sabato 29 dicembre 2018

IL LIBRO

Cameron e gli inconvenienti della vita
del dolore, dell'amore


Non c’è nessuno come Peter Cameron per prenderti per mano e accompagnarti dentro il dolore delle coppie. Quello che non traspare, non urla o si straccia le vesti, ma che cresce sotto traccia, come un cancro, mordendoti e intaccando le viscere nel silenzio, nell’apparente normalità del quadro clinico, fino a sconvolgerlo, senza opzione di tornare indietro.

Sono “Gli inconvenienti della vita” (Adelphi, pagg, 122, euro 16,00), l’ultimo, luminoso libro di Cameron, composto da due racconti in apparenza agli antipodi, la storia di altrettante relazioni dove un dramma mai espresso fino in fondo all’altro, una sofferenza sedimentata, che ha impastato ogni momento della vita in comune, a un certo momento per un caso, un accidente, un inconveniente appunto, deflagra e trascina via ogni consuetudine e ogni possibilità di aggrapparvisi ancora.





Stefano e Theo vivono insieme a New York, quartiere chic di Tribeca, l’uno avvocato di grido, l’altro scrittore che ha perso ogni creatività dopo un incidente in cui, ubriaco ma senza esserne direttamente causa, ha spezzato una vita. Anche la sua è rimasta intrappolata in quel momento, congelata più che dalle cicatrici fisiche, da un’apatia psicologica, da un malessere da cui non riesce e non vuole risollevarsi, inconsciamente incolpando il compagno di ogni cedimento nel recupero. E basta il pranzo con un’amica, l’allucinazione davanti a un’insalata, in cui le acciughe improvvisamente appaiono agitarsi nella ciotola come mosse da vita propria («le avevano sbattute lì sopra tutte ingarbugliate come in un’orgia...»), basta un’offerta di aiuto maldigerita, perché tutto il magma del dolore irrisolto torni a galla e diventi “La fine della mia vita a New York”, come s’intitola il racconto, la fine di un rapporto, di un progetto insieme.


Quella del magnifico e straziante “Dopo l’inondazione” è un’altra coppia, i Bird, vecchi coniugi di una cittadina della provincia americana, quartieri indistinguibili, arroventati dal sole, e distributori alla Edward Hopper. Una coppia (e anche loro sembrano un quadro di Hopper, i due anziani di “In the sunlight”) la cui spenta esistenza si trascina sopra la tragedia della morte violenta di una figlia e una nipotina. La vita di entrambi scorre piatta, assuefatta: la chiesa alla domenica col vestito buono, le foto sopra il caminetto, una camera sempre chiusa, i letti separati, il tran tran immutabile che perimetra il passato, gli impedisce di tracimare sradicando ogni appiglio.



In the sunlight di Edward Hopper


Quando una famiglia di sfollati, gli Escobedo - padre, madre e una bambina dell’età giusta per giocare con le Barbie e le case delle bambole sepolte dietro quella porta chiusa - entra temporaneamente in casa dei Bird, si rompe l’equilibrio del silenzio, lo scheletro fragile di un nucleo devastato al suo interno. Nella tragedia privata si fanno largo degli estranei, i tre ospiti, il reverendo donna che ha trovato loro l’alloggio, e ogni scudo domestico, ogni alibi, si frantuma. Il cambio di una camera, la televisione accesa, le visite improvvise della religiosa, le sue domande, l’irrompere della vita “vera”, con tutti i suoi inconvenienti, intacca quella sofferenza asettica e riservata. È lei che racconta: «È molto difficile sapere da dove cominciare perchè, si sa, ogni cosa è collegata all’altra, come quelle farfalle in Messico che battendo le ali scatenano un uragano in Cina, ma dopo averci pensato un po’ ho deciso di cominciare da quando gli Escobedo sono venuti a stare da noi...».





Cameron ci guida dentro la cucina, in salotto, nello scantinato, come prima aveva fatto nelle stanze del lussuoso appartamento di Tribeca, nel bagno dove Theo si stende a terra per trovare sollievo. Indugia sugli oggetti e sulle abitudini, ci accompagna a guardare il sole che tramonta sul New Jersey e fa sembrare New York “clemente”, indirizza il nostro sguardo attraverso la zanzariera della porta d’ingresso della casa dei Bird, che non scherma gli intrusi. Scoperchia ogni oggetto e ogni luogo dell’intimità, con parole asciutte, contate. Non descrive mai la sofferenza, la depressione, il tormento, ma li porta in superficie man mano che la lettura procede, come un esito necessario e ineludibile. Alla fine chiude la porta e lascia i suoi personaggi, e noi, a guardare in faccia la loro solitudine.

@boria_a

giovedì 27 dicembre 2018

IL PERSONAGGIO

Roberto Bertinetti, l'anglista sull'isola delle donne

Roberto Bertinetti


Il suo ultimo articolo per il Piccolo di Trieste l’aveva firmato sull’edizione dell’11 novembre scorso. Un ritratto del fondatore della Beat Generation, Lawrence Ferlinghetti, che in marzo festeggerà cent’anni. A Roberto Bertinetti non sfuggiva un anniversario, un’uscita editoriale, una riedizione degli amati scrittori inglesi e americani, di ieri e di oggi, di cui era appassionato, ammiratore, cultore. Da cronista culturale, preferiva il lavoro di segugio a quello di recensore. Ogni anno scherzava con i redattori sul Premio Nobel per la letteratura, cercava di anticiparne il vincitore, qualche volta ci azzeccava e, puntualmente, ne tracciava un ritratto originale il giorno della proclamazione.

Roberto Bertinetti, 63 anni, docente di Letteratura inglese all’Università di Trieste, scrittore e collaboratore di lungo corso delle pagine culturali del Piccolo, come di molti altri quotidiani e riviste, se n’è andato alla vigilia di Natale 2018 nella sua Pesaro, dopo una malattia con cui combatteva da tempo. «La chemioterapia? Beh, è la prima volta che la faccio. Vediamo com’è» diceva al telefono circa un anno fa, gentile e incuriosito, con la sua solita ironia, quasi partisse per un’avventura.


Non ha mai smesso di lottare e di scrivere, nemmeno durante le cure, nemmeno alla vigilia o dopo esami impegnativi, sempre disponibile a suggerire un tema e ad accettare un aggiornamento del pezzo, anche quando la durezza delle terapie lo prostrava. I “coccodrilli”, secondo il gergo dei giornalisti, di V.S. Naipaul e di Guido Ceronetti, scrittori che se ne sono andati nei mesi scorsi, e la storia di Sylvia Beach, l’americana che a Parigi fondò la libreria “Shakespeare and Company” e lanciò l’Ulisse di Joyce per non guadagnarne niente, sono gli ultimi pezzi che ci ha lasciato: acuti, brillanti, sintetici, sempre con quella riga che spingeva il lettore a volerne sapere di più.

Gli piaceva scrivere di letteratura, ma Bertinetti era insieme un osservatore attento della società inglese. Alla Rai e sugli schermi di Sky commentava la Brexit, le vicende della monarchia, la politica e i cambiamenti di una comunità multietnica, divisa tra la generazione dei millennial globali e gli euroscettici, per mentalità o disagio economico. Nel suo ultimo libro, “L’isola delle donne” (Bompiani), ha raccontato signore britanniche diversissime tra loro, da Lady Diana alla Thatcher, da Virginia Woolf a Mary Quant, unite dalla grinta e dalla personalità (e quanto si rammaricò di non poter essere a Grado, quest’estate, nel festival con lo stesso titolo...). Amava Jane Austen e la stilista Vivienne Westwood, ugualmente protagoniste di una rivoluzione dei costumi. Perchè questo gli interessava: negli autori, nei personaggi e nei loro percorsi, capire la trasformazione di un mondo.


All’insegnamento, alla scrittura, alla passione per il basket e l’Inter, Bertinetti ha sempre affiancato l’impegno politico nella sinistra riformista. Fu consigliere comunale del Pds di Pesaro, tra i fondatori del Pd. Parlando al telefono col Piccolo, qualche tempo fa, confidava un nuovo progetto letterario: seguire la nebbia attraverso il romanzo inglese. Il mistero, l’inquietudine, il viaggio. E, ancora una volta, il cambiamento.

@boria_a

mercoledì 26 dicembre 2018

IL LIBRO

 L'esercizio di Mary B. Tolusso in Danimarca



È abituata a districarsi nella lingua ostica di Carlo Emilio Gadda, ma si è lasciata conquistare da quella facile di Mary Barbara Tolusso. Facile? «Solo in apparenza, s’intende - confessa la traduttrice Conni Kay Jørgensen - perchè poi, quando ci metti mano, ti accorgi che non è affatto così, e che la semplicità è un’operazione complessa». “L’esercizio del distacco”, secondo romanzo della scrittrice e giornalista triestina, uscito nel maggio 2018 con Bollati Boringhieri, per Conni Kay è stato un “amore al buio”, una passione per la lingua prima che per l’intreccio. Così, grazie a lei, traduttrice danese che vive da trent’anni in Italia e ha insegnato alla Statale e alla Sapienza, la storia dell’affacciarsi alla vita dei tre ragazzi in un collegio vicino al confine con la Slovenia ha ricevuto la sua prima traduzione estera.


 
Conni Kay Jørgensen



Dal 14 dicembre 2018 “Distancekunsten”, per i tipi dell’editore Wunderbuch che ha sede a Skive, è disponibile nelle librerie della Danimarca. «Ho una velocità di lettura altissima - racconta Conni Kay Jørgensen, che ha sposato un italiano e vive ad Asti - addirittura di dieci libri al giorno. Quando mi sono accostata al romanzo di Tolusso, di primo acchito ho pensato: “questo non fa per me, non è il mio stile”. Un paio di giorni dopo, invece, mi sono accorta che mi era entrato nel cuore. Sono abituata a tradurre Galileo, Vico, ora sono al lavoro su Marco Polo... eppure mi sono ritrovata a pensare: “si può scrivere anche così”, in modo semplice, appunto. Mi ha colpito».





Jørgensen ha ricevuto il libro dall’editore italiano. E, appena arrivata all’ultima riga, sull’onda dell’entusiasmo l’ha tradotto e si è messa a caccia di un omologo danese che lo potesse far conoscere ai lettori del suo paese. Una caccia non sempre coronata dal successo, come spiega la stessa traduttrice, che si fa “ambasciatrice” dei classici della letteratura italiana, ma anche di autori contemporanei come Nicolai Lilin o dei giallisti alla De Giovanni.





«Quello di Tolusso non è un libro commerciale - spiega - e vendere non sarà facile. Però rispecchia molto il nostro essere danesi. Siamo pochi, non ci sentiamo sicuri di noi, abbiamo paura del mondo. Non ci riconosciamo in questo mondo. Io vivo tra due culture e vedo che mentre gli italiani si “propongono”, si “fanno avanti”, i danesi si rifugiano nella loro ritrosia e riservatezza. In questo senso, “L’esercizio del distacco” è un libro molto danese».






martedì 18 dicembre 2018

MODA & MODI

La politica dell'abito


Nonna Nancy e la ragazzaccia Melania, potenza del guardaroba politico. L’ultimo capo diventato virale è il cappotto della settantottenne speaker della Camera, la veterana liberal Pelosi, che dopo aver vinto un match verbale con Trump nello Studio ovale, ha indossato come un’armatura il suo fiammante cappotto Max Mara arancione. “Non sminuire la forza che rappresento” ha detto la signora a The Donald in diretta tv e il suo temperamento, in simbiosi cromatica, ha contagiato il paltò: il modello Glamis, abbottonatura a sinistra, di cinque anni fa, si è trasformato in un formidabile indicatore di resistenza e rivolta (tant’è che Max Mara si è affrettata a rimetterlo in produzione).




Pochi mesi fa, in giugno, un altro capospalla aveva ugualmente mandato in tilt la rete. Ricordate il parka della first lady Melania, in visita ai bambini messicani in un campo profughi in Texas, mentre infuriava la polemica sulla separazione delle famiglie? “A me non interessa proprio, e a voi?” c’era scritto sulla schiena del giaccone verde, brand Zara, poche decine di euro di prezzo (poi lievitato online di almeno venti volte) e anch’esso di due anni prima. 




Cappotto e giacca, dunque, sono entrambi “datati”, perchè la moda politica non è questione di stagione ma diventa funzionale a quanto si vuole trasmettere in un momento preciso. Troppo scontato liquidare Melania come incurante o provocatoria rispetto alla scritta: e se l’ex top model avesse voluto manifestare piuttosto un’indipendenza rispetto alle odiose scelte del marito o fare spallucce alla scontata tempesta mediatica sullo slogan? Torniamo all’immagine.

Due protagoniste, due capi, due messaggi agli opposti. In comune hanno un punto: la politica indossata scuote quanto le parole, a volte le sostituisce, altre le rende inutili. 
@boria_a
 IL LIBRO

Ai piedi del Medioevo 
Una camminata nella storia con calzari e babbucce


A saperli interrogare, meglio ancora se a osservarli è l’occhio dello storico o del critico d’arte, i piedi e le calzature raccontano molto dell’epoca che attraversano. Credenze e sofferenze, ricchezza e povertà, riti e simboli, religione e superstizione: a piedi e sui piedi è scritta la Storia e tante piccole storie individuali, reali o immaginarie, ordinarie e straordinarie, note o dimenticate.

“Con i piedi nel Medioevo” di Virtus Zallot (Il Mulino,  pagg. 209, euro 25,00) prima ancora che un saggio curioso e documentatissimo, ricco di immagini, è un viaggio, anzi, una camminata densa di incontri, in un periodo storico affrontato da un inedito punto di vista. Dal basso, dalle umili estremità, prende vita una società con le sue classi e le sue gerarchie, di cui sono testimonianza anche i tantissimi ed elaborati modelli di calzari e babbucce (da fashionisti ante litteram). E non mancano le sorprese.




Virtus Maria Zallot, storica dell'arte e docente all'Accademia di Belle Arti Santa Giulia di Brescia




Professoressa Zallot, qual è il linguaggio dei piedi nel Medioevo? «Il linguaggio dei piedi era composto di gesti ordinari e funzionali che tuttavia, per l’uomo medievale, assumevano valore di simbolo e di rito. Il lavare i piedi a qualcuno, per esempio, era esercizio di umiltà: la storia e l’arte medievale narrano per questo di re e regine, santi e buoni cristiani, abati e monaci che lavano i piedi a poveri e pellegrini, ripetendo il gesto di Gesù che li aveva lavati ai discepoli durante l’ultima cena. Il ‘volgare’ levarsi una spina dal piede, raffigurato in molte chiese, indicava la volontà di estirpare il peccato. Calzature e rialzi dei piedi comunicavano lo stato sociale ed esistenziale delle figure, indicandone gerarchie e ruoli. Gli eletti in terra e in cielo, per esempio, non poggiavano i piedi sul nudo terreno, ma su pedane o tappeti preziosi. Caratteri e gesti di piede componevano un lessico e una sintassi che spesso non sappiamo più leggere».





I piedi difformi e deformi sono sempre legati a un’idea di cattiveria o di bisogno. Perchè? «Piedi difformi segnalavano, in genere, una difformità anche morale. Avevano piedi bestiali le streghe, i diavoli tentatori travestiti da uomini o le affascinanti donzelle che tentavano di sedurre irreprensibili monaci. I piedi dissimili erano un espediente iconografico o narrativo che allertava l’interlocutore o l’osservatore sulla vera identità di figure mimetizzate in modo subdolo. Diverso è il caso dei piedi deformi, alterati o amputati da malattie e infortuni. Nell’iconografia medievale caratterizzavano i poveri, poiché la malformazione dei piedi rendeva poveri. Ma vi è anche una motivazione strettamente mediatica: è molto più facile raffigurare uno storpio che non un cieco, un muto o un generico malato. Il povero storpio è, inoltre, degno di compassione (e destinatario di beneficienza e di miracoli) in quanto bisognoso per conclamata necessità e non per indolenza».


L’arte medievale è ricca di piedi torturati, recisi, crocifissi. Tanto dolore e mai l’idea del desiderio e della sensualità come oggi. Perché? «Credo che, nella contemporaneità, non manchi altrettanta crudeltà, così come non mancavano nel Medioevo desiderio e sensualità. Ma l’arte medievale è prevalentemente strumento ‘didattico’ cristiano. Di conseguenza raffigura il dolore e le torture subite da piedi illustri o sconosciuti, ma anche gli eccezionali miracoli concessi da santi che spesso guariscono piedi malati o deformi e, talvolta, persino li riattaccano. Vi è dunque tanto dolore ma anche tanta fiducia e speranza».


Il colore rosso, ieri come oggi, ha una forte simbologia... «Le calzature indossate nei dipinti, come quelle utilizzate nella realtà, denotavano rango e ruolo dei personaggi secondo un repertorio di declinazioni più ampio di quello attuale. Il catalogo di scarpe medievali presentava infatti una gamma di fogge, materiali e colori molto più articolata di quella odierna, soprattutto perchè anche i modelli maschili erano tutt’altro che sobri. Le calzature più preziose e delicate erano quelle rosso-viola (tinte con la preziosissima porpora) riservate all’imperatore d’Oriente e assegnate, nell’iconografia medievale, a personaggi di rango quali la Vergine o gli angeli. I calzari purpurei dell’imperatore erano rossi poiché metaforicamente intrisi del sangue dei nemici calpestati: le scarpe rosse assunte oggi a simbolo della protesta contro la violenza sulle donne attingono al medesimo ambito semantico». 


Alcuni significati ci appaiono singolari: per esempio levare le scarpe e non solo per non sporcare… «Il gesto trovava il proprio prototipo nell’episodio biblico di Mosè che, avvicinandosi al roveto ardente, è invitato da Dio a levare i calzari “perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!”. Il togliere le scarpe indicava pertanto il predisporsi a incontrare il sacro, sia in senso fisico (come ancora, per esempio, quando si entra nelle moschee) che esistenziale. La citazione biblica spiega le molte scarpe levate dell’arte medievale, compresi i famosi zoccoli del signor Arnolfini nel dipinto di Jan Van Eyck. Togliere o perdere una sola scarpa indicava invece un significativo cambio di condizione, come la stessa Cenerentola, personaggio antichissimo, insegna». 


Noi utilizziamo tuttora l’espressione “bacio della pantofola” per esprimere riverenza, un po’ supina... «La prosternazione realizza il massimo scarto possibile, spaziale e simbolico, tra due corpi: la sommità dell’uno, la testa, si abbassa alla terminazione inferiore dell’altro, i piedi, palesando la propria inferiorità e manifestando riverenza. Questa pratica, pur documentata anche in occasioni informali, era regolamentata dal cerimoniale e vale tuttora in alcune circostanze. Persino i re dovevano assoggettarsi a baciare la pantofola del papa, rito abolito da Giovanni XXIII solo nel 1958. La locuzione “baciare la pantofola” è rimasta nel linguaggio comune a indicare un atteggiamento rinunciatario e servile: da “leccapiedi”, dunque, termine ancora più efficace, che rimanda allo stesso ambito semantico».


Chinarsi ma anche calpestare... «Se il chinarsi ai piedi esprimeva sottomissione riconosciuta, il calpestare sanciva sottomissione violentemente imposta. Il gesto, crudele e antichissimo, è rievocato nel linguaggio contemporaneo a indicare, in senso figurato, prepotenza e spregio: si calpestano infatti le libertà, i diritti, le minoranze...».


In questa sua lunga camminata, quale scoperta l’ha colpita di più? «Forse la leggenda della regina di Saba e il tentativo di delegittimarla davanti a Salomone accusandola di avere piede d’asino e gambe pelose. E il repertorio davvero curioso di malanni e miracoli ai piedi, che il Medioevo - e per questo mi piace - descrive sempre con semplicità e senza scadere nel truculento. Infine il vedere autorevoli personaggi o illustri santi presentati, anche in occasioni ufficiali, in ciabatte. Siamo infatti abituati a considerarle calzari domestici e, quando usate in esterno, indice di una certa trascuratezza. Nel Medioevo, però, erano utilizzate anche per uscire, infilate sopra le preziose babbucce di stoffa che non avrebbero potuto affrontare le non impeccabili condizioni delle strade. Così che proprio i più eleganti e ricchi dovevano ricorrervi».

@boria_a

sabato 8 dicembre 2018

IL LIBRO

Il love menu per risvegliare i sensi
fa la fortuna dello chef tamil




Carne di pollastro cotta con cipolle, fieno greco, curcuma, da far riposare in un brodo di coriandolo, cumino e tamarindo: è il pathiya kari, un piatto femminile, cucinato per le madri che allattano. In tavola, l’arrendevolezza delle sue carni si sposa al churaa varai, il piatto maschile a base di squalo speziato, con semi di curry e senape saltati in padella per renderne ancor più battagliero il sapore. Maravan, giovane tamil dello Sri Lanka, fuggito dalla guerra nel suo paese, lavora in un ristorante di lusso di Zurigo come lavapiatti, ma nessuno come lui conosce i segreti dell’unione perfetta delle spezie, l’amplesso dei gusti e dei profumi che, scoppiando nel palato del commensale, accende i sensi e rinvigorisce scintille da tempo sopite.

Fin da bambino, al fianco della prozia Nangay, che “riscaldava”, con le sue speciali pietanze e molta discrezione, il letto di coppie con grande differenza d’età, Maravan ha imparato i segreti di una cucina per appagare carne e spirito. Siamo nel 2008, nello Sri Lanka infuria la guerra intestina tra il governo e le Tigri Tamil, ma a Zurigo, nel suo piccolo appartamento da immigrato, il giovane sguattero col sogno di diventare chef, continua instancabilmente a sperimentare nuovi e audaci accostamenti degli afrodisiaci ayurvedici. Basta il profumo delle foglie di curry messe a bollire a ricordargli la lezione dell’amata prozia, che continua a sostenere a distanza con soldi e medicine, e ad acuire la nostalgia della famiglia, anch’essa coinvolta da vicino nel conflitto.


“Il talento del cuoco” dello scrittore di Zurigo Martin Suter (pagg, 370, euro 14,00), riproposto da Sellerio a sei anni dalla prima edizione, è molto più di quello che Maravan manifesta tra i fornelli. Se ne accorge per prima la collega Andrea, che dopo una cena gli cade tra le braccia, nonostante i suoi gusti sessuali non siano etero. Da lì l’idea di mettere in piedi insieme un catering molto speciale, il “Love Food”, per restituire il fuoco della passione a coppie ammosciate dal tran tran.






Nella fredda e frigida Zurigo l’iniziativa ha subito successo. A dispetto della sua discrezione e della sua religiosità, Maravan non ha problemi con un lavoro che stimoli i sensi altrui: «Nel suo paese d’origine si venerava il principio femminile quale forza creatrice del mondo. Le divinità avevano falli, seni e vagine e le loro madri non erano vergini. No, non aveva nessuna difficoltà a rapportarsi col sesso. Era un elemento importante della sua cultura, della sua religione e delle sua medicina. Ma in Svizzera sì, aveva qualche problema. E credeva di sapere perchè. La verità era che sotto sotto, nonostante fosse onnipresente, il sesso era un problema per gli stessi svizzeri».


Il turbamento del giovane tamil ha un’altra origine. È l’entrare nell’intimità di gente che, fino a quel momento, aveva osservato solo a distanza, da “invisibile”, da “clandestino a bordo di una navicella spaziale extraterrestre”. Armeggiare nelle cucine, conoscere le debolezze di estranei, ingoiare la vergogna che i suoi piatti, nati da sapienze antiche, siano preparati per tradimenti o giochi erotici montati come arma di ricatto. Confezionare “love menu” per bisogno di denaro, senza sospettare che davanti ai “falli gelatinizzati” o alle “passerine glassate di zenzero e pepe” (come Andrea ha ribattezzato asparagi e cuori di ceci) si concludano affari che portano i carri armati dismessi dalla Svizzera all’esercito con cui lo Sri Lanka massacra la sua gente. La storia di Maravan si conclude nell’aprile 2009, un mese prima della resa delle Tigri Tamil.


Con levità, Suter utilizza la metafora della cucina - asettica sotto le campane copripiatto del lussuoso ristorante dove Maravan lavora, avvolgente quella della sua tradizione - per dipingere una società che ci è familiare, con chiusure, ipocrisie, affari sporchi coperti dal segreto bancario e lauti guadagni sulla pelle degli ultimi arrivati. La Svizzera, e l’Europa, delle differenze di classe, dell’emarginazione, della facciata immacolata dietro cui proliferano traffici immondi. Il cibo diventa così uno straordinario ponte di condivisione e conoscenza, in grado di sciogliere pregiudizi e barriere, anche quelli che si perpetuano nelle comunità di immigrati, ostacolando l’integrazione in nome di una mal interpretata appartenenza. «Ecco perchè sono diventato cuoco. Sono affascinato da tutto ciò che è trasformazione», spiega Maravan. La sua è cucina di scambi, non solo di sensi, che Suter, con le complicate ricette riportate a fine libro, ci sfida a provare. 

@boria_a

martedì 4 dicembre 2018

MODA & MODI 

I gioielli
dell'imperatrice 







Una collana ispirata ai gioielli per il lutto, così raffinata che fa pensare piuttosto ai bagliori di una sala da ballo. La natura della principessa Sissi, in fondo, era così: duplice. Una donna sopravvissuta a tutte le trasposizioni di se stessa, cinematografiche e letterarie, e che ancora riesce a rendere il suo mito fonte di ispirazione. Sissi, icona congelata più contemporanea di una millennial.

La collezione di accessori firmata da Paola Fontana e Roberta Debernardi per la mostra “Mitteleuropa” (al Cavò di via San Rocco 1 a Trieste, da merc. a ven., 17-19, fino al 21 dicembre 2018), immagina pezzi per una Kaiserin fuori dal tempo e dalle mode, realizzati con tecniche miste e tessuti e bottoni dell’«archivio di recupero» del loro marchio, Studiocinque e altro (www.studiocinqueealtro.com).




I colletti, cui sono applicati pendenti di cristalli, si rifanno alle divise dell’esercito austro-ungarico, il più elegante d’Europa, le collane e le spille citano decori per parate, balli, battute di caccia, periodi di lutto. E ce ne furono nella vita dell’imperatrice, che mai però avrebbe mortificato la sua immagine, di cui aveva cura maniacale, anche in questo antesignana dei tempi. La collana nera, una delle otto, tutte diverse, di un’edizione limitata, è fatta di jais vintage, pietre brillanti trattenute da un collarino di velluto su cui sono stati applicati frammenti di vecchi vetri. Un’altra assembla preziosi bottoni d’antan (eredità di una defunta pellicceria triestina) cuciti con un filo rosso, un’altra ancora dischi di filigrana e cristalli.




Dodici le spille, ricavate da nastri filettati e modellati a mano, che ricordano le coccarde e gli ordini riconosciuti alle donne di famiglie reali. La collezione è stata ideata per la mostra (accessori numerati, come quelli che Studiocinque e altro firma per il Mudec di Milano) e non avrà repliche.

I prezzi? Adeguati al rango di un’imperatrice.
@boria_a
MODA & MODI

L'arte
di brillare

Cos’è quell’estemporaneo sbrilluccichio nelle vetrine? Un po’ troppo presto per l’anticipo di Capodanno. Siamo abituati alla comparsa degli abiti color carta stagnola nella prima decade di dicembre, appena un po’ prima delle mutande color ciliegia. La fine del 2018 si è accesa con largo anticipo. Dai vestiti sottoveste ai pantaloni, dai cardigan ai berretti, dalle t-shirt ai cappotti non c’è capo senza una trama di lurex, un riflesso metallico, un soffio di puntini dorati, un tocco glitterato.

Le paillettes si sono insinuate pian piano, una spruzzata qua e là, senza imporsi troppo e ora ne siamo assediati. Dorate, argentate, colorate. Ma da quando hanno varcato il confine del guardaroba da sera per uscire di giorno?
 

Le stagioni intere, proprio come le mezze, non esistono più. L’abbigliamento si fa a strati, per accumulazione o sottrazione, senza paura di abbinamenti inediti in consistenze e colori. Lo stesso vale per le occasioni, anch’esse diventate fluide. Trasparenze e nero si portano a qualsiasi ora e gli involucri d’oro e argento non sono più legati all’idea della notte da avvolgere di luce per qualcosa da celebrare. Un paio di pantaloni ricoperti di paillettes va d’accordo col maglione norvegese, una tunica glitter si mette coi jeans, la dolcevita argentata col tessuto tecnico, usciamo col piumino di stagnola per fare la spesa. Il segreto sta nel quanto basta. Niente total look, per non sembrare un roches. Meglio concentrarsi su un unico capo o su un accessorio se il fisico è importante. Le paillettes colorate evitano l’effetto squama. Un maglioncino brillante accende il tweed senza sopraffarlo.

Scintillare è un’arte che richiede discrezione.

mercoledì 28 novembre 2018

IL LIBRO

Guerre, amori, maternità combattute
tra due guerre le figlie di una nuova era 






Se il segreto di una saga annunciata è il desiderio di continuare a seguire gli intrecci delle vicende dei suoi personaggi, Carmen Korn, scrittrice e giornalista tedesca che vive ad Amburgo, ha centrato il segno. “Figlie di una nuova era” è il primo volume uscito in Italia (Fazi, pagg. 522, euro 17,50) di una trilogia che ha al centro quattro donne, nate all’alba del secolo scorso, le cui storie attraverseranno due guerre e i loro drammatici esiti, in una trama fittissima di relazioni, amori e dolori, emancipazione professionale e iniziazione politica, alla conquista di un nuovo ruolo sociale e familiare.

Lo scenario storico che fa da sfondo è imponente, in un arco temporale dal 1919 al 1948: la sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale, l’inflazione e la fame nella repubblica di Weimar, la pervasività e l’esplosione del nazismo, la questione ebraica, le delazioni e gli arresti, poi la morte di Hitler, il crollo del Reich, la resa agli alleati, la denazificazione. Snodi cruciali, che nel romanzo vediamo riflessi nella quotidianità delle quattro protagoniste, ragazze di Amburgo uscite dagli anni bui di del conflitto con opportunità mai conosciute prima dalle donne: lavorare fuori casa, muoversi liberamente, vestirsi in modo non punitivo e limitante, confrontarsi da pari a pari con i loro compagni, gestire in modo diverso la famiglia, la sessualità, la maternità.

Le figlie della nuova era della Korn affrontano e si misurano con un’autonomia da cui non si tornerà più indietro. Non sono tutte amiche tra loro e hanno posizioni sociali diverse, ma ognuna, col suo percorso di scelte, errori, contraddizioni e debolezze, dà voce a questa identità femminile sempre più indipendente e battagliera, in dialogo spesso difficile con la figura materna.


Käthe ed Henny sono ostetriche. La prima è una convinta comunista, come il marito Rudi, ed entrambi cadranno nella rete infida delle spie, capillare e invisibile, e conosceranno la violenza della Gestapo. La seconda, di estrazione borghese e anche lei ostetrica, ossessionata da una madre “spietata nella sua generosità” (e invadenza) di cui ha comunque bisogno, cercherà di far convivere lavoro e figli, non volendo rinunciare a quell’indipendenza economica che le ha consentito, ancora nubile, il primo passo verso la libertà, ovvero lasciare il letto che occupava con la madre vedova...


E poi Lina, insegnante e fattrice ariana mancata, che vive una storia omosessuale con l’anticonformista artista Louise, per metà ebrea. E ancora, Ida, il personaggio più complesso e ricco di sfumature, l’unico che compie un completo percorso di crescita e trasformazione, da ricca signora prigioniera di un matrimonio sterile non solo affettivamente (e per colpa di lui, l’infingardo Campmann, ma le è stato taciuto), a donna libera che travolge le convenzioni sociali e gli obblighi di purezza della razza per scegliere il primo, antico amore.


Il tema forte che percorre tutto il romanzo è quello della maternità. Due dei personaggi maschili principali, i dottori Landmann e Unger, sono ginecologi, consegnano alle madri neonati che verranno abbandonati per indigenza, sono costretti a segnalare i deformi o disabili, come prescrivono le leggi sull’eugenetica e per la prevenzione della nascita di “persone indegne della vita”. Käthe non vuole figli da immolare al regime, Henny ne partorisce due, combattuta nella decisione. La svolta nell’esistenza di Ida coincide con la nascita di Florentine, prova vivente della violazione del decreto che vieta le relazioni tra cinesi e donne tedesche, monitorato personalmente dal capo della Gestapo. Anche dietro la vita di Rudi c’è una maternità sofferta e un padre che a lungo ne è stato all’oscuro. Alla clinica Finkenau, che è lo snodo nella storia di tutti i protagonisti, si continua a nascere, anche sotto la “tempesta di fuoco” delle bombe della Royal Force, che il 28 luglio 1943 distrugge Amburgo e miete migliaia di vittime.


Al termine del primo libro della trilogia (già uscita completamente in Germania, 600 mila copie vendute) si aspetta il ritorno dei prigionieri, si cammina sulle macerie e si pensa a ricostruire. Marike, figlia dell’ostetrica Henny, sta diventando medico. Un’altra era è già cominciata.

@boria_a

lunedì 5 novembre 2018

MODA & MODI 
 

Scarpette nere 





Non si può pensare a una ballerina senza evocare il rosa. Il colore del corpetto, del tutù, degli scaldacuore, delle scarpette con i lunghi nastri di raso da avvolgere alla caviglia. Impalpabile, aereo, leggero. È la sfumatura per antonomasia del sogno del balletto. Sulle punte, fotografati in primo piano, i piedi nervosi della danzatrice sono sempre rosa. Quella nuance così delicata, che esprime eleganza e potenza, entra nell’immaginario di molte bambine fin dalla più tenera età. Non c’è bambola ballerina, Barbie l’antesignana, che non abbia un tutù rosa, colore preferito anche dal marketing per le linee sportive che fanno leva sul fascino di sbarra e plié.

Ma se la danzatrice ha la pelle nera? O bronzea? Ecco che quelle vezzose estremità diventano un pugno nell’occhio, spezzano con un colore incongruo l’unica, ininterrotta linea di flessuosità, dalla testa ai piedi. Molte ballerine professioniste nere o mulatte sottopongono le loro scarpette a vere e proprie sedute di trucco di ore, le cospargono di fondotinta e cipria per attenuare il più possibile il contrasto con la pelle. Sentono il color petalo un atto di prevaricazione.

Oggi, però, qualcosa è cambiato per sempre. Freed of London (www.freedoflondon.com), il più antico produttore inglese di abbigliamento per la danza, con quasi un secolo di storia, ha deciso di mettere in commercio scarpette scure, marroni e bronzo. Dopo il rifiuto di Precious Adams, étoile nera dell’English National Ballet, di indossare calze rosa - decisione che le ha attirato gli strali degli ortodossi, per violazione delle regole dell’uniforme - le scarpette scure sono un altro scossone al santuario immacolato della danza. Il momento è considerato storico per gli artisti di diverse etnie. Come possono i sogni essere tutti dello stesso colore? —

sabato 27 ottobre 2018

IL LIBRO

Mamma, figlia, un fratello scomparso 
Il lato oscuro dei legami di sangue





Due fratelli camminano per mano durante una festa di Carnevale. Lui, Andrea, ha sei anni ed è un bambino speciale: biondo, occhi azzurri e capelli fluenti, il visetto da pubblicità. Per quello sono lì, quel giorno: ci saranno tanti fotografi, ha pensato la mamma, e Andrea avrà un intero book senza spendere troppo. Noemi ha nove anni ed è una bambina anonima, castana, sgraziata, quella che si siede sul bordo della vasca o sulla tazza del water mentre il fratello viene coccolato e poi infilato nel lettone. Quel giorno, però, la mano di Andrea scivola da quella di Noemi e il piccolo scompare. Rapimento per estorsione, traffico di organi, una donna senza figli (perché un bambino così bello fa gola a tutti, ripeteva la mamma davanti alle telecamere), magari addirittura la cognata che se l’è portato via?




Intorno a Noemi, che immaginiamo rimpicciolirsi sotto il senso di colpa, cresce come una pianta maligna il baraccone mediatico. Iniziano le telefonate notturne dei mitomani, si susseguono gli appelli alla televisione. È sempre lei, la madre, gli occhi socchiusi in favor di telecamera, a ritagliarsi il ruolo della più sofferente, mentre il padre si infila nell’inquadratura per trascinarla via. Il sospetto, taciuto, investe anche lei, la sorellina maggiore, forse gelosa, chiaramente la meno amata. «A chi vuole più bene la mamma? Chiedevano sconosciuti nella stanza del commissariato....». Oppure: «Lo hai preso tu? Noi sappiamo che l’hai preso tu...». Per mesi passano sullo schermo le immagini di Andrea, della casa. «E io, al di qua dello schermo, a provare sollievo. Che significava sollievo a quel tempo? La sera che arriva».


Tagliente, brusca, morbosa, Teresa Ciabatti ritorna a dissezionare la famiglia, come nel superbo “La più amata” (Mondadori, ne parlo in questo blog), che ha sfiorato, e purtroppo perso, il Premio Strega. Ma non è il giallo della scomparsa di un bambino quello che le interessa - che pur resta la cornice disturbante dei comportamenti - quanto arrivare all’osso di un rapporto madre figlia osservato attraverso la lente di ingrandimento di questo dramma, che si dipana nell’era delle sparizioni in diretta televisiva, dei parenti rincorsi col microfono, del tam tam dei social.





Già il titolo del suo nuovo libro, “Matrigna” (Solferino, pagg. 205, euro 16,50) suggerisce una chiave di lettura. Noemi cresce, anonima e coriacea, custodendo la sua ferita e disarmando gli psicoterapeuti. Non diventa bulimica, non si taglia la pelle, anzi riesce a lasciarsi alle spalle il paese, si laurea, diventa traduttrice, trova un compagno e il sollievo dell’anonimato, una dimensione dove non è più “la sorella di”, “l’altra figlia”. «La sepoltura di mio fratello era avvenuta ogni istante della mia nuova vita in città».
E quella mamma-matrigna che nel cono di luce della televisione del lacrimificio si sentiva in qualche modo compensata della perdita? Quella mamma depressa, ossessiva nelle sue manie, terribile verso la zia che ai bambini regalava momenti di serenità, al punto da trascinarla nel registro degli indagati? Che assapora il protagonismo della disgrazia, ci sguazza, ne diviene dipendente fino a non riuscire più a rinunciarvi?


Anni dopo, una telefonata richiama Noemi a casa da Roma. La mamma ha avuto un incidente, è in ospedale. Ritornava da un locale da ballo, è bionda e garrula, e al suo fianco c’è Luca, un giovanotto premuroso dagli occhi azzurri conosciuto su Facebook, che potrebbe esserle figlio. Suo figlio? “Cara Carla, mi hanno colpito i suoi occhi», le ha scritto lui, che forse ricorda il fatto di cronaca, il rapimento irrisolto, chissà. Lei ha risposto, vincendo la ritrosia, in poche settimane ha accettato l’appuntamento. Facebook ha riacceso le luci, le ha permesso di non essere dimenticata.


Due donne tornano a confrontarsi davanti a una perdita lontana. La madre si appende al braccio del succedaneo del figlio che la riporta al centro dell’attenzione, mentre Noemi, in quegli occhi azzurri, che sa estranei, forse disonesti, cerca il ristoro a uno strappo mai sanato, la mano scivolata dalla sua. E si riscopre sola, ma con un battito d’ali forte, pronta a volare via.


La lingua di Teresa Ciabatti è scarnificante. Per dirci, ancora una volta, che quello di sangue è un legame insidioso, mai consolatorio. —

mercoledì 10 ottobre 2018

MODA & MODI

Il verde al potere 


Emporio Armani 2018-2019
 


Verde di bile. Sorci verdi. Restare al verde. E magari verdi di rabbia. Le espressioni usate nel quotidiano non aiutano a farcelo piacere. Un colore da sempre definito difficile, impegnativo, invasivo, complicato da abbinare. Sarà perché le contraddizioni appartengono al suo dna, come spiega magistralmente Michel Pastoureau, in uno delle sue monografie edite da Ponte alle Grazie. Verde cavalleresco nel Medioevo, colore della gioventù, dell’amore e del destino, lo porta sullo scudo Tristano. Ma già nel tardo Medioevo e all’inizio dell’età moderna, cade in disgrazia, complici le difficoltà tecniche nel tingerlo e nel fissarlo. Diventa così il colore del diavolo e le sue sfumature si fanno vischiose, pustolose, l’habitat adatto alle creature infernali dell’iconografia. 

Tutto cambia nel Romanticismo, quando il verde, che Goethe amava indossare (al contrario del suo Werther, che ha panciotto giallo e pantaloni blu...), diventa il colore della natura e poi, attraverso gli anni, della libertà, della salute, dell’ecologia. 

Se i mutamenti nel ruolo dei colori riflettono i cambiamenti sociali in atto, oggi ogni carpet è green, attento alla moda etica, alla sostenibilità della produzione, al rispetto dell’ambiente. Quest’anno ne siamo avvolti è l’effetto non dispiace. Dall’acido al muschio, passando per smeraldo, salvia, prato, penicillina, e ogni sottile sfumatura che le passerelle hanno inventato, il verde tinge capispalla e accessori, abiti e pellicce, calze e scarpe, senza temere il total look.


 È un’affermazione di personalità e insieme la ricerca di un guscio naturale di protezione. Non definitivo come il nero o imperativo come il rosso, la sua natura cangiante (o inclusiva, a seconda delle interpretazioni) si adatta ai tempi che viviamo. 
@boria_a

lunedì 8 ottobre 2018

MODA & MODI

 Vestivamo alla marinara, con la Barcolana
trionfa l'outfit del velista (o presunto tale)










La Trieste Barcolana cambia pelle. È una muta lenta, che comincia con i primi gazebo alzati sulle rive. Anche chi non ha dimestichezza con scafi e strambate, scopre in sè un animo marinaro.

Mentre i bar si allungano all’esterno, montano panche e spinano birre dai fusti che spuntano come funghi, gli armadi degli autoctoni si aprono per andare in regata. I marinai di lunga esperienza si ringalluzziscono, sfoggiano i reperti consumati come trofei, sanno bene che meno velista sei più ti appendi al logo, perchè la griffe fa il “sailor”. Tutti gli altri, che vogliono sentirsi parte della festa, scavano fuori un bomberino tecnico e un paio di scarpe da ginnastica per atteggiarsi a navigatore. Un cappellino consumato dal sole e dal sale ed è facile entrare nella parte.


Sbarcati da fuori per l’occasione, nei giorni che precedono la regata, si vedono improbabili capitani di terra, con l’outfit perfetto per entrare e uscire dai gazebo sulle Rive: maglioncino legato al collo, pantaloni blu con un accenno di piega (o bianchi, se il tempo lo consente), una lampadata al viso da maratona transoceanica, testano con applicazione l’offerta enogastronomica a ridosso del mare. E strologano sulla forza del vento, con lo smartphone in mano, perchè la Barcolana rende tutti un po’ velisti ma soprattutto molto meteorologi.


I vecchi dei circoli velici li riconosci al volo. Ormai nessuno, raccontano, ha più l’armadietto in sede dove stivare i vestiti stinti e logori da mettere “per la barca”, quelli che una volta uscivano dal circuito urbano per consunzione ed entravano in quello marino, dove trovavano una seconda vita. I tessuti tecnici hanno conquistato anche i regatanti più attempati e poco inclini alle diavolerie: leggerezza e traspirabilità sono parole d’ordine per tutti, con buona pace dei maglionacci bucati.


Alla vigilia, calano i tecnici. E le categorie cominciano a distinguersi. I competitivi - uomini e  donne, qui la moda è davvero “genderless” - si riconoscono al primo sguardo. Non hanno saccheggiato le linee “marina” dei negozi specializzati, con novità e colori di stagione, che sono un po’ l’equivalente “cruise” delle passerelle, ovvero le collezioni di chi non ha la noia del cambio di stagione, tanto in pieno inverno può traslocare ai Caraibi con un guardaroba nuovo di zecca per sport o relax a bordo piscina.


I velisti che sentono il brivido della gara portano tutta la loro storia in borsoni consunti dal marchio tecnico. Indizio inequivocabile: le scarpe da barca ben “provate” appese per i lacci. Se piove ci sono gli stivali, con ghette antifreddo e waterproof, mai di gomma per carità, altrimenti si “scivola”, letteralmente, nella categoria sfigati. Il cappellino consunto affratella, lo portano amatori e professionisti.


E ai piedi? Nudi con le infradito, anche se il meteo è in picchiata, fa tanto regatante maledetto e di sicura esperienza, abituato a solcare mari molto lontani da Trieste. Qualcuno, in questa categoria, lo vedi circolare in fuseaux con ginocchio rinforzato (una versione sportiva di quelli che le modaiole chiamano “meggings”, l’equivalente uomo dei leggings, altrettanto inguardabili), sopra cui infilare bermuda multitasche. Ecco servite due brutture una sopra l’altra, ma, se quest’edizione della Barcolana è fortunata, davvero con buon vento, può capitare di vederli addosso a un omologo marino di Roberto Bolle, e pure con un filo di barba maschile.


Eccoci a bordo, finalmente. L’agonista s’infila lo spray top, giacchino che sprizza neoprene e conferisce ai movimenti la fluidità di un omino Playmobil, in particolare quando è il momento di toglierselo. I guanti, accessorio manicheo, che divide seccamente tra estimatori e detrattori, qui amano le mezze misure: dita libere per fare nodi. E la cerata? La portano i croceristi, alla Barcolana solo se infuria la bufera, altrimenti ci si dichiara in partenza velleitari: vestiti da Middle sea race magari per piantarsi in mezzo al golfo e tirar fuori salame e tagliere.


Finita la festa l’esercito dei regatanti molla gli ormeggi: rispuntano scarpe da ginnastica e bomberino per veleggiare in scioltezza verso gli erogatori di birra. Un’avvertenza: girare con borsone e maglietta “logati” Barcolana, non è troppo apprezzato dai velisti puristi. Da queste parti, nei rudi uomini di mare batte un cuore molto snob.

@boria_a

sabato 6 ottobre 2018

IL LIBRO

Quell'ingombrante cadavere a Calcutta
che ci spiega anche la Brexit







Un alto funzionario britannico trovato con la gola tagliata dietro un bordello, il corpo mezzo affondato in una fogna, in bocca un biglietto appallottolato, scritto in bengalese: “Non ci saranno altri avvertimenti. Il sangue inglese scorrerà per le strade. Andate via dall’India!”. Comincia come un classico thriller “L’uomo di Calcutta” (Sem, pagg. 348, euro 17), primo romanzo di Abir Mukherjee, commercialista nato a Londra da genitori indiani, cresciuto in Scozia e arrivato alla scrittura per una passione antica e un recente colpo di fortuna: a quindici anni un amico gli presta “Gorki Park" e lo fa innamorare del thriller, nel 2014 vince il concorso per esordienti del Daily Telegraph e il pugno di pagine della sinossi diventa questo libro (il primo tradotto in Italia, mentre in Gran Bretagna sta per uscire il quarto con gli stessi protagonisti), pluripremiato e accolto con entusiasmo dalla critica. 



Abir Mukherjee a Pordenonelegge (foto C. Aglialoro)







Calcutta, 1919. La Città Bianca delle ville imponenti dei commercianti, dei club e degli hotel, e la Città Nera dei miserabili e delle latrine a cielo aperto. Il morto è il sahib Alexander MacAuley, assistente del vicegovernatore del Bengala, faccendiere che vanta amicizie potenti, prima fra tutte il “barone della juta” Buchan, uno degli uomini più ricchi della città. Nella megalopoli assediata dal caldo torrido e dall’umidità, ex capitale di quel British Raj dove 150 mila inglesi, frustrati dalla vita coloniale ma altrettanto convinti della loro superiorità morale, dominano 300 milioni di indiani, la pista sembra obbligata: un omicidio politico, opera dei terroristi che lottano per l’indipendenza dell’India. I fremiti di rivolta già percorrono Calcutta, per questo la capitale è stata spostata a Delhi.

L’ipotesi è semplicistica, è chiaro da subito. Perchè la coppia di investigatori che Mukherjee mette in campo, il capitano Wyndham, giovane veterano inglese della Grande Guerra, e l’indiano Banerjee, soprannominato, a causa del nome impronunciabile dai non nativi, “Surrender not” (non arrenderti), che si è laureato a Cambridge e ha un accento da campo di golf del Surrey, sono allenati a guardare realtà sfaccettate. Il cinico e amareggiato Wyndham, ha accettato l’India per sfuggire ai suoi fantasmi, gli amici morti nelle trincee della Somme, la moglie strappatagli da un’influenza: si stordisce con whisky e oppio, ma il passato lo insegue. Banerjee, intuitivo e solare, ha disertato la carriera amministrativa, affrancandosi dal volere paterno: è un giovane uomo istruito e moderno, che sogna un’India libera, senza sottovalutarne i problemi, ma che il colore della pelle relega tra i sottoposti.


Entrambi, Wyndham e Banerjee, si sentono combattuti nel loro ruolo. Sono in crisi identitaria, non amano le verità confezionate e si divincolano dai condizionamenti dei servizi segreti militari. La loro collaborazione sarà anche una costante ricerca di mediazione, tra caratteri e ruoli, proprio quella che Mukherjee è abituato a compiere tra le sue radici indiane e britanniche ("e non sempre con successo", ha detto nella presentazione a pordenonelegge).


Accanto ai due uomini, una figura femminile interpreta un’altra delle contraddizioni della realtà coloniale. È la bellissima Annie, dal sangue misto, invisa agli inglesi perchè ricorda loro che c’è stato un tempo in cui gli indiani non erano considerati inferiori, e agli indiani perchè ha rinunciato alla purezza della sua razza. Una “meticcia”, o “domiciliata europea”, secondo la definizione british, per dire educatamente che per lei non c’è posto da nessuna parte.


Il giallo, per Mukherjee, è dichiaratamente un meccanismo letterario, che però manovra alla perfezione. Ma quello che gli interessa davvero raccontare è un passato storico per molti inglesi ancora mal digerito, e per gli indiani “romanticizzato” alla luce della figura di Gandhi. Un passato ricco di chiavi per analizzare il presente, che dal sogno dell’impero porta diretto alla Brexit. «Nessun inglese leggerà un libro che parla delle malefatte dei nonni» gli aveva detto il padre, cui il giallo è dedicato. Al contrario, la ricostruzione cattura e, anche se l’autore spesso si sbilancia, il racconto è attraversato da una vena ironica che non lo rende mai pedante o sentenzioso. ”Niente cani e indiani oltre questo punto” c’è scritto sull’imponente ingresso del Bengal club. E Surrender-not, con un sorriso forzato, al capitano Wyndham: «In centocinquant’anni gli inglesi hanno compiuto cose che noi non siamo riusciti a fare in quattromila. Per esempio, insegnare ai cani a leggere i cartelli».

@a_boria

mercoledì 26 settembre 2018

LA MOSTRA

I "Sogni di latta e di cartone", quando 
la pubblicità era un'arte 







Dal Burro di Milano della ditta Ferrari di fine Ottocento, con le merci scaricate da piroscafi a vela o a motore, alla silhouette della penna Pelikan degli anni Sessanta. Dalla coppia liberty di Marcello Dudovich, seduta al caffè davanti al cognac Louis Tailleurs di inizio Novecento, alle donne mediterranee e procaci di Gino Boccasile, che consumano l’Olio Radino nel 1950.

Cinquant’anni di storia italiana scorrono su latta e cartone. Produzione e costume, arte e società in un viaggio a ritroso lungo circa quattrocento esemplari di pubblicità d’antan, che si possono ammirare dal 26 settembre 2018 a Palazzo Attems Petzenstein di Gorizia, nella mostra dell’Erpac curata da Raffaella Sgubin e Piero Delbello.

“Sogni di latta... e di cartone. Tabelle pubblicitarie italiane 1900-1950” racconta, con i pezzi della ricca e inedita collezione privata dell’udinese Stefano Placidi, allestiti in dodici sale e divisi in settori merceologici, l’epoca d’oro del sodalizio tra arte e prodotto. Pubblicità non invasiva e soffocante, ma palestra di grandi artisti che, all’occhio del consumatore di inizio secolo, certo più ingenuo e meno bombardato, suggerivano sogni e bisogni da acquistare, con opere raffinate, di alta valenza artistica.


«Il titolo della mostra - dice Raffaella Sgubin - fa riferimento ai supporti particolari su cui sono realizzate queste pubblicità, ma allude anche agli articoli di consumo spicciolo, ai sogni, in fondo domestici, da poco, che hanno messo in moto la creatività di artisti importanti».



 







 




A Piero Delbello si deve l’organizzazione in aree tematiche. Il percorso inizia dalla cura della persona, dagli shampoo e dalle tinture, per passare poi agli articoli farmaceutici, alla ricca selezione di bevande - birre, vini, spumanti rigorosamente serviti in coppa, amari, liquori ed elisir - fino agli alimentari, con paste e conserve. Ci sono poi i prodotti industriali, le auto, gli pneumatici e gli oli lubrificanti, e quelli in qualche modo legati allo svago, come sigarette, giochi e polvere da sparo. Infine i nastri per le macchine da scrivere e le carte copiative, reperti di un mondo commerciale che da tempo non esiste più.

«Tra le curiosità - segnala Sgubin - le insegne dei semi per la coltivazione dei bachi da seta, un aiuto importante all’introito delle famiglie. O le pubblicità dei vini nel fiasco, che affidavano il messaggio all’idea della campagna e della genuinità. Caliamole nel tempo in cui venivano fruite e pensiamo alla gara di raffinatezza, nella realizzazione delle etichette, con cui le aziende vinicole di oggi si presentano sul mercato».


Gino Boccasile, l’inventore della “Signorina Grandi Firme”, e Marcello Dudovich, con la mamma orgogliosa e il bambino ben pulito dal Sapone Palmolive (1935). Il colorato cameriere della Birra Dreher (1925) del fumettista Giovanni Scolari, e il sorriso della “ragazza dell’Aperol” (1950), che porta la firma di Nano Campeggi. E poi gli uomini in cappello: il Borsalino della grafica di Walter Molino, che ricorda le copertine delle riviste mondane alla Grand-Hotel, e il copricapo Panizza di Plinio Codognato, unico per qualsiasi testa, come suggerisce il moltiplicarsi dei volti. 

















«Questa mostra - conclude Sgubin - cattura l’occhio e si presta a diversi livelli di lettura: i prodotti, o la grafica, o ancora le forme artistiche, che vanno dal liberty, al futurismo, all’avanguardia».
Cambiano i gusti e la sensibilità degli acquirenti, ma i cinquant’anni d’oro della pubblicità non perdono stile. Secondo lo slogan della pasta dentifricia Kalikor, negli anni ’20, “a dir le mie virtù basta un sorriso”.

@boria_a
MODA & MODI

L'ecopelliccia, fake che fa bene



Rosa, azzurro, verde. E bianco, in tutte le sue quasi impercettibili sfumature, dal ghiaccio al torrone. Le pellicce ecologiche ci regalano un lusso straordinario, la possibilità, e la libertà infinita del colore. Le tinte più pazze o le derive cromatiche più discrete, le fantasie o gli inserti, i quadrettoni, il patchwork, i fiori, i pois, l’animalier. Questo è il loro anno: divertenti, comode, versatili, affiancano il cappotto, e per le più giovani lo sostituiscono.

La sostenibilità che percorre la moda ha trasformato l’idea stessa di pelliccia. «Si è fatta il visone» si diceva in un passato neanche troppo lontano, negli anni del boom, per registrare il raggiungimento di uno status. E non c’era signora borghese che non sognasse un involucro dal pelo pregiato, come un bene rifugio. Il ’68 ne fece un bersaglio: alle prime della Scala attiravano le uova e i cachi di Mario Capanna e compagni, simbolo del lusso da imbrattare in nome dell’uguaglianza sociale.

Oggi l’ecopelliccia (certo, preveniamo l'obiezione: realizzata in materiali biodegradabili e senza tinte aggressive per l'ambiente), sintetizza tutto l’opposto: prezzi contenuti e trasversalità. Le denunce sulle crudeltà inflitte agli animali e il rinsavimento dei consumatori (secondo un sondaggio Eurispes del 2016, l’86,3% non vuole più saperne) hanno suggerito a molte maison di perdere il pelo e rifarsi una verginità green. L’ultima, in ordine di tempo, è Burberry, oggi diretta da Riccardo Tisci, che annuncia di aver liberato per sempre conigli, volpi, visoni e procioni asiatici.


Versione gilet, giacchino, lunga fino ai piedi, doppiopetto o a vestaglia, con cappuccio o mantella: le chance della pelliccia responsabile sono infinite. Non ingoffano e la loro leggerezza le rende capo per tutte, davvero democratico. Sono fake, ma fanno bene.

@boria_a

mercoledì 19 settembre 2018

L'INTERVISTA

Susanna Tamaro: Con la sindrome di Asperger ogni giorno scalo l'Everest


Susanna Tamaro e Pierluigi Cappello



«È un libro che mi è costato una fatica spaventosa, un tremendo dolore interiore». Susanna Tamaro credeva di non riuscire nemmeno a terminarlo, perchè già ne conosceva la fine. Invece questa sera sarà sul palco del Teatro Verdi di Pordenone a leggere qualche brano da “Il tuo sguardo illumina il mondo”, che uscirà il 20 settembre 2018 con le edizioni Solferino (pagg. 208, in edicola 14 euro). È il racconto della sua grande amicizia con Pierluigi Cappello, scomparso un anno fa. La storia del dialogo di due anime inquiete racchiuse in due corpi imperfetti, giunto fino agli ultimi giorni del poeta. Ma anche la confessione, che la scrittrice triestina fa per la prima volta, della sua malattia, a lungo misteriosa, di una sofferenza cominciata da piccolissima, della solitudine, della fame di affetto in una famiglia disfunzionale, del corpo a corpo con le parole, di quella faticosa conquista quotidiana che è accettare la diversità. Un corpo a corpo, come con la scrittura.
«È un libro che avevo promesso a Pierluigi - dice Tamaro - ma ero convinta che ci avrei messo anni a elaborare il lutto, la memoria, la nostra amicizia. Incredibilmente, ho cominciato a scrivere a fine dicembre, tre mesi dopo la sua morte. Ogni mattina andavo allo studio e dicevo “no, questo è l’ultimo giorno, non ce la faccio ad andare avanti”. Credevo di impiegarci un paio di anni, ma è maturato molto prima di quanto pensassi». 

Volevate scrivere insieme un libro voi due. Quale? «Probabilmente tanti. Alcuni divertenti, per esempio “Il volo degli aeroplani e il volo degli insetti”, essendo gli aerei la passione di Pierluigi e gli insetti la mia. Ma anche libri più seri, perchè entrambi guardavamo il mondo contemporaneo con una certa apprensione e volevamo parlarne, scrivere di come sta andando tra le persone, del degrado interiore, della mancanza di anima, del vuoto di interiorità che c’è».

Che cosa vi univa?
«Sicuramente la capacità di vivere il rapporto con la parola come un combattimento in qualche modo estremo, unita a uno sguardo capace di una purezza di cuore assoluta. Come dico nel libro, gli anni della sua amicizia sono stati gli anni della mia libertà. Con lui potevo essere come sono, e lui lo stesso con me, cioè potevamo vivere il nostro spirito da bambini, nel senso più alto che esiste del termine. Bambino come purezza di cuore, libertà interiore, leggerezza».


Caro Pierluigi, scrive nella prima pagina. Ma è una lettera anche a se stessa. In cui, per la prima volta, Susanna Tamaro confessa la sua malattia, la sindrome di Asperger. È così?

 «Sì, è la prima volta, per una serie di ragioni. Pierluigi aveva l’incubo di essere considerato “un poeta paraplegico”. Allo stesso modo, io ho l’incubo di essere una “scrittrice Asperger”. No. Io sono una scrittrice, Pierluigi era un poeta, e abbiamo avuto questi limiti nella nostra vita. E un po’ perchè, purtroppo, la diagnosi è arrivata molto tardi, pur avendo io sofferto di grossi problemi fin dall’asilo. Questo ha reso la mia vita molto, molto faticosa. Ho lottato con un nemico invisibile, dai tanti volti, che mi ha sottratto un numero enorme di energie».

Oggi ha imparato a convivere con la sua “sedia a rotelle interiore”? «Ho imparato a essere molto meno fiduciosa, ma soprattutto ad accettare certe cose senza colpevolizzarmi e ad avere una vita più consona alla mia condizione, dunque a non sforzarmi di far sempre le cose per essere “normale”, se esiste una normalità, ma rispettando la mia diversità».


L'Asperger e la sua famiglia con Roberta, una famiglia fuori dal comune. Si è sentita spinta a questo chiarimento, costretta a farlo?

 «Sono una persona che non sa dire che la verità, con la sindrome di Asperger non posso fare altro. La verità è sempre stata questa: vivo da trent’anni con un’amica. E questo, per trent’anni, siccome viviamo in tempi fortemente sessuofobici, ha scatenato l’ossessione che io sono una persona che non ha coraggio di ammettere la realtà. Non è vero niente. Ho avuto una vita sentimentale anche molto ricca, una vita sentimentale eterosessuale, che tra l’altro è poco di moda, molto poco... Ho sempre avuto un’amica del cuore, alle elementari era l’amica Daniela di Trieste, e poi per tutto il corso della vita ce ne sono state altre, che ho tuttora, e che mi hanno sostenuto. Perchè io ho bisogno di una persona che mi aiuti a decifrare la realtà. E questi non possono essere i fidanzati, naturalmente, perchè sono poco inclini a occuparsi dei problemi delle compagne. Ho sempre avuto bisogno di questo sostegno».

Una storia lunghissima... «Trent’anni fa Roberta cercava qualcuno per condividere la casa in campagna in cui abitava. Abbiamo cominciato a vivere insieme per motivi pratici e da lì, siccome siamo caratteri piuttosto compatibili, abbiamo continuato a farlo. E non viviamo sole. Abbiamo allevato bambini, la nostra è una piccola comunità. Il segreto della longevità della nostra convivenza è anche che non viviamo sole, noi due, ma all’interno di un mondo di rapporti molto ricco. Ed è, io credo, una forma alternativa di vivere la propria vita affettiva, che non è quella ufficiale, ma non è neanche la coppia sentimentale, gay. È un modo di vivere nella fraternità, nell’affettività, in modo molto sereno e molto libero, fuori da tutti gli schemi e fuori da tutte le definizioni».


«Cos’è la poesia se non il riconoscere la nostalgia dell’eterno che abita da sempre nei nostri cuori» scrive nel libro.
«L’eterno, come l’anima, è una parola scomparsa dal vocabolario, neanche i preti ne parlano mai. Ma noi siamo tutti racchiusi nell’eterno. Da dove veniamo quando nasciamo? Dove andiamo quando moriamo? C’è uno spazio tempo infinito che io chiamo eterno e che è il luogo in cui si genera tutta la vita. Noi siamo tanto nevrotici adesso, tanto malati perchè ci siamo dimenticati del respiro dell’eterno. Pensiamo che la vita si svolga tutta qui, in questo breve tempo, abbiamo questo zaino pesantissimo sulle spalle, dobbiamo risolvere tutto, salvare il mondo, ma non pensiamo che c’è una dilatazione immensa del tempo spazio in cui la nostra vita in qualche modo si diluisce».


Lei dice di aver dovuto scalare tanti Everest nella sua vita. Quando oggi salirà sul palco per ricordare un amico così intimo...
«Sarà un Everest super. Tant’è che io all’inizio non lo volevo fare, ho detto di sì alla fine per Pierluigi, appunto perchè sarà un Everest di quelli con le bombole di ossigeno».


E quali parole sceglierà? «Leggerò soltanto alcuni pezzi del libro, perchè non potrei fare diversamente, non potrei parlare, mi verrebbero parole retoriche e poi ho la tendenza molto infantile a commuovermi, dunque meglio che legga quello che ho scritto su di noi».


Pierluigi le ha lasciato un’altra storia da scrivere? «No, nessuno spunto, o al momento non me ne rendo conto.  Questo è il mio venticinquesimo libro, adesso mi prenderò un periodo di vacanza. Sto preparando un film con una giovane regista che si chiama Katia Bernardi, dal mio libro “Luisito”. Mi dedicherò a cose molto allegre, a libri per bambini, molto leggeri. Sono una grande scrittrice per bambini, ho tanti lettori. Forse è un lato di me poco conosciuto, ma ho una grande leggerezza, una grande fantasia e adesso che mi sono liberata di quest’ultimo peso voglio dedicarmi proprio alla fantasia».


Dove girerà? «Alla fine abbiamo deciso di girare a Trieste. La sceneggiatura, con l’amica Roberta, ci è venuta bene, speriamo di fare una bella cosa. Mi dà anche tanta gioia lavorare con una persona più giovane, aiutarla a entrare nell’ambiente. È bello occuparsi degli altri, aprirsi agli altri. Cominceremo l’estate prossima».


Come racconterebbe Pierluigi Cappello a un bambino? «Un cuore innocente, un’anima nobile, una persona che non aveva opacità dentro di sè. Come gli eroi delle fiabe, quelli che vincono i draghi». —

domenica 9 settembre 2018

IL LIBRO

L'Ilirjana, ossessione di un uomo vigliacco (blandamente)





Un ricco commerciante di mobili vecchi, aggiustati quel tanto da sembrare antichi a chi non se ne intende troppo. Un matrimonio intorpidito, ma che regge bene la facciata, e molti tradimenti senza coinvolgimento. Una bella casa a Padova e un paio di collaboratori fidati che battono il Cadore a caccia di pezzi da camuffare in chicche da antiquario. La disonestà di chi evade serenamente e mantiene la coscienza tranquilla in un Nordest florido e marcio, dove i soldi in prestito si chiedono alla camorra.

«Non sapevo di essere un vigliacco» dice di sè Giorgio Schuff, il protagonista di “Tutto il resto è provvisorio”, nuovo romanzo del genetisca e scrittore Guido Barbujani (Bompiani). Soldi facili, pochi scrupoli, una moglie elegante che contribuisce all’immagine della ditta familiare, un lasciarsi vivere senza assilli di coscienza. Ma Giorgio è in carcere quando il lungo monologo comincia. E le prime parole del suo racconto tradiscono altro, che forse di sè non sapeva: un’inquietudine, una «smania di mollare tutto, mettermi in viaggio, cambiare vita».





Lei è Ilirjana, anzi l’Ilirjana, con l’articolo che marca insieme una confidenza e un’estraneità, perché così la chiama Giorgio, rivolgendosi, da dietro le sbarre, a un ascoltatore sconosciuto. Kosovara, una famiglia massacrata dagli odi religiosi nei Balcani, violoncellista, li dividono quasi vent’anni, ma quando la ragazza irrompe nella sua vita, Giorgio sente che quell’irrequietezza sottotraccia ha trovato uno scopo. Chiude il matrimonio e abbandona ogni inerzia (il «non fare, non agire, lasciare che le cose vadano per conto loro»), negli affari e nei rapporti umani. Sente un’ansia sconosciuta di voltare pagina, di agganciare la sua vita a una cremagliera che lo porti in un posto sicuro, come il tram di Opicina che, da bambino a Trieste, vedeva attaccare all’ingranaggio dal balcone della casa della nonna. 


Ilirjana è alta e ossuta, con le caviglie sottili. Al primo incontro sembra intimidita, ma stringe la mano come un maschio. È tenera e sbrigativa, appassionata e sfuggente. Il cervo e il cacciatore, lei stessa lascia il dubbio. Ha in sè ogni suo contrario, l’allegria breve e un abisso sconosciuto di dolore.
Dopo quattro mesi, la storia, per lei, è già finita: un congedo secco, poi un viaggio all’estero, il telefono che resta muto e mail sempre più asciutte e definitive. Iljriana esce di scena, improvvisa e devastante com’era entrata, ma proprio quando ogni sua traccia è scomparsa, quando anche il contatto virtuale si perde, ecco che la sua presenza si accampa nella mente di Giorgio e da lì si riverbera ovunque. Tutto quello che l’uomo farà e diventerà dopo l’Ilirjana, è determinato da lei. E a lei continua a tornare, come un cane nel posto dove riceveva il cibo.


Ci sono occasioni che tagliano in due una vita qualsiasi, e trasformano ogni abitudine del passato in un peso da cui liberarsi, per abbracciare il rischio dell’ignoto, dell’incontro con l’altro, a costo di pagarne il prezzo per sempre. «D’improvviso si è aperto nella penombra della stanza, nella penombra delle nostre diverse solitudini, un varco, un passaggio per un altro posto più piccolo, ma nostro: una tana accogliente per due». Dietro le sbarre Ilirjana è diventata ossessione, il fine pena mai.


E mentre fluisce il monologo, come una voce fuori campo che parla soprattutto a se stessa e a volte, quasi un piccolo soprassalto, torna a rivolgersi allo sconosciuto che ascolta, a richiamarlo su un dettaglio, su uno snodo della vicenda, si susseguono le tappe della fuga circolare di Giorgio, che lo riporta là dove tutto è cominciato: la materia inconsistente che avvolge il lago di Bled, l’altopiano di Asiago e la vertigine dei sentieri scavati nella roccia durante la grande guerra, la parentesi milanese, con la desolazione del parco Trotter, dove le badanti spingono le carrozzine dei disabili tra erbacce e cacche di cane. E poi Trieste, e la meraviglia intatta del bambino che, tornando con i genitori a trovare i nonni, dal finestrino dell’auto aspetta con trepidazione lo spalancarsi del golfo invaso dalla luce fino all’Istria e la voce del padre, che sempre nello stesso punto, invariabilmente dice: “Ah, qua ti si apre il cuore”.


E lì, proprio in quel punto in mezzo al petto, dove c’è il cuore, a tanti anni di distanza, Giorgio sente intatto quel qualcosa, il mistero della manovra che faceva il macchinista vestito di antracite, quello scarto che ti aggancia a un altro binario. E fa sentire provvisorio tutto quello che c’era prima. —