lunedì 28 dicembre 2020

MODA & MODI

 

Il guardaroba pop di Bridgerton

perfetto per i giorni "rossi"

 

 

 

 


 

 


 

 

Sarà storicamente improbabile, superficiale nella psicologia dei personaggi, prevedibile negli intrecci amorosi e nella loro conclusione, pedante nel sottolineare a ogni inquadratura la parità tra aristocratici bianchi e neri, pura fantascienza nell’Inghilterra Regency del 1813, ma la serie Bridgerton, non a caso sbarcata su Netflix il giorno di Natale, è il prodotto da divano perfetto per i giorni “rossi” delle feste. Dal punto di vista dei costumi è un appagamento per gli occhi, nonostante il sovvertimento di ogni ortodossia.

Firmati dalla newyorkese Ellen Mirojnick, premio Emmy per Behind The Candelabra, che collabora con registi come Oliver Stone e Steven Spielberg e ha inventato il look di Angelina Jolie in Maleficent, sono un tripudio di colori, di fiori, un’esplosione di gioielli bling bling, uno skyline ardito di acconciature e parrucche, un rincorrersi di tiare e di cappelli, con splendidi busti (opera del corsettista Mr Pearl) e infilate di bottoncini che trasformano noiose scene di seduzione in momenti di autentico piacere.

 


 

 

Non aspettatevi l’algida perfezione di Downton Abbey, o il rigore delle riduzioni di Jane Austen per la Bbc, ma uno shakerato pop di Marie Antoinette di Sofia Coppola, La favorita di Lanthimos è un po’ di Piccole donne di Greta Gerwig. Come in quest’ultimo con Meg e Jo, il guardaroba sintetizza a colpo d’occhio il confronto emblematico tra sorelle, nella serie l’efebica Daphne Bridgerton, fresca sposa dell’ombroso e passionale duca di Hastings, perennemente circonfusa da abiti in stile impero in azzurri, grigi e bianchi crepuscolari, e la combattiva protofemminista sorella minore Eloisa, che predilige la libertà di vestiti e soprabiti alla caviglia e non espone il décolleté se non quando a malincuore richiesta dalla presentazione a corte.

Una palette di arancioni, verdi tropicali, gialli “illuminating” (secondo il recente verdetto Pantone) percorre tutti gli otto episodi, trasmettendo il messaggio che sta a cuore alla produttrice Shonda Rhimes, più forte di ogni verosimiglianza: l’incontro e la mescolanza tra culture e l’inclusività. Così i colori caratterizzano e rendono protagonisti i personaggi di contorno, i più interessanti e sfaccettati nel rompere le regole della sottomissione femminile: la maschia regina mistosangue Charlotte, lady Danbury e le sue feste per sole donne, e soprattutto la burrosa e minuscola Penelope, tutta curve e autoironia, la vera personificazione di un girl power ancora di là da venire.

martedì 15 dicembre 2020

MODA & MODI

 

Giallo e grigio, fiducia e vigore verso il 2021

 


 



 

Chiudiamo l’anno all’insegna del giallo grigio. Così ci dice Pantone, l’accademia coloristica americana che indica le tendenze cromatiche per i prossimi mesi, dall’arredamento al make-up, passando per moda, grafica, packaging. Nell’anno terribile della pandemia non potevano che essere due colori controversi a sintetizzare gli umori globali di un mondo diventato in pochi mesi ristretto alle pareti domestiche. L’«ultimate grey», il grigio dell’asettico design nordico, sintetizza tutto il malessere, lo smarrimento, i malumori, l’impotenza davanti al confinamento. Pantone rilancia e ci suggerisce di rovesciarlo e guardarlo in chiave positiva. Il grigio diventa allora lo sfondo su cui costruire, trasmette solidità, fiducia, resistenza, è un grande campo su cui inserire le pennellate di colore che ci serviranno nei prossimi mesi per ritrovare l’entusiasmo in una quotidianità completamente rovesciata.

Nel bigio dello smart working, delle feste solitarie, della negazione degli abbracci, della socialità ridotta, spetta a noi inventarci note di colore, dagli oggetti che ci circondano, all’ombretto sulle palpebre, all’accessorio che movimenta un outfit altrimenti monocorde, come tante giornate che ci siamo lasciati alle spalle. Ecco allora entrare in campo il giallo “illuminating”, una tinta che non piace a tutti (e a pochi sta bene), ma che questa volta equivale a una sferzata di energia. E deve farci dimenticare l'unico giallo che in questi mesi abbiamo sentito nominare a cadenza quotidiana: quello delle zone, il perimetro della nostra minore o maggiore reclusione.

Il binomio funziona meglio nella moda sportiva, l’activewear, dove gli abbinamenti freddi, tanto cari alle bottiglie per i bibitoni da palestra, trasmettono subito adrenalina, movimento, benessere. Nella vita di tutti i giorni l’accoppiata cromatica è più ostica: un tailleur grigio può illuminarsi con una camicia gialla, una gonna pencil di finta pelle si addolcisce con un sottilissimo maglione di mohair color pulcino, i cappotti a vestaglia tonalità fumo non ingrigiscono il viso se interrotti da una sciarpa “solare”, un punto luce all’angolo dell’occhio fa spiccare l’ombretto argentato.
 

Bisogna lavorarci un po’ per trovare l’equilibrio giusto, sembra indicare Pantone. Quest’anno più che mai, non è solo una questione di colore. 

sabato 12 dicembre 2020

L'INEDITO

 

I segreti di Umberto Saba: un figlio naturale

e due commesse che si avvelenarono per lui 




5 marzo 1955, Umberto Saba scrive al suo medico, Umberto Levi, primario nella clinica San Giusto di Gorizia. È la lettera numero tredici del piccolo carteggio tra il poeta e il dottore. Una confessione, finora inedita e dal contenuto scioccante, perchè conferma illazioni già da tempo in circolazione su un oscuro e terribile privato di Saba: l’esistenza di un figlio, Sergio, mai riconosciuto e il suicidio di due sorelle, Margherita e Malvina, entrambe commesse della libreria, che si avvelenarono a breve distanza l’una dall’altra il 19 aprile e il 20 giugno 1922.


Quello che scrive al dottor Levi è un Saba minato nel fisico, bisognoso di continue dosi di morfina, querulo e annebbiato, ma sempre sottilmente manipolatore (glielo imputava lo stesso Bazlen, quando di lui diceva: “ha fatto della sua malattia il suo monumento ed anche un terribile meccanismo per creare negli altri dipendenza affettiva e amorosa”). Scrive dunque Saba a Levi: «Sono tremendamente solo anche perchè ho preteso questa condizione. Non ho mai voluto che qualcuno potesse prendersi cura di me perchè mi sarei sentito offeso e in colpa. Dapprima verso mia figlia che non ha la tempra mentale per curarmi e sollevarmi... Avrei voluto che a prendersi cura di me ci fosse un figlio più forte; lo avrei avuto se non l’avessi respinto. Ma come potevo, stretto dall’odiato-amato amore di due donne, presentare un figlio? Per giunta sano e di un’altra donna? Lina ne sarebbe morta».


La scottante lettera numero 13 fa parte del Fondo Umberto Levi, oggi custodito nella Biblioteca Statale Isontina di Gorizia, dopo l’acquisizione da una famiglia di Cormons imparentata con Giustina Venezian, moglie di Levi. È stata una scelta precisa del bibliofilo Simone Volpato e di Mario Menato, direttore della Biblioteca, quella di non divulgare la missiva incriminata separatamente dall’intero carteggio, perchè avrebbe calamitato l’attenzione morbosa dei lettori, eclissando gli altri passaggi importanti della corrispondenza. La lettera viene ora pubblicata integralmente in “Immondi librai antiquari. Saba libraio, lettore e paziente di Umberto Levi” (Biblion Edizioni, pagg. 370, 25 euro) dal 12 dicembre in libreria, un corposo saggio dei due ricercatori che fa luce anche sulla varietà e consistenza della biblioteca dell’autore del “Canzoniere”, una dimensione coesistente, negli stessi spazi “fisici”, con l’attività di libraio antiquario.

 


 

 

Le lettere raccontano anche dei rapporti di Saba con Gobetti, mentre un altro gustoso inedito è la missiva indirizzata ad Anita Pittoni e scritta dopo il ’52, in cui Saba, dopo averle detto piuttosto seccamente che il fatto di annoverarlo tra gli autori dello Zibaldone non la autorizza a pretendere una pubblicità militante della casa editrice, le suggerisce la pubblicazione de “I pianti” in friulano di Pasolini (“ragazzo ... che sembra si sia formato in un’arcadia letteraria barbarica priva di modelli, che sperimenti una voce arcaica, quasi barbara, che non me lo fa dispiacere...”). 


Completa il saggio una lunga nota di Antonio Della Rocca sulle famiglie Levi e Venezian. A parlare del figlio naturale di Saba, Sergio, fu per la prima volta Stelio Mattioni, nella sua biografia pubblicata da Camunia nell’89. Era il 1959 - e lo riporta il Piccolo nel 2016 - quando una donna di mezza età andò a trovare Mattioni nel suo ufficio alla sede triestina della raffineria Total, rispondendo all’appello che lo stesso scrittore aveva fatto pubblicare sul Piccolo per la ricerca, dietro compenso, di lettere, appunti, ricordi personali del poeta in vista dell’opera biografica a cui stava lavorando. La donna aveva con sè una ventina di lettere, che sosteneva autentiche, in cui si svelava tutta la storia di Sergio, figlio mai riconosciuto del poeta. Per lasciarle a Mattioni, però, chiedeva l’assunzione del ragazzo nella raffineria. Nonostante Mattioni si schermisse, non potendo promettere alcun impiego, la donna gli regalò una missiva per stuzzicare la sua attenzione, datata 2 luglio 1929, e indirizzata da Saba a una sua commessa nella libreria antiquaria, Erna Poleselli. La latrice delle lettere lasciò un recapito, ma quando Mattioni tentò di rintracciarla, la misteriosa Erna, ovvero Ernesta, aveva cambiato casa.


La lettera n. 13 prosegue ed entra nella parte più spinosa della confessione al medico Levi, pregandolo di non farne parola con altri: «Ma in quella libreria ho sempre convissuto con il senso di colpa di aver spinto a morire due giovani ragazze di cui amai con fervore la loro giovane carne; due sorelle che, per la vergogna di tale sentimento e per aver sottratto dei libri decisero di uccidersi. E per me che ebbi tanta parte in questa loro decisione, giocando sulla loro giovinezza, fu una continua fonte di ansia e di dolore convivere con la loro morte. La libreria fu il luogo della mia morte e ciò è la pena».

 
Di Margherita e Malvina Frankel, 23 e 21 anni, figlie di Elena Fano, una cugina della moglie di Saba, aveva già parlato Roberto Curci nel suo libro “Via San Nicolò 30. Traditori e traditi nella Trieste nazista” (Il Mulino). Saba insidiava le sorelle nella libreria. Lo stesso Mattioni ricorda come l’appetito sessuale sempre acceso del poeta fosse stato trasfigurato nei versi per “Chiaretta” e “Paolina”, dove palpita la felicità dell’uomo maturo che ruba un bacio, tocca il seno, seduce due giovani donne. Perchè si avvelenarono Margherita e Malvina? Per la vergogna di aver ceduto alle attenzioni di Saba? O forse per il legame di parentela che le univa a Lina e rendeva impossibile rivelarle le attenzioni del marito?


Il poeta non le aveva dimenticate, a distanza di anni le sorelle suicide pesavano sulla sua coscienza. A Malvina aveva dedicato una delle liriche di “Fanciulle” del 1925, di Margherita parlava in una lettera ad Aldo Fortuna: «La mia signorina si è uccisa, due giorni dopo il mio ritorno a Trieste. Era una ragazza ben singolare, ch’io ebbi il torto di nemmeno vedere fin ch’era viva, ma il modo come s’è ucciso m’ha fatto accorto d’aver avuto accanto per sei mesi una creatura che avrei dovuto ammirare e curare».

 
La lettera n. 13 va al di là delle congetture. Certo, il Saba che scrive a Levi non è lucido, ma mai c’era stata un’ammissione così esplicita della sua responsabilità nel suicidio delle ragazze, avvenuto in quella libreria che è una sorta di scena del crimine degli “abusi” sessuali. Confessione piena? Affatto. Anche questa volta si infila tra le righe la manipolazione: ha amato sì “la giovane carne” delle Frankel, ma loro potrebbero anche essersi avvelenate “per aver sottratto dei libri”. Il poeta voleva alleggerire il suo ruolo? Insinuava il dubbio sulla probità delle commesse? La stessa chiusa fa dubitare: Saba prega il dottore di ricordarlo “come una buona persona che spesso cadeva nel gusto di far male”, non come poeta, perchè, aggiunge, “non lo sono mai stato”. Un congedo del tutto in contraddizione con altre lettere a Levi, già pubblicate da Zovatto nel 1986, in cui Saba rivendica fieramente la sua arte.


Ugualmente drammatica è l’altra lettera inedita presentata nel volume di Volpato e Menato. Non c’è data nella missiva. «Dobbiamo fare un patto, segreto», esordisce Saba rivolto al medico. «Ad ogni mia richiesta di morfina lei dovrà rispondere positivamente ed io le sarò grato e la ricompenserò diventando un paziente diligente. In più, per sdebitarmi le regalerò alcuni libri». È un tentativo di corruzione destinato a rimanere vano. Saba lo sa bene, anche se cerca di allettare il “buon amico dottore” con i preziosi volumi, “tutti esemplari assai costosi”, sottratti dalla sua libreria, sotto il naso di Carletto: Nievo, Leopardi, un Petrarca, anche un certo Pascoli, non quello sdolcinato dell’aquilone e dell’assiuolo, a cui si riteneva assolutamente superiore. 


E prosegue, pregando il medico di tagliare i tempi e fornirgli i medicinali, con un’insistenza che si avverte sottotraccia: «Avrò bisogno di vederla per tediarla con tutti i miei problemi mentali che si presentano con malanni fisici insopportabili; lei mi ascolterà per breve tempo e poi sarà perentorio nella cura (perchè non accelerare l’evento in modo tale da risparmiarci una dolorosa commedia?»).
La lettera deve rimanere segreta, conclude il poeta, ringraziando Levi per la sua “pazienza sterminata” e definendosi “intransigente e del tutto irrecuperabile”.
Poi un guizzo, tenta la carta dell’ironia: «Le mancherò, sono certo, un giorno!», chiude la missiva.

sabato 5 dicembre 2020

IL LIBRO

 

Elizabeth Jane Howard

La caduta senza fine di Daisy

nelle grinfie

del giardiniere predatore 




 

Come un animale Henry si impadronisce del territorio dove si muoverà, lo studia, impara a riconoscerne gli ambienti e gli odori, coglie e registra ogni dettaglio che potrebbe tradirlo. Lo stesso fa con le donne: le individua, le annusa, si infila nella loro vita con mosse calcolate, diventa presente, poi assiduo, poi indispensabile. Prima che la preda possa rendersene conto, Henry è entrato nella sua testa e la pilota dal di dentro, tirando i fili dell’adulazione, della comprensione, del desiderio sessuale, fino a ottenere il risultato voluto. È uno psicopatico che sa impersonare con naturalezza tutta la gamma dei ruoli, da servitore ad amante, senza che la vittima designata si accorga di essere tale. E, come capita per alcuni animali, solo gli estranei, quelli che li guardano dal di fuori, riescono a percepire la loro seconda natura, gli “scarti” nel comportamento, il lato ferino, anafettivo, opportunistico, potenzialmente letale per il più debole del malato rapporto a due. È un riconoscimento mutuo, una diffidenza istintiva, che scatena la reazione del predatore e l’allontanamento di chi cerca di fare breccia nel suo perimetro.


Elizabeth Jane Howard (1923-2014), l’acclamata autrice inglese della saga dei Cazalet ha vissuto questa esperienza e, almeno in parte, la racconta attraverso la finzione nel romanzo “Falling” del 1969, che ora Fazi ripubblica con il titolo, meno efficace, di “Perdersi”, nella bella traduzione di Sabrina Terziani e Manuela Francescon.

 

 È la storia della relazione tra Daisy, sceneggiatrice di successo ultrasessantenne, bellezza appena appannata e due matrimoni falliti alle spalle, e il giardiniere Henry, anche lui over sessanta, che della sua presa sulle donne ha fatto un’arte perversa di plagio e seduzione per i suoi interessi. Lui parla al lettore in prima persona, la vicenda di lei è invece raccontata in terza, a marcare l’aspetto più interessante del romanzo, che non è la prevedibile dipendenza in cui la donna cadrà, circuita impercettibilmente fino al totale annientamento di ogni sua difesa, ma il viaggio nella mente perturbata dell’abusatore.


Orfano, allontanato dal padre e dalla matrigna, costretto a lasciare gli studi e a diventare giardiniere come il genitore, Henry ha una famelica passione per i libri, che diventano altrettanti strumenti per costruire la sua immagine agli occhi degli altri: una mente eletta costretta dalla malasorte e dagli amori sfortunati a condurre una vita al di sotto della sua cultura e dei suoi meriti, in attesa dell’incontro che lo riscatterà.


Quando Daisy, dopo la rottura col secondo marito, l’affascinante attore Jason più giovane di lei di sette anni, decide di acquistare un cottage fuori Londra per curare le sue ferite, Henry capisce che l’incontro fatidico è finalmente arrivato. Si offre come giardiniere e nei lunghi mesi un cui Daisy è lontana dalla sua proprietà, trattenuta prima in Messico poi a Los Angeles dalla frattura di un piede durante una vacanza, Henry applica la strategia che ha collaudato fin da bambino, con la sua prima vittima, la bruttina e ricca Daphne, figlia dei proprietari della tenuta dove lavorava il padre: conoscere il territorio, poi la personalità della sua preda, per anticiparne i desideri e soggiogarne a poco a poco la volontà. Legge le sceneggiature di Daisy, i libri della sua biblioteca, infine scova il diario della donna e cataloga tutte le informazioni utili sul suo passato. Apprende degli amori falliti, dell’unica figlia con cui ha un rapporto problematico e comincia ad avvicinarsi a lei nel modo che gli è più congeniale: le scrive, prima da dipendente che aspetta istruzioni sulle piantumazioni, poi da confidente, infine da amico, in un registro che passa magistralmente dal formale al colloquiale all’allusivo.


La preparazione dell’ingannno è lunghissima, occupa buona parte del libro, e accompagna il lettore nei meandri di una mente cinica, dalle cui confessioni in prima persona è impossibile districare la verità dall’artificio. Alla fine, quando l’obiettivo sembra a portata di mano, un diniego di Daisy determinerà lo “scarto”, quella perdita di controllo che gli estranei avevano intuito nella personalità dell’uomo. Gli eventi precipitano, anche troppo repentinamente per il palato del lettore ormai abituato alla lenta progressione nella posta a Daisy. “Falling”, la caduta del titolo originale, resta nel finale sospeso come su un precipizio. Henry è ancora là fuori, sembra dirci l’autrice, che non tace le sue fragilità. E quanti Henry ci sono, pronti a porgere il braccio a una donna per trascinarla a fondo? 

@boria_a

mercoledì 2 dicembre 2020

L'INTERVISTA

 Buon compleanno Roberto Capucci!

I novant'anni dell'ultimo aristocratico della moda italiana

 

Roberto Capucci fotografato da Gianluca Baronchelli

 

 

Settant’anni tra colonne, capitelli, rosoni, architetture ardite. Prima immaginate, poi certosinamente disegnate, in bianco e nero e a colori, infine trasferite nelle sete, nelle organze, nei taffetà. Oggi Roberto Capucci, l’ultimo aristocratico della moda italiana, compie novant’anni. Dice di non volere auguri, anche se in fondo non gli dispiace la telefonata degli amici, pochi e selezionati, nella casa che guarda Roma ai suoi piedi.

Ma una parte del cuore del couturier è a Villa Manin di Passariano (Udine), dove da alcuni anni hanno sede la Fondazione che porta il suo nome e l’imponente archivio Capucci, 480 abiti, migliaia di disegni e illustrazioni, documenti, immagini, audiovisivi, un capitolo lunghissimo, irripetibile della moda italiana. E il Friuli Venezia Giulia, regione che Capucci ama, gli ha tributato negli anni due importanti omaggi, a Palazzo Attems Petzenstein e ai Musei provinciali di Borgo Castello di Gorizia nel 2004, in una mostra di 110 abiti-scultura e di disegni autografi, curata da Raffaella Sgubin, e a Villa Manin nel 2018, dove, per iniziativa dell’Erpac, le creazioni di Capucci hanno incontrato le immagini floreali di Massimo Gardone.

 

 

Roberto Capucci e le immagini di Massimo Gardone a Villa Manin di Passariano



 

 

Foto di Massimo Gardone

 

 

 

Maestro Capucci, come festeggia questo traguardo? «Ma sa che da quando sono nato non ho mai festeggiato un compleanno? Quando ero a scuola mia mamma mi spingeva a invitare gli amichetti della classe. Ho sempre risposto allo stesso modo: voglio stare da solo, per conto mio, a pensare. Che c’è da celebrare? Direi che piuttosto c’è da meditare sugli anni che vanno avanti. Sono arrivato a novanta e sono contento, perchè nella mia vita ho fatto quello che volevo».

 

 

Roberto Capucci fotografato da Gianluca Baronchelli

 


Settant’anni di carriera. Ha ancora un sogno? «Sogno sempre. Forse sono sbagliato, perchè invece di pensare a cose più pratiche, ho sempre sognato di fare i vestiti che mi piacevano, che davano un senso alla mia vita. Tutto quello che ho fatto è nato dall’amore per questo lavoro, dallo stare con la testa chinata sul foglio 50 per 70 a disegnare, prima in bianco e nero, poi, quando tutto è perfetto, col colore. Ho iniziato negli anni ’50 e continuo, ogni giorno. Questa è la mia vita. Una forma di egoismo? Non so, non credo, per me la cosa più importante è creare».


E un rimpianto? «Nessuno. Ho avuto una bella famiglia, adoravo mia madre, mia sorella lavorava con me, mio fratello, di dodici anni più giovane, era attore, poi imprenditore. Ha avuto sette figli, pensi, e tre mogli, poi per fortuna si è calmato. Quando ci vedevamo erano momenti d’amore e di felicità. Oggi ne ho dieci, tra nipoti e pronipoti».


Un suo abito celebre è tornato pochi giorni fa in televisione, nel film sulla vita di Rita Levi Montalcini. Com’è nato quel vestito?
«In modo molto semplice. Sapevo dell’Oscar, ma la Montalcini l’avevo vista in foto solo seduta. È piccola e magrissima, mi dissero. Così disegnai un vestito con tre colori molto caravaggeschi, verde scuro il davanti, viola scuro ai lati, dietro amaranto. “È perfetto per me”, mi disse. Avevo disegnato una leggera coda di mezzo metro, che lei rifiutò. “Le pare che porto la coda?”. Allora io le dissi: “Professoressa, lei è l’unica donna che prende il Nobel. Quando si alza, si alzeranno tutti gli uomini in frac. Lei andrà verso il re, perciò lei deve essere la regina della serata”. Accettò. “La chiamo se non casco”, mi salutò. Siamo diventati molto amici. Dopo una mostra che feci a Stoccolma, inaugurata dalla regina, che mi chiese di portare il vestito del Nobel, la Montalcini me lo regalò. “Capucci - disse - ormai l’hanno visto tutti”».

 

 

 



Lei ha lavorato con Pasolini in “Teorema”. Come lo ricorda? «Educatissimo, rispettoso, una persona meravigliosa. Quando venne in sartoria erano tutti perplessi. Io invece ero contento: avevo letto tutti i suoi libri, le sue poesie, adoravo quella dedicata alla madre. Pasolini mi disse: “Le porto la scaletta del film così lei inizia a disegnare per questa donna bellissima e borghese”. Io ero talmente emozionato che non gli chiesi nemmeno chi fosse la protagonista. Poi, quando venne la seconda volta, me lo disse. Mi prese quasi un infarto. Era l’attrice che più amavo, Silvana Mangano. Avevo realizzato due desideri: conoscere Pasolini e vestire la Mangano, che non era mai venuta da me, perchè era fedele alla sua sartoria».

 

 

"Teorema" (foto di Angelo Novi/Cineteca di Bologna)
 


La sua musa... «Figlia di un ferroviere, origini umili, ma classe incredibile, innata. Difficile spiegare cos’era, era bella tutta, gambe, mani, ginocchia, vita sottile. Mi raccontò che era nauseata dalla parte che faceva in “Riso amaro”, non le piaceva, non voleva fare quel tipo di bomba atomica italiana. Cominciò a dimagrire finchè in “Morte a Venezia” di Visconti era una visione. Stupenda». 


Lei ancora la disegna. «Sempre. Mi ha talmente influenzato che dopo di lei non ho più voluto vestire nessuna attrice sul set. Quel film è stato un sogno, tutto è andato bene, ne ho un ricordo prezioso. Nella vita ne basta uno, una cosa bella non la devi ripetere».


Ha sempre vestito, invece Franca Valeri, mancata poco tempo fa...
«Non aveva il corpo della Mangano, ma era straordinaria, quello che poteva dire con una battuta valeva l’oro del mondo. Spiritosissima, intelligentissima, coltissima. La adoravo, eravamo amici per la pelle. L’ultimo vestito gliel’ho fatto a 95 anni. Ne aveva centinaia di miei, tutti colorati, alcuni neri ma sempre con piccole rushes a colori, blu, royale, rosso scuro, verde. Si vestiva con facilità, perchè non portava abiti alla moda ma abiti adatti a Franca Valeri».


Che dive ha amato vestire? «Non la Loren, era un po’ troppa, una donna forte, e poi non avevamo un contatto. Catherine Spaak, la prima moglie di mio fratello, era molto bella, molto francese. Le attrici di teatro le ho vestite tutte, Rina Morelli, Andreina Pagnani, Valeria Moriconi, Mariangela Melato. Me ne mancano due dive: la Lollobrigida, che non era il mio genere. E Monica Vitti, persona bellissima, ero suo amico, ma stava molto attenta a non spendere».


E Marilyn? «L’ho vestita, ma non l’ho mai conosciuta. Veniva da me Milton Green, suo amico e fotografo personale, che era anche amico di una mia collaboratrice. Io gli davo i disegni con i campioni di tessuto, sapevo che la Monroe amava abiti stretti, drappeggiati. Lui mi portava le misure e i modelli che aveva scelto. Purtroppo quando è morta sono stati venduti da Sotheby’s a Londra, l’ho saputo tardi, altrimenti almeno uno l’avrei ricomprato per ricordo».


Adesso lei disegna costumi per il balletto, come quest’estate, per il Festival di Spoleto. «È stata un’esperienza straordinaria. Andavo sempre a Spoleto ai tempi di Visconti, di Nureyev, di Shippers, poi, morti loro, l’ho un po’ disertato. Ultimamente ho conosciuto Daniele Cipriani, bravissimo organizzatore di balletti, che ha una passione pazzesca per i miei abiti. Mi ha proposto di realizzare quindici bozzetti per “Le creature di Prometeo”, unica partitura di Beethoven per la danza. È stato un successo, alla fine gli applausi erano quasi imbarazzanti».

 
Lei ha cominciato a vent’anni, nel ’51, con Giovan Battista Giorgini, l’inventore della moda italiana. C’è un momento in cui si è sentito scoraggiato? «Sì, una volta, tornando da Parigi. All’epoca avevo due case di moda, una a Parigi in Rue Cambon e una a Roma in via Gregoriana. Facevo una vita d’inferno, avanti e indietro dalla Francia. Avvertii un senso di stanchezza, volevo mostrare i miei abiti quando ero pronto, senza scadenze obbligate. Il mio “Oceano”, ordinato dal Ministero degli esteri per l’Expo di Lisbona, costato una follia, richiese il lavoro di cinque ragazze per cinque mesi. Impensabile per me fare due collezioni l’anno».


È uno stress che vivono molti stilisti di oggi. «Uno sbaglio. Il lato commerciale vince, intorno a questi signori c’è gente che li sfrutta, poveretti. Quando ho portato la mia collezione a Berlino, nel 1992, c’erano 232 modelli, fatti in un anno e mezzo circa. Ho esposto in Cina, Giappone, in America, in Europa, ma sempre con i miei tempi».


Cosa risponde a chi dice che lei fa sculture, non vestiti da mettersi addosso? «Lavoro dal ’51, se non avessi mai venduto, sarei fallito da tempo. Io ho sempre venduto, indubbiamente a signore molto particolari. Le principesse romane, le aristocratiche, erano tutte mie clienti, donne di enorme personalità, con cui lavoravo benissimo, sapevo quello che a loro piaceva. La principessa Pallavicini, per esempio, che ha uno dei palazzi più belli d’Italia, venne in sartoria negli anni ’50. Voleva maniche lunghe, scollatura a giro collo, vita stretta e la coda da sera. Io obiettai: “La calpestano principessa”. E lei mi rispose: «Un signore non pesta mai la coda a una dama”. S’immagini dire oggi una cosa del genere? Mi mettono in galera, dicono “questo è un pazzo”».

 

 

La mostra di Roberto Capucci a Palazzo Attems di Gorizia nel 2004 (foto Carlo Slauzero)


È contento di aver raccolto tutto il suo archivio a Villa Manin? «Moltissimo. Il posto è splendido, fuori dal mondo, in un punto eccezionale, dove non c’è moda. È perfetto per chi, come me, non ha mai fatto la moda alla moda. Nel ’58, quando inventai la linea quadrata, d’avanguardia e molto rischiosa, la stampa italiana mi coprì di critiche. “Ha messo la donna in scatola, è morto” dissero. Poi l’America mi diede l’Oscar per la collezione dell’anno. Quando tornai in Italia ricevetti un premio anche a Milano, me lo consegnò Jole Veneziani. “Lo prendo con molta gioia - ringraziai - ma ricordatevi che quando ho mostrato questi abiti in Italia mi avete massacrato”».


Lei viene spesso in Friuli Venezia Giulia... «Mi piace da morire, c’è calma, educazione. Roma è tra le più belle città del mondo, ma è caotica, troppo turistica, almeno prima del virus. Io ci sono nato, da casa mia ho un panorama stupendo, ma ogni tanto mi dà molta gioia andare in luoghi più sereni, più familiari».


Capucci si è mai innamorato? «Mai. Sì, del mio lavoro».


Lei è molto critico verso la moda di oggi. «Quando vedo la donna dissacrata, mezza nuda, che gira per le passerelle, non la amo molto. Fare moda è avere rispetto per la donna. Non si può servirsene come strumento di divertimento. La donna è un simbolo talmente meraviglioso, è madre, moglie, mette al mondo i figli, li educa. Come si fa a massacrarla? Perchè uno che fa moda si deve sbizzarrire per le proprie follie? Non mi riguarda».


Lascia un erede? «No, nessuno. Ho fatto una moda molto difficile ed è molto difficile trovare qualcuno che la continui. E l’ho fatta in un momento eccezionale, dopo la guerra, quando la gente ricominciava a vivere e le donne avevano voglia di vestiti, di ricevimenti, di cose belle. Avevo alle spalle il liceo artistico, gli studi all’Accademia di belle arti. La mia mano era più propensa a disegnare architetture che vestiti, mi interessavano più le linee che gli ornamenti. Oggi chi può dire a un ragazzo di fare questo percorso?».


Come si vestirà oggi? «Pullover a collo alto, che rigiro, e pantaloni di lana. Ne ho talmente tanti di colori da mettermi addosso che a volte sembro un pappagallo. Mi piacciono molto, mi fanno pensare di essere più giovane».


C’è una donna che ancora vorrebbe vestire? «Un certo tipo di donna è sparito, è curiosissimo, non se ne sente più parlare. Alle attrici tutti quelli che fanno il prêt-à-porter oggi regalano vestiti. Non c’è un’altra Audrey Hepburn, che purtroppo io non vestii perché il suo sarto era Givenchy, non c’è la Garbo, la Mangano. No, non mi viene in mente nessuna».

martedì 1 dicembre 2020

MODA & MODI 

Black o Block? Il venerdì nero più divisivo

 

 

Black Friday, Block Friday. Mentre ci dibattiamo tra i colori delle zone, sperando che la palette del confinamento da arancione non passi a toni più decisi, tra le pareti domestiche si infiltrano gli sconti del venerdì nero. Non solo l’americanissimo giorno che segue il Thanksgiving, cioè il 27 novembre, da qualche anno importato con successo in Europa, ma un’intera settimana di ribassi pilotati dai colossi dell’e-commerce. Black Friday divisivo, quest’anno più che mai, tra i commercianti che, per non essere tagliati fuori del tutto, si allineano all’innaturale corsa agli sconti, e quelli che resistono, difendendo il prezzo “giusto”. Il coprifuoco è un perverso alleato dell’acquisto compulsivo. Gli esperti dicono che 83 milioni di vendite al giorno migreranno dai negozi fisici alle piattaforme. Chiusi tra quattro pareti, il clic sul l’uscita del carrello virtuale ha un effetto risarcitorio. Mentre scrivo la radio bombarda gli spot di Amazon: fai prima i regali di Natale, hai un’intera settimana di offerte, eviterei le facce perplesse allo scarto dei pacchi...


In questo 2020 sospeso le proteste contro i ribassi del Friday nero si fanno sentire più forti, sull’onda del movimento planetario che, ben prima del virus, ha inchiodato la moda cheap e fast (ma non solo) alle sue responsabilità: massivamente inquinante, moltiplicatrice degli sprechi, sfruttatrice dei lavoratori. I negozi di “prossimità” cercano di resistere agli allettamenti dei Golia della distribuzione, facendo leva sulle parole che durante il lockdown della primavera scorsa abbiamo ripetuto come un mantra: acquisti etici, soppesati, mirati a valorizzare qualità e territorialità, garantendo la rete dei negozi che sostanziano il nostro tessuto sociale. Acquisti che non depredano nè la Terra nè il capitale umano (i magazzinieri di Amazon in queste ore, i fattorini delle consegne, che oltretutto intasano e inquinano le città).


Lentezza, è la parola chiave del 2020 pandemico, un significato ampio, esteso al diritto-dovere di riprenderci tempi più umani, anche negli acquisti. Sobrietà, ha detto Papa Francesco domenica all’Angelus, invitando a guardare chi ci sta vicino. Alcuni grandi brand dell’abbigliamento suggeriscono di disertare l’acquisto frenetico per stare con gli altri o all’aria aperta, consapevoli che le nuove generazioni premiano scelte più sostenibili. Qualsiasi corsa allo sconto interroga la nostra coscienza. Anche la corsa che non vede nessuno, seduti sul divano, davanti a uno schermo.