domenica 29 aprile 2007

L'INTERVISTA
Mila Schön: che nostalgia di Trieste e del mio giardino in via san Michele

Mila Schön nel suo studio di via Montenapoleone a Milano

Da cinquant'anni il suo nome è sinonimo di rigore, pulizia, sartorialità. L'hanno sempre chiamata la «signora dello stile», per quell'eleganza asciutta, senza fronzoli e senza tempo, che ha conquistato alcune delle donne più famose e più ben vestite del mondo. Mila Schön è una sorridente signora di 88 anni, che ha scritto un capitolo importante della moda  italiana. Sentirla raccontare è come aprire uno scrigno magico, da cui escono i personaggi, gli incontri, i protagonisti di quella straordinaria avventura che fu la nascita del «made in Italy», quando l'arte del vestirsi aveva un che di silenzioso, rituale e iniziatico. Singolare terra di talenti sartoriali, la Dalmazia, che ha dato alla storia della moda italiana due delle sue griffe più note nel mondo, Mila Schön e «Tai» Missoni. Mila, al secolo Maria Carmen Nutrizio, nasce infatti nel 1919 a Traù, un anno dopo la caduta dell'impero austro-ungarico. Il padre è farmacista e proprietario terriero, la mamma una Luxardo del maraschino di Lussinpiccolo, il fratello Nino diventerà giornalista e sarà fondatore e per lunghi anni direttore del quotidiano milanese «La Notte». Dalla Dalmazia, che lascia a tre mesi con la famiglia, si trasferisce a Trieste, in una casa del centro storico, dove vive e studia fino a diciott'anni.
Alla moda, Mila Nutrizio arriva per gusto e classe innati, ma soprattutto con un'incrollabile determinazione. Dopo il rovescio finanziario che colpisce l'attività del marito, il commerciante di preziosi Aurelio Schön, veneto di origini autriache, comincia a disegnare abiti per le sue amiche, ricche signore della borghesia milanese. Nel 1958 apre un piccolo atelier, sette anni dopo, nel '65, il marchese Giovanni Battista Giorgini, l'inventore della moda italiana, la invita a debuttare sulle prestigiose passerelle fiorentine del pret-à-porter di Palazzo Pitti, nella leggendaria Sala Bianca. La sua è una collezione tutta violetta, dal lilla al glicine, venticinque sfumature diverse, che conquista l'attenzione internazionale.
«Quella di Mila Schön è vera alta moda: autentica, splendida, perfetta», commenta Giorgini.
Famosa per i suoi double-face («l'intransigenza con cui concepisco un interno uguale a un esterno è una mia cifra»), per gli abiti da sera con inserti geometrici, per le gonne a pieghe «baciate», per gli stupefacenti ricami, nel '66 Mila Schön conquista l'America, dove le viene conferito il Neimann Marcus Award, l'Oscar della moda per il colore, ed è la prima stilista italiana a sbarcare in Giappone.
Di lei, la segaligna sacerdotessa della moda americana Diana Vreeland, dice: «La sua linea, in apparenza spoglia ma preziosa, ingentilisce tutte le donne». Una sera, il 28 novembre 1966, al Black and White Ball all'hotel Plaza di New Yorkorganizzato da Truman Capote, la signora giudicata più elegante è Marella Agnelli, in Mila Schön, al terzo posto si classifica Lee Radziwill, sorella di Jackie Kennedy, anche lei avvolta da un modello Schön.
Abiti, accessori, profumi, pelletteria, piastrelle. Negli anni d'oro la griffe diventa un piccolo impero. Poi, nel '93, dopo un periodo di crisi, la cessione al colosso giapponese Itochu, che lascia comunque la parte creativa sotto il controllo della fondatrice. Oggi è il gruppo Mariella Burani a detenere la licenza del marchio, in base a un accordo con l'Itochu che si concluderà anticipatamente nell'autunno-inverno 2008. 

Mila Schön si è ritirata da anni, ma la voglia, l'entusiasmo di vestire le donne le sono rimasti nel cuore. Nel 1990 i cronisti giuliani le hanno assegnato il «San Giusto d'oro», il premio a chi porta il nome di Trieste nel mondo. 

Marella Agnelli vestita da Mila Schön al Black and White Ball:
 è giudicata la signora più elegante


Signora Schön, che immagini conserva della sua terra?
«Non ho ricordi visivi del periodo che ho vissuto in Dalmazia, perchè ero molto piccola quando sono andata via. I miei ricordi sono legati ai racconti dei miei familiari, anche se, in seguito, ci sono tornata in altre occasioni. La mamma, mio fratello ed io, siamo partiti su una nave da guerra comandata dall'ammiraglio Millo. Abbiamo lasciato la Dalmazia con una federa e poche corone...».
Poi l'arrivo a Trieste...
«Ci siamo stabiliti in via San Michele, in una casa con un bellissimo giardino. Anche se nata in Dalmazia, sono diventata subito cittadina italiana, perchè mio papà aveva votato per l'Italia, quindi io e tutta la mia famiglia siamo stati nominati cittadini italiani ad honorem. Avevo e ho tuttora un carissimo amico a Trieste, il professor Paolo Budinich, fisico nucleare a Miramare. Sono ancora in contatto con lui, anche se ultimamente è da un po' di tempo che non lo sento».
Che ricordo ha della città?
«Ricordo Trieste con malinconia e gioia allo stesso tempo. Ricordo che andavo a suonare il piano da una vicina e ricordo il grande giardino della casa in cui abitavo: era molto bello. Ricordo anche che in seguito, una volta in cui ho avuto occasione di tornare, ho visto che al suo posto era stata costruita una casa. Allora ho pensato: lo ricompro e lo faccio diventare di nuovo un giardino, il "mio" giardino. Da Trieste, mi sono trasferita con la mia famiglia a Genova, dove ho vissuto per cinque anni, perchè mio papà dirigeva una farmacia a Pegli».
Mila Schön col figlio Giorgio a Trieste,
 davanti alla casa di via San Michele nel 2004
Poi un altro spostamento, Milano.
«Nel 1940 mio fratello Nino Nutrizio fu nominato direttore de "La Notte" a Milano. Allora mi ci sono trasferita anch'io, insieme a mia mamma. In questo periodo lavoravo in un'azienda farmaceutica, sia per occupare il tempo, sia per non pesare economicamente sulla famiglia. Durante la guerra, a Novara dove eravamo sfollati, mi sono sposata. Ricordo che erano le sei di sera. Colui che è diventato mio marito voleva sposarmi al più presto, senza aspettare che la guerra finisse. Dopo tre anni ho avuto la gioia di avere un bambino, mio figlio Giorgio, che è il grande amore della mia vita».
Come l'è venuta l'idea di occuparsi di moda?
«Per varie ragioni, dopo dodici anni di matrimonio, mi sono divisa da mio marito. Lui aveva avuto difficoltà nel suo lavoro e ho capito che non si sarebbe più ripreso. Eravamo abituati a un tenore di vita molto alto e mi preoccupava l'avvenire di mio figlio. Siccome non avevo introiti e non volevo pesare solo sui miei, ho pensato che le conoscenze che avevo e soprattutto l'esperienza dei tanti viaggi fatti in tutto il mondo, avrebbero potuto aiutarmi a "trovare" un lavoro. Anche per questo scelsi la moda».
Lei non sapeva nè tagliare nè cucire...
«Ma avevo doti personali: il senso del colore e delle proporzioni, il gusto. Ero abituata ad andare nelle grandi sartorie, spinta da mio marito che voleva che indossassi sempre abiti nuovi. Andavo spesso a Parigi. Il mio preferito era Balenciaga e alle prove avevo sempre qualcosa su cui fare osservazioni: sull'attaccatura delle maniche, per esempio, o su un taglio. Insomma, si capiva che avevo il senso delle proporzioni».
Per chi creava i suoi modelli?
«Ho iniziato a poco a poco. Dapprima con l'aiuto della figlia di una modellista, in casa di mia mamma, ho cominciato a fare qualche abito. Poi ho preso con me una prèmiere, Enrica, che veniva da una grande modellista. Osservandola lavorare cercavo di imparare, perchè, quando parlavo con le mie sarte, volevo essere in grado di esprimermi correttamente in modo tecnico. E ho imparato, perchè sentivo che quando andavo in prova loro mi rispettavano tutte. Ho lavorato anche con duecentocinquanta sarte. Così ho iniziato a fare piccole collezioni, invitando le mie conoscenti».
Ricorda la prima?
«La prima presentazione importante fu al "Continental" di Milano, insieme a una mia amica che faceva pellicceria. Era una collezione per l'inverno, stagione che io amo fra tutte. E' piaciuta molto e questo mi ha dato coraggio».
Nel 1965, invitata da Giovanni Battista Giorgini, lei sfila a Palazzo Pitti.
«Era un momento molto triste, perchè nel novembre 1964 era morta mia mamma. Per me è stata una grande perdita. Ero disperata e ansiosa per il mio futuro, con un bambino piccolo ancora da crescere. Proprio in quel momento Giorgini venne per invitarmi a Firenze. Ho accettato. Mi rimaneva poco tempo e ho fatto una piccola collezione che ha avuto un successo enorme. Mi ricordo che alla fine tutte le persone si sono alzate in piedi per applaudirmi. Mi sono commossa. E' questa la sfilata, fra le tantissime che ho fatto in seguito, che ricordo nel modo più vivo e che considero la più importante per me in assoluto».
L'anno dopo lei sbarca in America. Come venne accolta la sua moda?
«Subito dopo la sfilata di Firenze, Neiman Marcus mi invitò a Dallas e a Houston. Una cosa che mi ha colpito e che ho trovato interessante in quell'occasione, è che dovevo spiegare alle vendeuses il mio stile, come vendere i miei abiti, come fare gli abbinamenti. Era una piccola lezione e mi colpì constatare come erano importanti per loro i miei consigli. Anche qui fu un successo, che mi portò sino a New York».
Mila Schön ha vestito alcune icone di stile...
«Tanti giornali mi richiedevano interviste e anche donne come Jacqueline Kennedy, Lee Radziwill, Ira Fürstenberg indossavano i miei abiti. Mi sentivo abbastanza sicura, anche se pensavo di avere sempre qualcosa da imparare. Le mie collezioni continuarono ad avere successo per anni e io giravo tutto il mondo. Ho fatto anche le divise per l'Alitalia, poi per l'Iran Air. E' allora che ho conosciuto lo Scià Reza Palhavi e Farah Diba. Sì, posso dire di aver vestito tutte le donne più importanti del mondo e ho avuto con loro ottimi rapporti».
Lee Radziwill in Mila Schön con Truman Capote al Black and White Ball
Quando si è accorta di aver sfondato?
«Quando sono arrivata al punto che per me esisteva solo il mio lavoro. Lavoravo fino a tardi la sera. Però non lo portavo mai a casa nei finesettimana, che trascorrevo dedicandomi ai miei quattro nipoti, che adoro. Lo lasciavo lì per poter "lavare il cervello" in quei due giorni. Ripensandoci oggi, sento una grande nostalgia. Avrei dentro di me un desiderio enorme di ricominciare a lavorare, e di dare, soprattutto a quelle donne che oggi per la strada non si vedono con approvazione».
Che cosa vuol dire eleganza per Mila  Schön?
«Guardarsi allo specchio. Ogni donna ha la propria personalità e prima di comprare un abito deve capire se è giusto per lei. Una cosa è vedere un lavoro, perchè per me un abito è un "lavoro", e un'altra indossarlo».
Il "New York Times" ha definito di recente la moda italiana «volgare». E' d'accordo?
«Forse non lo avrei detto, ma è abbastanza vero. Nella moda di oggi non c'è una linea definita. Nei negozi si trovano più o meno le stesse cose, più o meno preziose. Abiti molto carichi e troppo strani, con poco gusto. E' una moda troppo urlata e generalizzata».
Che cosa farebbe indossare alla donna-simbolo di Mila Schön?
«Un cappottino a sigaretta. Un tailleur. Un tubino. Sbizzarrendomi forse un po' di più per la sera». 

Ha qualche rimpianto?
«Ho avuto tanti momenti belli nella mia carriera. Posso dire di non avere rimpianti. Forse il rimpianto più grosso è proprio per il mio lavoro: ricomincerei subito. Sono felice di averlo fatto. Mi ha chiesto tanto, ma mi ha anche dato tanto. E' un rimpianto roseo».
twitter@boria_a


L' INTERVISTA

Mila Schön: "Ho nostalgia di Trieste. E critico la moda che va di moda"

 

Da cinquant'anni il suo nome è sinonimo di rigore, pulizia, sartorialità.
L'hanno sempre chiamata la «signora dello stile», per quell'eleganza asciutta, senza fronzoli e senza tempo, che ha conquistato alcune delle donne più famose e più ben vestite del mondo. Mila Schön è una sorridente signora di 88 anni, che ha scritto un capitolo importante della moda italiana.

 
Sentirla raccontare è come aprire uno scrigno magico, da cui
escono i personaggi, gli incontri, i protagonisti di quella straordinaria avventura che fu la nascita del «made in Italy», quando l'arte del vestirsi aveva un che di silenzioso, rituale e iniziatico.
Singolare terra di talenti sartoriali, la Dalmazia, che ha dato alla storia della moda italiana due delle sue griffe più note nel mondo, Mila Schön e Tai Missoni. Mila, al secolo Maria Carmen Nutrizio, nasce infatti nel 1919 a Traù, un anno dopo la caduta dell'impero austro-ungarico. Il padre è farmacista e proprietario terriero, la mamma una Luxardo del maraschino di Lussinpiccolo, il fratello Nino diventerà giornalista e sarà fondatore e per lunghi anni direttore del quotidiano milanese «La Notte». Dalla Dalmazia, che lascia a tre mesi con la famiglia, si trasferisce a Trieste, in una casa del centro storico, dove vive e studia fino a diciott'anni.

 
Alla moda, Mila Nutrizio arriva per gusto e classe innati, ma soprattutto con un'incrollabile determinazione. Dopo il rovescio finanziario che colpisce l'attività del marito, il commerciante di preziosi Aurelio Schön, veneto di origini austriache, comincia a disegnare abiti per le sue amiche, ricche signore della borghesia milanese. Nel 1958 apre un piccolo atelier, sette anni dopo, nel '65, il marchese Giovanni Battista Giorginil'inventore della moda italiana, la invita a debuttare sulle prestigiose passerelle fiorentine del pret-à-porter di Palazzo Pitti, nella leggendaria Sala Bianca. La sua è una collezione tutta violetta, dal lilla al glicine, venticinque sfumature diverse, che conquista l'attenzione internazionale.
«Quella di Mila Schön è vera alta moda: autentica, splendida, perfetta», commenta Giorgini.



Nello studio di via Montenapoleone a Milano

 

Famosa per i suoi double-face («l'intransigenza con cui concepisco un interno uguale a un esterno è una mia cifra»), per gli abiti da sera con inserti geometrici, per le gonne a pieghe «baciate», per gli stupefacenti ricami, nel '66 Mila Schön conquista l'America, dove le viene conferito il Neiman Marcus Award, l'Oscar della moda per il colore, ed è la prima stilista italiana a sbarcare in Giappone.
Di lei, la segaligna sacerdotessa della moda americana Diana Vreeland, dice: «La sua linea, in apparenza spoglia ma preziosa, ingentilisce tutte le donne». Una sera, a un grande ballo all'hotel Plaza di New York organizzato da Truman Capote, la signora giudicata più elegante è Marella Agnelli, in Mila Schön, al terzo posto si classifica Lee Radziwill, sorella di Jackie Kennedy, anche lei fasciata da un modello Schön.

 
Abiti, accessori, profumi, pelletteria, piastrelle. Negli anni d'oro la
griffe diventa un piccolo impero. Poi, nel '93, dopo un periodo di crisi, la cessione al colosso giapponese Itochu, che lascia comunque la parte creativa sotto il controllo della fondatrice. Oggi è il gruppo Mariella Burani a detenere la licenza del marchio, in base a un accordo con l'Itochu che si concluderà anticipatamente nell'autunno-inverno 2008. Mila Schön si è ritirata da anni, ma la voglia, l'entusiasmo di vestire le donne le sono rimasti nel cuore. Nel 1990 i cronisti giuliani le hanno assegnato il «San Giusto d'oro».

 
Signora Schön, che immagini conserva della sua terra? Non ho ricordi visivi del periodo che ho vissuto in Dalmazia, perchè ero molto piccola quando sono andata via. I miei ricordi sono legati ai racconti dei miei familiari, anche se, in seguito, ci sono tornata in altre occasioni. La mamma, mio fratello ed io, siamo partiti su una nave da guerra comandata dall'ammiraglio Millo. Abbiamo lasciato la Dalmazia con una federa e poche corone...
 

Poi l'arrivo a Trieste...

Mila Schön davanti al portone di via San Michele 35, a Trieste, col figlio Giorgio



Ci siamo stabiliti in via San Michele, in una casa con un bellissimo giardino. Anche se nata in Dalmazia, sono diventata subito cittadina italiana, perchè mio papà aveva votato per l'Italia, quindi io e tutta la mia famiglia siamo stati nominati cittadini italiani ad honorem. Avevo e ho tuttora un carissimo amico a Trieste, il professor Paolo Budinich, fisico nucleare a Miramare. Sono ancora in contatto con lui, anche se ultimamente è da un po' di tempo che non lo sento.

 
Che ricordo ha della città? Ricordo Trieste con malinconia e gioia allo stesso tempo. Ricordo che andavo a suonare il piano da una vicina e ricordo il grande giardino della casa in cui abitavo: era molto bello. Ricordo anche che in seguito, una volta in cui ho avuto occasione di tornare, ho visto che al suo posto era stata costruita una casa. Allora ho pensato: lo ricompro e lo faccio diventare di nuovo un giardino, il "mio" giardino. Da Trieste, mi sono trasferita con la mia famiglia a Genova, dove ho vissuto per cinque anni, perchè mio papà dirigeva una farmacia a Pegli.

 
Poi un altro spostamento, Milano. Nel 1940 mio fratello Nino Nutrizio fu nominato direttore de "La Notte" a Milano. Allora mi ci sono trasferita anch'io, insieme a mia mamma. In questo periodo lavoravo in un'azienda farmaceutica, sia per occupare il tempo, sia per non pesare economicamente sulla famiglia. Durante la guerra, a Novara dove eravamo sfollati, mi sono sposata. Ricordo che erano le sei di sera. Colui che è diventato mio marito voleva sposarmi al più presto, senza aspettare che la guerra finisse. Dopo tre anni ho avuto la gioia di avere un bambino, mio figlio Giorgio, che è il grande amore della mia vita.

 
Come le è venuta l'idea di occuparsi di moda? Per varie ragioni, dopo dodici anni di matrimonio, mi sono divisa da mio marito. Lui aveva avuto difficoltà nel suo lavoro e ho capito che non si sarebbe più ripreso. Eravamo abituati a un tenore di vita molto alto e mi preoccupava l'avvenire di mio figlio. Siccome non avevo introiti e non volevo pesare solo sui miei, ho pensato che le conoscenze che avevo e soprattutto l'esperienza dei tanti viaggi fatti in tutto il mondo, avrebbero potuto aiutarmi a "trovare" un lavoro. Anche per questo scelsi la moda.

 
Lei non sapeva nè tagliare nè cucire... Ma avevo doti personali: il senso del colore e delle proporzioni, il gusto.Ero abituata ad andare nelle grandi sartorie, spinta da mio marito che voleva che indossassi sempre abiti nuovi. Andavo spesso a Parigi. Il mio preferito era Balenciaga e alle prove avevo sempre qualcosa su cui fare osservazioni: sull'attaccatura delle maniche, per esempio, o su un taglio. Insomma, si capiva che avevo il senso delle proporzioni.




Per chi creava i suoi modelli? Ho iniziato a poco a poco. Dapprima con l'aiuto della figlia di una modellista, in casa di mia mamma, ho cominciato a fare qualche abito. Poi ho preso con me una prèmiere, Enrica, che veniva da una grande modellista. Osservandola lavorare cercavo di imparare, perchè, quando parlavo con le mie sarte, volevo essere in grado di esprimermi correttamente in modo tecnico. E ho imparato, perchè sentivo che quando andavo in prova loro mi rispettavano tutte. Ho lavorato anche con duecentocinquanta sarte. Così ho iniziato a fare piccole collezioni, invitando le mie conoscenti.

 
Ricorda la prima? La prima presentazione importante fu al "Continental" di Milano, insieme a una mia amica che faceva pellicceria. Era una collezione per l'inverno, stagione che io amo fra tutte. E' piaciuta molto e questo mi ha dato coraggio. 

 
Nel 1965, invitata da Giovanni Battista Giorgini, lei sfila a Palazzo Pitti. Era un momento molto triste, perchè nel novembre 1964 era morta mia mamma. Per me è stata una grande perdita. Ero disperata e ansiosa per il mio futuro, con un bambino piccolo ancora da crescere. Proprio in quel momento Giorgini venne per invitarmi a Firenze. Ho accettato. Mi rimaneva poco tempo e ho fatto una piccola collezione che ha avuto un successo enorme. Mi ricordo che alla fine tutte le persone si sono alzate in piedi per applaudirmi. Mi sono commossa. E' questa la sfilata, fra le tantissime che ho fatto in seguito, che ricordo nel modo più vivo e che considero la più importante per me in assoluto.

 
L'anno dopo lei sbarca in America. Come venne accolta la sua moda? Subito dopo la sfilata di Firenze, Neiman Marcus mi invitò a Dallas e a Houston. Una cosa che mi ha colpito e che ho trovato interessante in quell'occasione, è che dovevo spiegare alle vendeuses il mio stile, come vendere i miei abiti, come fare gli abbinamenti. Era una piccola lezione e mi colpì constatare come erano importanti per loro i miei consigli. Anche qui fu un successo, che mi portò sino a New York.

 

Abito da sera tempestto di paillettes argentate firmato Mila Schon indossato dalla principessa Lee Radzwill presente alla retrospettiva sulla moda italiana "The Glamour of Italian Fashion 1945-2014" al Victoria & Museum del 2014

Mila Schön ha vestito alcune icone di stile... Tanti giornali mi richiedevano interviste e anche donne come Jacqueline Kennedy, Lee Radziwill, Ira Fürstenberg indossavano i miei abiti. Mi sentivo abbastanza sicura, anche se pensavo di avere sempre qualcosa da imparare. Le mie collezioni continuarono ad avere successo per anni e io giravo tutto il mondo. Ho fatto anche le divise per l'Alitalia, poi per l'Iran Air. E' allora che ho conosciuto lo Scià Reza Palhavi e Farah Diba. Sì, posso dire di aver vestito tutte le donne più importanti del mondo e ho avuto con loro
ottimi rapporti.

 
Quando si è accorta di aver sfondato? Quando sono arrivata al punto che per me esisteva solo il mio lavoro. Lavoravo fino a tardi la sera. Però non lo portavo mai a casa nei finesettimana, che trascorrevo dedicandomi ai miei quattro nipoti, che adoro. Lo lasciavo lì per poter "lavare il cervello" in quei due giorni.
Ripensandoci oggi, sento una grande nostalgia. Avrei dentro di me un desiderio enorme di ricominciare a lavorare e di dare, soprattutto a quelle donne che oggi per la strada non si vedono con approvazione.
 

Che cosa vuol dire eleganza per Mila Schön?
Guardarsi allo specchio. Ogni donna ha la propria personalità e prima di comprare un abito deve capire se è giusto per lei. Una cosa è vedere un lavoro, perchè per me un abito è un "lavoro", e un'altra indossarlo. 



Un modello ispirato ai "mobiles" di Calder

 

Il «New York Times» ha definito di recente la moda italiana «volgare». E' d'accordo? Forse non lo avrei detto, ma è abbastanza vero. Nella moda di oggi non c'è una linea definita. Nei negozi si trovano più o meno le stesse cose, più o meno preziose. Abiti molto carichi e troppo strani, con poco gusto. E' una moda troppo urlata e generalizzata.

 
Che cosa farebbe indossare alla donna-simbolo di Mila Schön?
Un cappottino a sigaretta. Un tailleur. Un tubino. Sbizzarrendomi forse un po' di più per la sera.

 
Ha qualche rimpianto? Ho avuto tanti momenti belli nella mia carriera. Posso dire di non avere rimpianti. Forse il rimpianto più grosso è proprio per il mio lavoro: ricomincerei subito. Sono felice di averlo fatto. Mi ha chiesto tanto, ma mi ha anche dato tanto. E' un rimpianto roseo.

 
twitter@boria_a

martedì 17 aprile 2007

MODA & MODI

I turbamenti del turbante

Prada, primavera-estate 2007

Quando è comparso sulle passerelle di Prada, di Ralph Lauren, di Donna Karan e di Marc Jacobs, quando l'ha rispolverato Madonna per la sua nuova attività, disegnare la linea per comuni mortali dei magazzini svedesi H&M, perfino l'inserto «Fashion and Style» del New York Times, che su ogni tipo di novità modaiola si butta a pesce, si è permesso di sollevare uno «scettico sopracciglio». Che cosa mai può spingere gli stilisti a riportare in auge il turbante, copricapo che ai cinefili raffinati richiama visioni della Hollywood degli anni d'oro, con la divina Garbo che inarca, anche lei, il suo sottilissimo sopracciglio sin quasi a toccarne la seta, mentre a molti amanti della commedia all'italiana evoca piuttosto immagini di matrone che ciabattano verso le spiagge romagnole, con tanto di pargoli e pranzo al sacco?
Pura crudeltà della moda pensare di proporre un accessorio simile a chi non ha l'eleganza di un fenicottero, l'altezza di una top model o perlomeno la bruttezza attraente di Coco Chanel, tanto più che anche gli stilisti sembrano incerti sull'occasione adeguata dove sfoggiarlo, se alla serata importante, da tailleur pantalone nero e cravatta sottile, come vuole Ralph Lauren, o per una passeggiata da agosto urbano torrido, abbinato a microshort dalla vita alta e camicia di seta, come preferisce Prada. Scelta temeraria, in entrambi i casi.
In America il gran spolvero del turbante ha una sua ragione contingente, la  splendida mostra che il Metropolitan museum di New York sta preparando su Paul Poiret (aprirà il 7 giugno), il sarto francese, vissuto nei primi anni del '900 e inventore dello «stilista» nel senso moderno del termine, il cui logo commerciale era proprio il turbante. Poiret liberò le donne da ogni costrizione e le infilò in pantaloni alla turca e tuniche velate, un look orientaleggiante e, per l'epoca, assolutamente trasgressivo, di cui il turbante era il raffinato, ineliminabile compendio. Negli anni della Hollywood patinata, il turbante incorniciava i profili aristocratici delle dive, dalla Garbo a quell'irrequieta Pola Negri che visse una tormentata storia d'amore con Rodolfo Valentino.
Ancora a New York, evidentemente rapita da questa stagione, il Fashion Institute of Technology propone una mostra sulla modista degli anni '30 Lilly Daché, dove spicca un indicibile turbante di paglia con fiocco sulla fronte, realizzato con tale maestria artigianale da sembrare di chiffon. «I turbanti non torneranno mai di moda per la semplice ragione che una sartorialità del genere non esiste più», ha commentato una delle curatrici, Nadine Leichter. «Sono misteriosi, ma non riescono a liberarsi dallo stigma della vecchia signora che non smette mai gli abiti da casa».
Cappello dalla duplice, inconciliabile natura: da una parte la quintessenza del glamour, dall'altra la moglie di Andy Capp intenta 

alle pulizie.
Simone de Beauvoir
 

E non solo: da intellettuale lo indossò Simone de Beauvoir, minuto e arretrato sulla fronte, quasi una calottina da mimo,  principesco fu quello di spugna rosa di Grace Kelly, che negli anni Settanta, a Palm Springs, lo abbinava alle fantasie colorate di Pucci.
E oggi? Intravista in turbante, al momento, solo una delle gemelle Olsen, che è ardito definire un'icona di stile. Le riviste modaiole però già gridano al «nuovo cult». A queste latitudini (Trieste e dintorni), una signora in turbante richiama piuttosto le frequentatrici delle vignette di Josè Kollman, che potrebbero portarlo con una borsetta mignon decorata con l'alabarda.
twitter@boria_a


Grace Kelly

martedì 3 aprile 2007

MODA & MODI

I gioielli di Makassar

I piccoli fiori che utilizza per decorare i pacchetti vengono proprio da casa sua. Seccati («e per seccarli bene bisogna infilarli dentro pagine di letteratura impegnata, Dostoevskij per esempio, perché se il libro vale poco si sbriciolano subito...») e poi plastificati, rendono anche l'involucro un po' speciale, stuzzicando la curiosità di scoprire cosa c'è dentro.  Bisogna partire dal packaging, dalla confezione, per capire il gusto di Francesca Titz, che infila i suoi bijoux in sacchetti ricavati da stoffe di recupero, da avanzi di tappezzeria, così che a loro volta, a regalo aperto, possano essere «riciclati» come contenitori per gli anelli e le collane.
Oppure chiude i pacchetti con fiocchi colorati di rafia e paglia, personalizzando, all'insegna della voglia di creare con le mani, anche quello che di solito si butta. Tra pochi giorni il suo laboratorio compie quattro anni. Uno spazio minuscolo, all'imbocco di via Donota, con un nome esotico ma insieme un po' europeo, «Makassar», uno stretto tra l'isola di Celebes e quella del Borneo, che porta con sé il ricordo di perle e di decorazioni orientali. Ma, racconta la proprietaria, anche le impressioni raccolte in un ristorante di Monaco, dove, a sorpresa, le è capitato di scoprire un'atmosfera e una cucina fusion così «ispiranti» da volerle ricordare intorno a sé, nel suo lavoro di ogni giorno.
Figlia del pittore Giorgio Titz, un nonno che riparava macchine da cucire, Francesca ha nel dna il gusto di assembleare e inventare, fin da piccolissima, quando perdeva ora con le perle e sperava che alla madre si rompessero le collane per poterle rinfilare. Così, lasciato l'insegnamento, quattro anni fa le è parso naturale seguire la sua vocazione e cominciare a confezionare accessori, prima a casa sua e poi in uno spazio che ha voluto apposta raccolto, dove si può scegliere e insieme vedere come nascono gli oggetti.
Materiali «poveri» ma particolari, che scova in giro per il mondo e che si trasformano in collane, orecchini, bracciali, pieni di colore ma mai sfacciati: oltre alle perle, pietre dure, vetro, corallo, raccolti con fili da pesca, da materassaia, di seta, diventano bijoux leggeri, che bisogna guardare da vicino per scoprire nei dettagli. Come le collane e gli orecchini con cavallucci e pesci di madreperla, o con i dischi di seta plastificata, molto anni Settanta, o gli anelli a forma di fiore, fatti di resina scaldata a contatto con le mani e modellata, da abbinare alla collana con le stesse rose accostate a dischi di legno smaltato.
Ogni nuova «collezione» sperimenta materiali e sistema di infilatura diversi: per quest'estate ci saranno collane con perle intervallate a gomitolini di carta e spago, o tutte di tessuto, a grandi fiori di tulle dai colori pastello. Se poi ci fosse la voglia di fare un regalo, ai bijoux si abbinano i portagioielli di seta, da arrotolare e chiudere con un nastrino, per evitare gli inestricabili viluppi di collane nei cassetti, o, per chi li ama e li possiede, per riporre gli ori nella cassaforte.
I «gioielli» di Francesca Titz si vendono un po' in tutta la regione e anche in qualche spazio di Milano. Qui i prezzi vanno dai venti euro in su, là sono da griffe.
twitter@boria_a