One. Poi la svolta: ottiene un'audizione negli Stati Uniti per la parte di Chantelle in The Wolf of Wall Street. Archiviata l'esperienza con Scorsese, ecco un altro film ancora non approdato in sala, "Image", debutto alla regia di Dan Fogelman, accanto ad Al Pacino, Julianne Moore e Jeremy Renner.
Oggi l'attrice si divide tra Londra, New York e Los Angeles. In attesa della notte degli Oscar, che forse porterà a DiCaprio la prima statuetta della sua lunga carriera. Ecco cosa racconta.
Katarina, si aspettava il successo di The Wolf of Wall Street?
«Mi aspettavo che sarebbe stato un film controverso, che avrebbe lasciato un'eco, visto che è ispirato alla storia vera di Jordan Belfort, un "criminale" nel mondo della finanza. E ovviamente, mi aspettavo grandi cose per il cast straordinario, a cominciare dal regista, il leggendario Scorsese. Trovo che Leonardo DiCaprio abbia reso perfettamente Belfort. Ma non mi aspettavo che il film sarebbe stato questo enorme successo al botteghino, il più grande, credo, che Scorsese abbia ottenuto finora»
Come ha avuto la parte di Chantelle?
«Da quando ho recitato nella commedia noir irlandese The Guard, ho un agente a Londra. Che, a un certo punto, mi chiama: "Ehi, Katarina, abbiamo un'audizione con Scorsese. È un piccolo ruolo, però, è Scorsese! Ti mando il copione, leggi e gira un provino con la scena che è indicata. E così, quando arriva il copione, do un'occhiata alla scena che dovrei recitare nel film, e comincio ad agitarmi perché c'è un uomo che incolla pacchetti e pacchetti di banconote sul corpo di una donna…».
Piuttosto esplicita.
«Quando ti chiamano da New York perché Scorsese ti ha scelto in un mucchio di altre attrici da tutto il mondo, ti sembra incredibile e non sai se gridare dalla gioia, o piangere, ti senti sottosopra. Ma quando l'eccitazione passa, comincia la realtà. E pensi: ora, questa cosa bisognerà farla davvero, e bene».
Chi è Chantelle?

«Una tipica donna euro-trash (ride). Figlia di emigranti europei, sposata con un trafficante di droga ed ex spogliarellista. Ma nella storia - chi ha visto il film lo sa - è importante perché grazie a lei, e al marito, DiCaprio-Belfort riesce a portare grosse somme di denaro in Svizzera».
Com'è stato lavorare con DiCaprio?

«È un attore estremamente concentrato, piacevole, spiritoso, e nonostante tutta la sua fama, normale, e con i piedi per terra. Nella scena in cui ho recitato insieme a lui abbiamo riso: anche perché ero coperta di fasci di dollari e riuscivo a malapena a muovermi. Sembravo davvero Robocop».
Dopo The Wolf, è stata scelta per Imagine con Al Pacino. Che ruolo ha?
«Il film, che è in questo momento in fase di post-produzione, è la storia di un rocker invecchiato che riceve una lettera di John Lennon… Ma purtroppo la riceve quarant'anni dopo. E io ho il ruolo di Sophie: nel film, la fidanzata di Al Pacino».
Ha lavorato sia per la tv che per il cinema, cosa preferisce?
«Preferisco il cinema: quando giri un film, il ritmo è più lento e preciso. Nelle serie tv dove ho recitato il ritmo della produzione è molto più frenetico, a volte a discapito della qualità. Almeno così è capitato a me. Ma comunque, una parte è una parte, a prescindere se la interpreti per il piccolo o per il grande schermo».
Ha cominciato ad apparire in televisione ad appena 13 anni. Non rimpiange gli anni dell'adolescenza?
«Oh no. Ero una teenager abbastanza depressa».
Perché ha studiato Economia? Sembra una scelta decisamente lontana dal mondo della recitazione...
«Non so neppure io bene perché… Volevo procurarmi un'educazione di base, allargata, qualcosa che potesse servirmi in vari settori della vita. In Slovenia non possiamo esattamente parlare di un'industria del cinema. E quindi ho preferito studiare marketing».
Con che regista italiano vorrebbe lavorare?
«I registi italiani che conosco e mi piacciono sono, ahimé, morti: Fellini e Sergio Leone… Apprezzo molto Bertolucci e mi piacerebbe il vostro fantastico Benigni, che vedo un po' come un Woody Allen italiano. O il regista di Malena: Tornatore. Il punto, in ogni caso, è che a me recitare: senza guardare i nomi delle persone con cui mi capita di farlo. Basta che nel loro lavoro ci mettano l'anima. E per questo, i migliori.

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