lunedì 30 giugno 2014

MODA & MODI

 
 Il destino in un nome: Gigliola Castellini Curiel


Gigliola Curiel, figlia di Raffaella

Ortensia, Gigliola, Raffaella. E di nuovo Gigliola, il nome "ereditato" dalla nonna insieme a una tradizione di sartoria al femminile che risale al secolo scorso. «Responsabilità? Eccome se la sento», sorride la signora Curiel della quarta generazione, poco più di quarant'anni e una laurea in Economia alla Bocconi, che oggi si occupa della linea prêt-à-porter e degli accessori della griffe. «Tutto un mondo sta a poco a poco scemando. Bisogna trovare la chiave di volta tra i nuovi costumi dei consumatori, la ricerca della manodopera e l'evoluzione del mercato. Sento la responsabilità, ma anche la fortuna che mi è capitata. Ho una grande storia alle spalle».
C'è da perdere l'orientamento tra le sarte Curiel, da dipanare tanti fili, su su indietro nel tempo, fino a Trieste e all'atelier di via San Nicolò, sopra la libreria di Saba, dove la prozia Ortensia vestiva le signore dell'alta borghesia mitteleuropea. Tra quelle stoffe e quei disegni, nonna Gigliola impara a cucire per le bambole e quando, nei primi anni Venti del '900, il laboratorio arde in un incendio, si trasferisce a Milano e ne apre uno suo. Le clienti sono ricche signore meneghine e poi d'oltreoceano, quando i suoi modelli sbarcano in uno dei celebri grandi magazzini di Manhattan, Bergdorf Goodman. Scuola inflessibile per Raffaella, cresciuta sotto l'occhio attento della madre, che le passa l'ago e un nome da tenere alto. E lei lo porta fino alla Casa Bianca, vestendo due first lady, Jackie e Hillary Clinton e una lunga lista di "presidentesse", da Suzanne Mubarak a Clio Napolitano. Gigliola Castellini Curiel, Gigliola numero due, stilista numero quattro, non sfugge al destino e ricomincia dalla gavetta. Per poi, chissà, passare il testimone a una delle due figlie.
Ha conosciuto nonna Gigliola?
«Purtroppo no. È morta giovanissima, a 49 anni, un anno prima che nascessi. Ma il suo "allure" è rimasto in chiunque l'abbia conosciuta. Era una donna dal fascino incredibile, aveva una grande personalità ed era molto moderna per i suoi anni».
Inventò i "curiellini", gli abiti che si portano da mattina a sera, basta cambiare un accessorio...
«I "curiellini" sono anche oggi il mio pane. Mia mamma è più concentrata sui suoi tailleur, mentre io continuo a prendere spunti dal lavoro di mia nonna. In fondo il "curiellino" è ciò di cui abbiamo bisogno noi donne che lavoriamo e che facciamo una vita minimamente "social". Per la verità io sono un po' "orso" quanto a vita sociale, però li metto e li vendo. Sono un passe-par-tout, un modo semplice di vestirsi».
Ma perchè Camilla Cederna li chiamava "scemarelli"?
«Perchè in fondo sono dei semplici tubini. Certo, hanno tagli e lavorazioni speciali, ma visti sull'attaccapanni sono solo quello... È il loro segreto».
Una volta sua mamma ha detto che sognava per lei una strada diversa...
«È vero, relativamente. Ha fatto di tutto per non farmi scegliere questo lavoro, ma solo nella sua testa. Poi, quando sono andata all'Università, come tutte le persone toste mi ha detto: studi, però anche lavori. Così sono finita qui. L'idea iniziale era di occuparmi di licenze, ma oggi si sono un po' perse per strada. Invece, sono stata rapita da tutto il resto. Purtroppo disegno male, anche se l'importante è farsi capire».
 
Gigliola Castellini Curiel con la mamma Raffaella 


Quale la molla che l'ha fatta decidere?
«Da bambina è stato come crescere in una grande casa delle bambole. E, una volta cresciuta, ha continuato a essere così. Era già dentro di me. Non una molla, ma un percorso».
Nonna Gigliola è stata molto severa con mamma Raffaella. E mamma Raffaella com'è stata con lei, Gigliola?
«Severa, ma più blandamente. In fondo è un'evoluzione naturale, un po' si molla, come faccio io con le mie figlie. Il rigore e i valori rimangono, ma il rapporto è più amichevole che "padronale". Mia madre è sempre stata affettuosa, ma sul lavoro rigida, come lo è con se stessa».
Gigliola Curiel in passerella, al termine della sfilata firmata dalla madre Gigliola

Rimproveri?

«No, ma insegnamenti tanti e quotidiani. Il rigore è stato sul percorso. Non ha mai voluto che arrivassi come "la figlia di...". Lei aveva cominciato con sua mamma facendo la "piccinina". Io non ho fatto la sarta, ma sono partita dal basso, dal magazzino. Perchè è da lì che si impara».
Lei ha perso il papà giovanissima, negli anni Ottanta, proprio quando sua mamma rilanciava il marchio Curiel. Che cosa ricorda di quel periodo?
«A parità di risultati, tutto era meno veloce, meno forsennato. Certo, mia mamma lavorava tutto il giorno, non mi aiutava a fare i compiti, non veniva alle recite scolastiche. Ma si sopravvive anche senza e non mi è mai mancata. Non ho mai sentito un senso di solitudine, nè di abbandono».
Ha cominciato prima con gli accessori o col prêt-à-porter?
«Con gli accessori. All'inizio però non li creavo io, andavo a Parigi a cercarli per la boutique. Poi ho cominciato a disegnare scarpe, calze, cappelli, gioielli per le nostre presentazioni. Non c'era dietro uno studio commerciale, era un esercizio di pura creatività. Anche adesso li vendiamo in boutique, non li distribuiamo. La linea di prêt-à-porter, invece, esisteva già e un poco alla volta è diventata mia».
Qual è il suo tocco personale, quello che fa dire questa è la "quarta Curiel"?
«Il colore e i tessuti, che sono un miscuglio di fibre diverse. Mi piacciono gli abbinamenti shocking. Gli accessori, poi, sono una scommessa: io parto prima di mia mamma con la mia collezione e lei la guarda solo quando è finita. È sempre un terno al lotto. D'altro canto, l'alta moda vendibile, come la facciamo noi, rischia di essere un filo "vecchia", l'accessorio ha il compito di renderla contemporanea».

Le scarpe disegnate da Gigliola Curiel


E la sua dote migliore come designer?
«Spesso la moda non è gratificante per le donne. Non è questione di lusso, ma di come ti metti un abito, come conosci il tuo corpo e come ti guardi allo specchio. Se vedo che qualcosa sta male addosso a una cliente, preferisco perdere la vendita, sarebbe anche una cattiva pubblicità. Basta poco per abbellirsi, se ci si conosce».
Cosa detesta nella moda di oggi?
«La mancanza di autocritica. Quello che una volta era cafone, oggi va di moda: le spalline del reggiseno fuori, le scarpe bianche, i jeans con i tacchi alti, le mutande in vista. Non credo che la vita più alta di tre centimetri, invecchi una donna, no?».
Anche lei ha Trieste nel suo dna, come ha detto sua mamma quando ha ricevuto il San Giusto d'oro?
«Certo, ci vengo spesso. Ne sono innamorata, mi dà un incredibile senso di libertà, di respiro».
Le sue figlie, Vittoria e Ortensia, che hanno dieci e nove anni, saranno la quinta generazione Curiel?
«Per il mio compleanno, Vittoria mi ha regalato un quaderno pieno di disegni. "Per aiutarti nel tuo lavoro", mi ha detto. Ha utilizzato tutte le figure geometriche che studia a scuola per fare i modelli, che vanno dalla teen-ager alla sera. Queste ragazzine sono già molto avanti nelle loro idee. Entrambe sono attente alla moda, Ortensia più fashionista, più sensibile ai "diktat" per la sua età, Vittoria più curiosa negli abbinamenti. La quinta generazione? Vedremo...».
Qual è la sua ricetta di eleganza?
«Semplicità e autocritica».
twitter@boria_a


domenica 29 giugno 2014

IL LIBRO
Jon Rance: Aiuto, c'è un bebè in arrivo
Lo scrittore Jon Rance

Non è facile imparare a diventare degni di tre, soprattutto quando non si è ancora degni di due. E così l'annuncio di un bambino in arrivo, riesce a gettare nel panico il trentenne Harry Spencer, un professore di storia con la vocazione da scapolo e l'allergia alle responsabilità.
Il panico da paternità imminente aumenta le bevute con i colleghi al pub, gli strani cocktail solitari nel capanno degli attrezzi, le scappatelle virtuali con la conturbante ex compagna di liceo, riagganciata al momento opportuno. Come sopravvivere a un bebè che sperava di posticipare e che, tutto d'un tratto, prima ancora di essere avvistato con l'ecografia, rivoluziona il suo tran tran di giovane maschio sessualmente esuberante, costretto giocoforza a risolvere le impellenze erotiche con facebook?
Esilarante, impietoso, a tratti tenero, questo "Non son degno di treJon Rance (Longanesi, pagg. 365, euro 14,90) è un autentico "kit di sopravvivenza per futuri papà", tutto l'opposto del libro che Harry viene costretto a leggere per attrezzarsi all'evento e che, ai maschi inquieti, suggerisce, in alternativa, una capatina ad Amsterdam o la disciplina del golf.
Un diario dalla parte di lui, ovvero del soggetto, lamenta Harry, che se anche avverte vagamente il ticchettio di un orologio biologico, non è stato allenato fin dalla più tenera infanzia a destreggiarsi con bambolotti e finti cambi di pannolino. Se poi hai la sventura di essere circondato da amici che si sono già allegramente pluri-riprodotti, hai il quadro completo di che cosa significhi vestire quelli che sembrano solo teli anti-vomito e uscirtene, in mezzo agli ospiti allibiti, con frasi come "Papi deve andare a fare pipì nel vasino grande".
Tra preparazione al parto coi bongo e terapiste familiari apertamente ostili ai mariti inadeguati, Harry ce la farà ad arrivare al fatidico giorno e a constatare con sollievo che il piccolo William non ha una voglia a forma di pene sulla fronte. Ma adesso c'è un altro problema da affrontare: bisogna tornare a casa col fagottino e lasciare l'ottima mensa dell'ospedale («dove ogni giorno ti portano un menu da cui puoi scegliere quello che vuoi...») e quell'albergo sterile e tanto protettivo per i neopapà. «Non voglio andar via», annota Harry sul suo diario. E qui comincia un'altra storia.
twitter@boria_a

La copertina del libro di Jon Rance