lunedì 27 maggio 2019

IL LIBRO

Yokomizo Seishi e il mistero degli sposi pugnalati la prima notte di nozze


 



Una coppia di sposi trovata morta, sul corpo di entrambi ferite di arma da taglio, nella loro prima notte di nozze. La camera della dependance di una vasta proprietà è chiusa dall’interno, le finestre sono sigillate, salvo una feritoia da cui nessun essere umano può avere accesso all’alcova. All’esterno una spada tradizionale giapponese.

È la fine del novembre del 1937, nel villaggio di Yamanodani, nella prefettura di Okayama. Lui è Kenzō Ichiyanagi, quarantenne colto e metodico, primogenito di una famiglia nobile, lei, Katsuko, un’insegnante molto più giovane, mal digerita dalla futura suocera: alla ragazza non perdona di essere di classe inferiore, figlia di suoi fittavoli arricchiti all’estero, e di non saper suonare l’antico strumento tradizionale a corde, il koto, come la consuetudine familiare impone alla promessa nel corso della cerimonia.


Intorno ai due cadaveri sgozzati, si muovono pochi personaggi: la vedova Itoko, madre dello sposo, due dei suoi fratelli, il giovanotto Saburō, sfaccendato amante dei gialli, e la diciassettenne Suzuko, affetta da ritardo mentale ma sublime suonatrice, il cugino Ryōsuke, che funge da amministratore della casa e ha occupato il posto del primo figlio, troppo impenetrabile e distante, nella fiducia della padrona di casa. Da parte della sposa, un unico invitato è intervenuto alla cerimonia, lo zio Ginzō, provvidenzialmente amico e benefattore di un giovane investigatore che aiuterà a risolvere il soffocante caso dei novelli sposi ammazzati.


Nei giorni prima delle nozze, uno strano personaggio, con tre dita e una cicatrice che gli devasta il volto, fa la sua comparsa nel villaggio, si ferma in una locanda per chiedere un bicchier d’acqua e informazioni sulla proprietà degli Ichiyanagy. Il colpevole perfetto, quando in casa vengono trovate impronte insanguinate di tre plettri, gli oggetti, simili a unghie, necessari per pizzicare le tredici corde del koto.


Se amate i gialli adrenalinici, i dialoghi serrati, i colpi di scena che accelerano la storia, “Il detective Kindaichi” (Sellerio, pagg. 208, euro 13), piccolo, raffinato noir di Yokomizo Seishi (1902-1981), uno dei massimi esponenti del crime nipponico - ammiratore dei maestri del genere “camera chiusa” come gli americani Carr e Van Dine, il francese Leroux, Conan Doyle e Agatha Christie citati esplicitamente - vi lascerà perplessi, a bocca asciutta.





Ma non è solo il mistero del duplice delitto nell’ambiente inaccessibile a creare l’atmosfera di soffocamento e sospetto che permea le pagine. È anche la circolarità dei personaggi, che si muovono in un ambiente ristretto alla proprietà della famiglia, sempre gli stessi, almeno fintantochè il giovane detective Kindaichi, grassoccio e trasandato, arriva in treno al villaggio e comincia a interrogare i parenti degli sposi, a osservare gli ambienti, a sommare i tanti, troppi indizi apparentemente univoci, a prendere iniziative incomprensibili che rivelano come già la strategia investigativa sia nella sua testa. 


I personaggi li immaginiamo lenti e solenni nelle loro hakama, la gonna pantalone maschile, ai piedi gli geta, le calzature unisex rialzate sulla piattaforma e con la stringa che divide l’alluce dalle altre dita, muoversi tra pareti laccate di rosso, far scivolare le porte scorrevoli con lo scheletro di legno e l’anima di carta lucida, camminare sulla neve che ovatta i rumori, imbozzola la grande casa e, incredibilmente, nasconde alcune impronte e ne lascia evidenti altre. Possibile?


Un mondo di regole, di gerarchie sociali, di codici d’onore fa maturare il fatto di sangue. Kenzō, mai prima fidanzato, si è imposto sulla madre per sposare una donna di condizione inferiore, si è vergognato perchè è toccato alla sorella Suzuko sostituirla al koto, è irritato dal confronto col cugino, che minaccia il suo ruolo negli equilibri familiari. In Katsuko ha visto la gioventù, l’istruzione, la purezza, al punto da schierarsi contro tutti per lei. Chi, allora, poteva avere interesse a eliminare entrambi, quasi si trattasse di ricostituire un ordine violato?


La soluzione del giallo, come vogliono i codici di questo genere, è un perfetto meccanismo ingegneristico, cui concorrono più persone. Chi sia il colpevole è poco interessante, il pregio del noir è l’averci portato dentro la sua testa, la vera camera chiusa.

@boria_a

venerdì 24 maggio 2019

IL LIBRO

Ninfa dormiente di Ilaria Tuti
in anteprima il secondo thriller ambientato in Val Resia





L’editore Longanesi ha puntato forte su di lei. Cinquantamila copie per il secondo thriller di Ilaria Tuti, “Ninfa dormiente”, che da lunedì 27 maggio sarà in libreria (pagg. 380, euro 18,60). L’autrice lo presenterà domenica 26 maggio in anteprima nel suo paese, a Palazzo Elti alle 18, in dialogo col direttore editoriale Giuseppe Strazzeri.

Dopo l’exploit dell’anno scorso con “Fiori sopra l’inferno”, giallo ambientato nell’immaginario paese di Travenì nelle Dolomiti friulane, l’attesa per il secondo mistero con protagonista l’ispettrice sessantenne Teresa Battaglia, è altissima e il numero di copie stampato dall’editore lo conferma. Mentre nel 2018 il primo romanzo occupava per nove settimane la top ten delle vendite in Italia e poi viaggiava nel mondo, venduto alla Fiera di Francoforte in ventidue paesi prima ancora di vedere le stampe, Ilaria Tuti, tra un tour di presentazione e l’altro, si è rimessa subito al lavoro e, a poco più di un anno di distanza, ha impegnato la sua acciaccata profiler in un’indagine che ancora una volta parte da lontano.



Ilaria Tuti fotografata da Beatrice Mancini


Un “cold case” negli ultimi giorni della guerra partigiana in Val di Resia, per risolvere il quale l’investigatrice, diabetica e con una memoria fragile quanto le sue antenne sono sensibili e sempre all’erta, dovrà scavare tra silenzi, segreti, paure, tradizioni e rituali, difesi gelosamente da ogni intromissione da un popolo antico. Il thriller non fa prendere fiato al lettore, spostando e depistando continuamente la sua attenzione tra una miriade di personaggi e di circostanze, disseminando prove e indizi, incrociando passato e presente, storia e memoria, con una nota di costante tensione e inquietudine che l’autrice è abilissima ad alimentare in ogni pagina. Complice un mondo chiuso e delicato, un paesaggio incombente e un testimone reale, che ha condiviso con Tuti un ricordo di bambino diventato filo robusto della trama.

Chi è la Ninfa dormiente? Un quadro, il ritratto di un’esotica e bellissima ragazza, dipinto con una sostanza raccapricciante: sangue di donna. L’autore dell’opera è un partigiano della Garibaldi, Alessio Andrian, che depose per sempre i pennelli il 20 aprile 1945, a 23 anni, il giorno in cui creò la sua Ninfa, e dieci giorni dopo fu ritrovato a Bovec, in Jugoslavia, proprio dietro il Canal del Ferro, coperto di sangue non suo, agitato come un demonio e con il ritratto arrotolato in mano. Da allora, l’uomo è diventato una “tomba vivente”: non ha mai più parlato e trascorre le sue giornate infossato in una poltrona, con i cristallini occhi azzurri piantati nel bosco davanti a sè. I suoi quadri, dieci in tutto oltre alla Ninfa, realizzati in montagna nei giorni della Resistenza, furono notati da un soldato americano intenditore d’arte e nel tempo hanno raggiunto quotazioni altissime. Ma quando il bisnipote di Andrian, Raffaello, porta il ritratto in una galleria, il sangue viene scoperto e l’oscura identità della Ninfa richiama nella valle l’ispettrice Battaglia e il suo braccio destro, Massimo Marini.


Tra i quadri di Andrian ce n’è un altro con una scena singolare e inquietante: due bambini, una femmina dagli occhi eccitati, e un maschio con in mano un fucile fumante. Accanto a loro un giovane partigiano e nella strada sottostante un militare tedesco su un carro trainato da un cavallo, che scarta per il colpo sparato. Chi sono i personaggi dipinti? E l’episodio è reale o immaginato dal pittore?

Le due storie si intrecciano quando Teresa scopre che il dna della “Ninfa”, unico al mondo e solo dei resiani, è quello della giovane Aniza, scomparsa misteriosamente proprio il 20 aprile 1945 mentre si inoltrava nel bosco per incontrare qualcuno, forse un innamorato. Tutto il paese la cercò, invano, mentre nell’aria si alzavano le note di violino dell’arduo “Trillo del diavolo” di Tartini. La bambina dell’altro quadro è invece la nipote di Aniza, la piccola Ewa, e il maschietto vicino a lei è suo fratello Francesco, tutt’ora vivente. Ewa è morta di malattia da anni, sua figlia Hanna è perita oscuramente in un incendio, l’ultima discendente in linea femminile della famiglia è la giovane Krisnja, identica ad Aniza, quasi una Ninfa rediviva.


Un’altra opera d’arte si innesta nella trama, un’icona che rappresenta la “Virgen Negra”, Madonna blasfema tardobizantina che altro non è che Iside, dea oggetto di un culto oscuro, per adepti. Fu rubata dal santuario di Castelmonte e i bambini la sottrassero a loro volta al tedesco, credendolo morto: che fine ha fatto?


In un mondo sospeso e impenetrabile, ferino e fortemente matriarcale, Teresa Battaglia, con il corpo franante e un dolore lontano e mai sopito, deve opporsi a donne sciamane, guerriere, fascinose, che sbucano del passato e incombono sul presente. Una sorellanza che aiuta a dare la vita, nel cerchio del parto, ma che, quella vita stessa, può sottometterla, plagiarla, eliminarla. Anche l’ispettore Marini combatte contro un dna che crede destino inespugnabile, ma Teresa lo aiuterà a liberarsi dai fantasmi, riversando su di lui l’accudimento per il figlio mai nato, che ancora sente agitarsi dentro di lei. In vista di una probabile serialità, l’autrice inserisce un nuovo personaggio, la giovane ipovedente Blanca e il suo Smokey, cane da ossa e pezzi di cadavere.

Nessun set di fantasia, nel secondo romanzo di Ilaria Tuti. I luoghi sono reali, e la tutela delle minoranze etno-linguistiche un problema sempre aperto, terreno minato a queste latitudini. La Val Resia è abitata da un popolo antichissimo, giunto dal Mar Caspio, nel VI secolo d.C., al seguito di Unni e Avari. La lingua parlata è uno slavo arcaico e nobile, mescolanza di suoni e radici dai confini dell’Europa, la cui custodia e trasmissione sono affidate alle donne, come i nomi, la conoscenza delle erbe, la memoria dei canti e delle tradizioni. L’assimilazione legislativa allo sloveno è una ferita per quest’etnia, superba della sua unicità.


Mescolando realtà e fantasia nella trama del thriller, Ilaria Tuti affronta temi delicati, facendosi portavoce della comunità, senza paura di esporsi. Come la sua protagonista Teresa, che alla fine di un’intricata e ambiziosa tessitura, riuscirà a ridare pace ad Aniza e al partigiano pittore. L’investigatrice riavrà anche il diario che le era stato rubato, con cui riempie i buchi della memoria, insieme a un laconico avvertimento. Il primo indizio di un’altra indagine. 

@boria_a

martedì 21 maggio 2019

MODA & MODI

Fegato da mutanda 


Janties di Y/Project alla Parigi Fashion Week



Janties, jeans più panties: una crasi di inglesismi che in pratica significa mutanda di denim. Ai microshorts, già spuntati con i primi caldi, abbiamo da tempo allenato l’occhio, versione rieditata dei Jesus di chi mi ama mi segua, che nel 1973 si incollavano con sommo scandalo agli imperiali glutei della modella Donna Jordan e oggi democraticamente si appiccicano a sederi di chiunque. Che novità allora? I janties sono un azzardo in più, spostano l’asticella del buon gusto e delle proporzioni.

Nel nome ibrido e poco seducente, sta tutta la loro natura insidiosa.
Caduto anche l’ultimo ritaglio che li assimilava ai pantaloncini, per quanto minimali, inguinali, sono nient’altro che un paio di sgambatissime mutande, quasi un pampers, nobilitate dal tessuto di jeans e da una cintura da mettere in vita che cerca di farle passare per un epigono di pantalone. Finora sono un esercizio da web, avvistate sulle star di Instagram, che comunque ci infilano sotto un altro paio di calzoncini o addirittura pantaloni lunghi, in modo che i janties non sembrino altro che un accessorio inutile, divertente e innocuo (a parte per il portafoglio, la versione dei francesi Y/project costa quasi trecento euro). 

Faranno proseliti nella loro versione integrale?
È probabile, vista la ormai capillare diffusione degli shorts urbani, a ogni stagione più striminziti, portati da tutte come se non ci fosse non solo un domani ma soprattutto uno specchio.

Di lì alla mutanda il passo è breve. Di buono c’è che i janties hanno risvegliato una categoria da tempo defunta: il senso critico nella moda (almeno in chi la osserva). Così, tra i must have, le cose it e hot, i mai più senza, le fotogallerie irte di punti esclamativi dove non c’è una riga una che non sia di assoluta meraviglia, rispunta l’aggettivo perduto: orrendo.
I janties sono orrendi. Per metterli di bestiale non serve il fisico, ma il fegato.

mercoledì 15 maggio 2019

IL LIBRO

Roberta De Falco e i misteri tra Trieste e Grado: debutta Elettra Morin


Il commissario Ettore Benussi della Mobile di Trieste d’ora in poi potrà godersi in pace tutte le sue amate grappe Nonino. La scrittrice Roberta De Falco, dopo quattro indagini firmate per l’editore Sperling&Kupfer, l’ha pensionato suo malgrado, con tanto di festa di quiescenza organizzatagli dalla moglie Carla. Filone esaurito? Nient’affatto, soprattutto se l’autrice è anche una sceneggiatrice che conosce bene i meccanismi della serialità. Come in uno spin off televisivo, quando il comprimario di una serie diventa il protagonista di un’altra, l’ispettrice Elettra Morin, che i lettori hanno già imparato a conoscere come giovane e volitiva collaboratrice di Benussi, viene promossa a capo della mobile di Monfalcone. È lei infatti la protagonista di “Sangue del mio sangue”, il nuovo giallo di De Falco - pseudonimo di Roberta Mazzoni, milanese, una lunga esperienza professionale romana nel mondo del cinema, triestina d’affezione e frequentazione - che esce giovedì 16 maggio 2019 con l’editore Piemme (euro 17,90, pagg. 
279).



La location dell’indagine abbraccia tutto il golfo, da Trieste si allunga verso Monfalcone, poi Grado e la sua laguna, con qualche rimpatriata nel capoluogo per tartine e aperitivo in una celebre stuzzicheria di pesce di Cavana. Non sarà un esordio facile per Elettra - figuretta androgina, jeans sdruciti, berretto di lana e giacca marinara, che l’autrice ha detto in passato di aver modellato “esteticamente” su quella di Susanna Tamaro, sua amica da trent’anni - subito catapultata nei segreti di una famiglia allargata, dove un colto e invalido anziano collezionista d’arte, Alvise Donda, ormai allettato nell’aristocratica villa con barchesse a San Pier d’Isonzo, assisterà alla consunzione della sua progenie, naturale e adottiva, tra delitti, droga, tradimenti e gelosie mortali.


Tutto comincia con un cadavere carbonizzato, rinvenuto in un’auto che è andata a sbattere contro un cancello a Punta Sdobba. Il diamante all’orecchio della morta fa risalire a tale Terry Kupnick, inquieta fidanzata di Federico, il rampollo Donda che si occupa principalmente di saccheggiare le opere d’arte del padre. A poche centinaia di metri viene fermato un uomo nudo e ferito, che scappa da una vettura mezza sfasciata: è il marocchino Ahmed Choukri, figlio della governante di casa Donda, Nabila, cresciuto nella villa e prediletto dall’anziano capofamiglia come fosse, appunto, sangue del suo sangue. Possibile che sia lui il colpevole? Federico lo odia, perchè lo considera responsabile della morte del fratello gemello Raffaello, stroncato da un’overdose di eroina appena rientrato da San Patrignano.


I legami familiari sono al centro della trama, riaffiorano dal passato, si accampano nel presente e tengono in ostaggio le menti più fragili. Anche Elettra sarà messa alla prova dall’incontro col padre naturale, che non ha mai visto ma di cui riconosce su di sè i tratti somatici, le mani, certe derive caratteriali. Fisicamente sembra ripugnarla (al contrario di sua madre Laura, che vuol riacciuffare un altro pezzo di passato...) e questo sentimento, innaturale e incontrollabile, la destabilizza, come i comportamenti del genitore, una sfida sul suo stesso terreno, quello della legalità.


Nella famiglia Donda i rapporti sono impastati di segreti, primo fra tutti quello sulla morte di Raffaello, “Lello”, che lega sinistramente Federico e Ahmed in un reciproco patto di silenzio. Il vecchio Alvise non ha mai nascosto la sua predilezione per il giovane marocchino, allontanando da sè il figlio vero, geloso e inaridito. In questo viluppo di relazioni entra anche il giovane Fabio Visentin, tuttofare della famiglia e nipote della tata dei gemelli, che sembra il debole e manovrabile anello di congiunzione tra tutti i personaggi, a sua volta cresciuto nella gabbia dorata della villa. L’aristocratica dimora si è trasformata negli anni in un incubatore di risentimento e anaffettività e l’unica a registrarlo con lucidità sembra essere Nabila, che ne scrive al padre in Marocco.



Roberta De Falco


La soluzione del mistero non poteva che uscire sul Piccolo. In un “fake” articolo, De Falco mette tutte le pedine al loro posto. In fondo, l’intreccio non è troppo ingarbugliato e i molti indizi disseminati lungo la trama portano il lettore a sospettare un cortocircuito affettivo, che ha armato la mano del più fragile.
Più che delitto e colpevole, però, alla scrittrice interessa, ancora una volta, gettare uno sguardo sul presente, sfruttando il popolarissimo genere della crime story per parlarci delle famiglie di oggi. Microcellule in cui confliggono vecchiaia e malattia, genitorialità smagliate e nuovi innesti, necessari per l’accudimento ma spesso vissuti come insidiose intromissioni. Equilibri precari, specchio dei tempi, dove il problema vero non è l’integrazione ma la solitudine, le solitudini. 

@boria_a

martedì 7 maggio 2019

MODA & MODI

Pigiama da passeggio


“Sei uscita in pigiama?”. No, non è più una critica. Il classico indumento maschile, giacca abbottonata davanti e pantaloni lunghi, si è alzato dal letto ed è sceso in strada, capo passepartout, con scarpe da ginnastica o tacchi. Da un paio di stagioni lo propongono griffe e catene di fast fashion, scomodando testimonial evergreen come Sarah Jessica Parker, che ritorna nella sua casa più famosa, quella della Carrie di Sex&TheCity in Perry Street a New York, per uscirne in un elegante due pezzi nero con reggiseno a vista, diretta agli intramontabili Cosmo. Di recente si è fatta tentare anche 

Michelle Obama, apparsa a Parigi in pigiama con potenti strisce arancioni su fondo crema per presentare la sua biografia “Becoming”. L’avrebbe indossato da first lady? Probabilmente no, ma in veste da camera ha puntato a dare di sè un’immagine più confidenziale e intima alle lettrici.
Capo facile, allora? Tutt’altro.
Piuttosto scivoloso, anche da first lady. Per essere di moda, deve sembrare inequivocabilmente un pigiama. L’insidia è tutta lì. 




Quindi, se il nostro mestiere non è il pericolo e neppure l’influencer, meglio depotenziarlo e spezzare il completo, abbinando ciascuno dei due pezzi con camicie, top o pantaloni in tinta unita o denim. Chi osa il total look dovrà attenersi ad accessori minimal, evitando le ciabattine. Fluido e non costrittivo, può essere comodo per lunghi viaggi in aereo, dove la sua natura mista, tra domesticità e urbanità, è dissimulabile. Trascinato fuori dalle mura di casa, il pigiama pretende almeno personalità e gusto sicuro. Difficile, se non altro per l’età, immaginarli nelle giovani clienti, che della rivoluzione di Carrie, anche lei ormai, come Sarah Jessica Parker, signora over cinquanta, non hanno alcuna memoria.
@boria_a

sabato 4 maggio 2019

IL LIBRO

Dal dopoguerra al Sessantotto
ricominciano le ragazze di Berlino



 

Dal 1949 al 1969, un altro arco temporale denso di accadimenti e cambiamenti. Il ritorno alla vita dopo la guerra, il rientro dei reduci, la fatica di riguadagnare la normalità combattendo i fantasmi del passato, una nuova generazione che nasce e cresce per la prima volta senza paura di guardare al futuro. “È tempo di ricominciare” si intitola il secondo volume della fluviale trilogia della tedesca Carmen Korn, pubblicato da Fazi (pagg. 563, euro 20) a pochi mesi di distanza da “Figlie di una nuova era”, il primo capitolo di questa saga che attraversa il Novecento seguendo le vicende, fittamente intrecciate, di quattro donne e della loro progenie. In Germania ha venduto un milione di copie, da noi il primo volume è entrato subito in classifica, e ci rimane, mentre il terzo uscirà tra qualche mese.

La Storia ha girato pagina nell’Amburgo piegata dai bombardamenti. Opportunamente l’autrice apre questa fase ricordandoci, in una succinta geografia familiare di sangue e di elezione, chi sono i personaggi che abbiamo lasciato. L’ostetrica Henny, divorziata dal secondo marito, il delatore neonazista Ernst Lühr, reo di aver consegnato alla Gestapo Rudi, marito della sua grande amica Käthe, anche lei ostetrica. Entrambi i coniugi si sono salvati, ma Rudi stenta a reinserirsi, teme che lasciar andare i ricordi dei campi di prigionia negli Urali sia tradire chi non ce l’ha fatta («Rudi ha paura di dimenticare. Ha paura che la vita facile e le belle cose ricoprano completamente la memoria dei morti...»).


All’inquieta Ida sta stretta la vita matrimoniale con il cinese Tian, che ha scelto coraggiosamente in barba ai divieti sulle commistioni etniche dei nazisti, ma supera il litigioso tran tran affidando le sue ambizioni alla figlia Florentine, bellezza esotica che conquista giovanissima i magazine di moda. Più defilata la vicenda di Lina, cognata di Henny e da anni compagna di Louise, con cui avvia una libreria: menage discreto ma solido, antesignano di uno dei temi che sarà motore della vicenda nel secondo libro.

Per le madri si era trattato di rivendicare il diritto al lavoro e alla parità con i partner, all’indomani di una guerra che aveva consegnato alle donne nuovi ruoli e responsabilità. Per la generazione post-bellica, per Florentine, per Marike, figlia di Henny e giovane medico e mamma, per suo fratello Klaus, curatore di programmi radiofonici e omosessuale, per il suo compagno Alex, pianista talentuoso, il problema è trovare un posto nel mondo rivendicando la libertà di scegliere e di affrancarsi da padri e madri che patimenti, sacrifici, lutti hanno reso interlocutori coriacei, a tratti ingombranti.


Succede a Marike, spesso in conflitto con la nonna Else sulla custodia della figlioletta affidata a una baby-sitter, come fa qualsiasi mamma “della nuova era”. E a Ruth, vicina alle posizioni marxiste di Rudi Dutschke e figlia adottiva di Rudi e Käthe, che con i genitori si confronta su un’ideologia che loro non rinnegano ma su cui, dopo la morte di Stalin, si interrogano criticamente («Il secolo aveva messo tutti di fronte a scelte complicate»). E infine a Klaus, seguito e spiato dal padre Ernst, che, nella sua ossessione omofoba, sfiora l’idea di denunciare alle autorità quel figlio “deviante”, l’incarnazione del fallimento del suo progetto di vita ariano. Klaus e Alex vivono la loro storia in clandestinità, approfittando di Florentine come “ragazza dello schermo”, sotto la spada di Damocle del famigerato art. 175 della costituzione tedesca, abolito nel 1994, che punisce i rapporti omosessuali. Solo con il primo governo Brandt, nel 1969, possono sfiorarsi pubblicamente le mani in un ristorante, un sogno covato a lungo. 



Dialogi incessanti e ritmi televisivi fanno galoppare il racconto attraverso gli anni, accumulando, a volte superficialmente ma con ineccepibile orchestrazione, tante sollecitazioni, dal cinema alla musica, dai libri alla moda. I Beatles ad Amburgo e la rivoluzione di Mary Quant, la pillola anticoncezionale (che Theo, ginecologo e terzo marito di Henny, consiglia a malincuore) e i padri in sala parto, il giovane operaio Peter Fechter morto dissanguato ai piedi del Muro di Berlino e le avvisaglie del terrorismo, Kennedy e Marilyn.


Per Carmen Korn genitorialità (di sangue o di elezione, appunto) e maternità sono sempre il perno della trama. Che si chiude con una delle protagoniste davanti a un interrogativo centrale nella vita di ogni donna. Come vuole la serialità, il finale è aperto, ma il lettore sa che un’altra generazione è già in cammino.

@boria_a