sabato 27 ottobre 2018

IL LIBRO

Mamma, figlia, un fratello scomparso 
Il lato oscuro dei legami di sangue





Due fratelli camminano per mano durante una festa di Carnevale. Lui, Andrea, ha sei anni ed è un bambino speciale: biondo, occhi azzurri e capelli fluenti, il visetto da pubblicità. Per quello sono lì, quel giorno: ci saranno tanti fotografi, ha pensato la mamma, e Andrea avrà un intero book senza spendere troppo. Noemi ha nove anni ed è una bambina anonima, castana, sgraziata, quella che si siede sul bordo della vasca o sulla tazza del water mentre il fratello viene coccolato e poi infilato nel lettone. Quel giorno, però, la mano di Andrea scivola da quella di Noemi e il piccolo scompare. Rapimento per estorsione, traffico di organi, una donna senza figli (perché un bambino così bello fa gola a tutti, ripeteva la mamma davanti alle telecamere), magari addirittura la cognata che se l’è portato via?




Intorno a Noemi, che immaginiamo rimpicciolirsi sotto il senso di colpa, cresce come una pianta maligna il baraccone mediatico. Iniziano le telefonate notturne dei mitomani, si susseguono gli appelli alla televisione. È sempre lei, la madre, gli occhi socchiusi in favor di telecamera, a ritagliarsi il ruolo della più sofferente, mentre il padre si infila nell’inquadratura per trascinarla via. Il sospetto, taciuto, investe anche lei, la sorellina maggiore, forse gelosa, chiaramente la meno amata. «A chi vuole più bene la mamma? Chiedevano sconosciuti nella stanza del commissariato....». Oppure: «Lo hai preso tu? Noi sappiamo che l’hai preso tu...». Per mesi passano sullo schermo le immagini di Andrea, della casa. «E io, al di qua dello schermo, a provare sollievo. Che significava sollievo a quel tempo? La sera che arriva».


Tagliente, brusca, morbosa, Teresa Ciabatti ritorna a dissezionare la famiglia, come nel superbo “La più amata” (Mondadori, ne parlo in questo blog), che ha sfiorato, e purtroppo perso, il Premio Strega. Ma non è il giallo della scomparsa di un bambino quello che le interessa - che pur resta la cornice disturbante dei comportamenti - quanto arrivare all’osso di un rapporto madre figlia osservato attraverso la lente di ingrandimento di questo dramma, che si dipana nell’era delle sparizioni in diretta televisiva, dei parenti rincorsi col microfono, del tam tam dei social.





Già il titolo del suo nuovo libro, “Matrigna” (Solferino, pagg. 205, euro 16,50) suggerisce una chiave di lettura. Noemi cresce, anonima e coriacea, custodendo la sua ferita e disarmando gli psicoterapeuti. Non diventa bulimica, non si taglia la pelle, anzi riesce a lasciarsi alle spalle il paese, si laurea, diventa traduttrice, trova un compagno e il sollievo dell’anonimato, una dimensione dove non è più “la sorella di”, “l’altra figlia”. «La sepoltura di mio fratello era avvenuta ogni istante della mia nuova vita in città».
E quella mamma-matrigna che nel cono di luce della televisione del lacrimificio si sentiva in qualche modo compensata della perdita? Quella mamma depressa, ossessiva nelle sue manie, terribile verso la zia che ai bambini regalava momenti di serenità, al punto da trascinarla nel registro degli indagati? Che assapora il protagonismo della disgrazia, ci sguazza, ne diviene dipendente fino a non riuscire più a rinunciarvi?


Anni dopo, una telefonata richiama Noemi a casa da Roma. La mamma ha avuto un incidente, è in ospedale. Ritornava da un locale da ballo, è bionda e garrula, e al suo fianco c’è Luca, un giovanotto premuroso dagli occhi azzurri conosciuto su Facebook, che potrebbe esserle figlio. Suo figlio? “Cara Carla, mi hanno colpito i suoi occhi», le ha scritto lui, che forse ricorda il fatto di cronaca, il rapimento irrisolto, chissà. Lei ha risposto, vincendo la ritrosia, in poche settimane ha accettato l’appuntamento. Facebook ha riacceso le luci, le ha permesso di non essere dimenticata.


Due donne tornano a confrontarsi davanti a una perdita lontana. La madre si appende al braccio del succedaneo del figlio che la riporta al centro dell’attenzione, mentre Noemi, in quegli occhi azzurri, che sa estranei, forse disonesti, cerca il ristoro a uno strappo mai sanato, la mano scivolata dalla sua. E si riscopre sola, ma con un battito d’ali forte, pronta a volare via.


La lingua di Teresa Ciabatti è scarnificante. Per dirci, ancora una volta, che quello di sangue è un legame insidioso, mai consolatorio. —

mercoledì 10 ottobre 2018

MODA & MODI

Il verde al potere 


Emporio Armani 2018-2019
 


Verde di bile. Sorci verdi. Restare al verde. E magari verdi di rabbia. Le espressioni usate nel quotidiano non aiutano a farcelo piacere. Un colore da sempre definito difficile, impegnativo, invasivo, complicato da abbinare. Sarà perché le contraddizioni appartengono al suo dna, come spiega magistralmente Michel Pastoureau, in uno delle sue monografie edite da Ponte alle Grazie. Verde cavalleresco nel Medioevo, colore della gioventù, dell’amore e del destino, lo porta sullo scudo Tristano. Ma già nel tardo Medioevo e all’inizio dell’età moderna, cade in disgrazia, complici le difficoltà tecniche nel tingerlo e nel fissarlo. Diventa così il colore del diavolo e le sue sfumature si fanno vischiose, pustolose, l’habitat adatto alle creature infernali dell’iconografia. 

Tutto cambia nel Romanticismo, quando il verde, che Goethe amava indossare (al contrario del suo Werther, che ha panciotto giallo e pantaloni blu...), diventa il colore della natura e poi, attraverso gli anni, della libertà, della salute, dell’ecologia. 

Se i mutamenti nel ruolo dei colori riflettono i cambiamenti sociali in atto, oggi ogni carpet è green, attento alla moda etica, alla sostenibilità della produzione, al rispetto dell’ambiente. Quest’anno ne siamo avvolti è l’effetto non dispiace. Dall’acido al muschio, passando per smeraldo, salvia, prato, penicillina, e ogni sottile sfumatura che le passerelle hanno inventato, il verde tinge capispalla e accessori, abiti e pellicce, calze e scarpe, senza temere il total look.


 È un’affermazione di personalità e insieme la ricerca di un guscio naturale di protezione. Non definitivo come il nero o imperativo come il rosso, la sua natura cangiante (o inclusiva, a seconda delle interpretazioni) si adatta ai tempi che viviamo. 
@boria_a

lunedì 8 ottobre 2018

MODA & MODI

 Vestivamo alla marinara, con la Barcolana
trionfa l'outfit del velista (o presunto tale)










La Trieste Barcolana cambia pelle. È una muta lenta, che comincia con i primi gazebo alzati sulle rive. Anche chi non ha dimestichezza con scafi e strambate, scopre in sè un animo marinaro.

Mentre i bar si allungano all’esterno, montano panche e spinano birre dai fusti che spuntano come funghi, gli armadi degli autoctoni si aprono per andare in regata. I marinai di lunga esperienza si ringalluzziscono, sfoggiano i reperti consumati come trofei, sanno bene che meno velista sei più ti appendi al logo, perchè la griffe fa il “sailor”. Tutti gli altri, che vogliono sentirsi parte della festa, scavano fuori un bomberino tecnico e un paio di scarpe da ginnastica per atteggiarsi a navigatore. Un cappellino consumato dal sole e dal sale ed è facile entrare nella parte.


Sbarcati da fuori per l’occasione, nei giorni che precedono la regata, si vedono improbabili capitani di terra, con l’outfit perfetto per entrare e uscire dai gazebo sulle Rive: maglioncino legato al collo, pantaloni blu con un accenno di piega (o bianchi, se il tempo lo consente), una lampadata al viso da maratona transoceanica, testano con applicazione l’offerta enogastronomica a ridosso del mare. E strologano sulla forza del vento, con lo smartphone in mano, perchè la Barcolana rende tutti un po’ velisti ma soprattutto molto meteorologi.


I vecchi dei circoli velici li riconosci al volo. Ormai nessuno, raccontano, ha più l’armadietto in sede dove stivare i vestiti stinti e logori da mettere “per la barca”, quelli che una volta uscivano dal circuito urbano per consunzione ed entravano in quello marino, dove trovavano una seconda vita. I tessuti tecnici hanno conquistato anche i regatanti più attempati e poco inclini alle diavolerie: leggerezza e traspirabilità sono parole d’ordine per tutti, con buona pace dei maglionacci bucati.


Alla vigilia, calano i tecnici. E le categorie cominciano a distinguersi. I competitivi - uomini e  donne, qui la moda è davvero “genderless” - si riconoscono al primo sguardo. Non hanno saccheggiato le linee “marina” dei negozi specializzati, con novità e colori di stagione, che sono un po’ l’equivalente “cruise” delle passerelle, ovvero le collezioni di chi non ha la noia del cambio di stagione, tanto in pieno inverno può traslocare ai Caraibi con un guardaroba nuovo di zecca per sport o relax a bordo piscina.


I velisti che sentono il brivido della gara portano tutta la loro storia in borsoni consunti dal marchio tecnico. Indizio inequivocabile: le scarpe da barca ben “provate” appese per i lacci. Se piove ci sono gli stivali, con ghette antifreddo e waterproof, mai di gomma per carità, altrimenti si “scivola”, letteralmente, nella categoria sfigati. Il cappellino consunto affratella, lo portano amatori e professionisti.


E ai piedi? Nudi con le infradito, anche se il meteo è in picchiata, fa tanto regatante maledetto e di sicura esperienza, abituato a solcare mari molto lontani da Trieste. Qualcuno, in questa categoria, lo vedi circolare in fuseaux con ginocchio rinforzato (una versione sportiva di quelli che le modaiole chiamano “meggings”, l’equivalente uomo dei leggings, altrettanto inguardabili), sopra cui infilare bermuda multitasche. Ecco servite due brutture una sopra l’altra, ma, se quest’edizione della Barcolana è fortunata, davvero con buon vento, può capitare di vederli addosso a un omologo marino di Roberto Bolle, e pure con un filo di barba maschile.


Eccoci a bordo, finalmente. L’agonista s’infila lo spray top, giacchino che sprizza neoprene e conferisce ai movimenti la fluidità di un omino Playmobil, in particolare quando è il momento di toglierselo. I guanti, accessorio manicheo, che divide seccamente tra estimatori e detrattori, qui amano le mezze misure: dita libere per fare nodi. E la cerata? La portano i croceristi, alla Barcolana solo se infuria la bufera, altrimenti ci si dichiara in partenza velleitari: vestiti da Middle sea race magari per piantarsi in mezzo al golfo e tirar fuori salame e tagliere.


Finita la festa l’esercito dei regatanti molla gli ormeggi: rispuntano scarpe da ginnastica e bomberino per veleggiare in scioltezza verso gli erogatori di birra. Un’avvertenza: girare con borsone e maglietta “logati” Barcolana, non è troppo apprezzato dai velisti puristi. Da queste parti, nei rudi uomini di mare batte un cuore molto snob.

@boria_a

sabato 6 ottobre 2018

IL LIBRO

Quell'ingombrante cadavere a Calcutta
che ci spiega anche la Brexit







Un alto funzionario britannico trovato con la gola tagliata dietro un bordello, il corpo mezzo affondato in una fogna, in bocca un biglietto appallottolato, scritto in bengalese: “Non ci saranno altri avvertimenti. Il sangue inglese scorrerà per le strade. Andate via dall’India!”. Comincia come un classico thriller “L’uomo di Calcutta” (Sem, pagg. 348, euro 17), primo romanzo di Abir Mukherjee, commercialista nato a Londra da genitori indiani, cresciuto in Scozia e arrivato alla scrittura per una passione antica e un recente colpo di fortuna: a quindici anni un amico gli presta “Gorki Park" e lo fa innamorare del thriller, nel 2014 vince il concorso per esordienti del Daily Telegraph e il pugno di pagine della sinossi diventa questo libro (il primo tradotto in Italia, mentre in Gran Bretagna sta per uscire il quarto con gli stessi protagonisti), pluripremiato e accolto con entusiasmo dalla critica. 



Abir Mukherjee a Pordenonelegge (foto C. Aglialoro)







Calcutta, 1919. La Città Bianca delle ville imponenti dei commercianti, dei club e degli hotel, e la Città Nera dei miserabili e delle latrine a cielo aperto. Il morto è il sahib Alexander MacAuley, assistente del vicegovernatore del Bengala, faccendiere che vanta amicizie potenti, prima fra tutte il “barone della juta” Buchan, uno degli uomini più ricchi della città. Nella megalopoli assediata dal caldo torrido e dall’umidità, ex capitale di quel British Raj dove 150 mila inglesi, frustrati dalla vita coloniale ma altrettanto convinti della loro superiorità morale, dominano 300 milioni di indiani, la pista sembra obbligata: un omicidio politico, opera dei terroristi che lottano per l’indipendenza dell’India. I fremiti di rivolta già percorrono Calcutta, per questo la capitale è stata spostata a Delhi.

L’ipotesi è semplicistica, è chiaro da subito. Perchè la coppia di investigatori che Mukherjee mette in campo, il capitano Wyndham, giovane veterano inglese della Grande Guerra, e l’indiano Banerjee, soprannominato, a causa del nome impronunciabile dai non nativi, “Surrender not” (non arrenderti), che si è laureato a Cambridge e ha un accento da campo di golf del Surrey, sono allenati a guardare realtà sfaccettate. Il cinico e amareggiato Wyndham, ha accettato l’India per sfuggire ai suoi fantasmi, gli amici morti nelle trincee della Somme, la moglie strappatagli da un’influenza: si stordisce con whisky e oppio, ma il passato lo insegue. Banerjee, intuitivo e solare, ha disertato la carriera amministrativa, affrancandosi dal volere paterno: è un giovane uomo istruito e moderno, che sogna un’India libera, senza sottovalutarne i problemi, ma che il colore della pelle relega tra i sottoposti.


Entrambi, Wyndham e Banerjee, si sentono combattuti nel loro ruolo. Sono in crisi identitaria, non amano le verità confezionate e si divincolano dai condizionamenti dei servizi segreti militari. La loro collaborazione sarà anche una costante ricerca di mediazione, tra caratteri e ruoli, proprio quella che Mukherjee è abituato a compiere tra le sue radici indiane e britanniche ("e non sempre con successo", ha detto nella presentazione a pordenonelegge).


Accanto ai due uomini, una figura femminile interpreta un’altra delle contraddizioni della realtà coloniale. È la bellissima Annie, dal sangue misto, invisa agli inglesi perchè ricorda loro che c’è stato un tempo in cui gli indiani non erano considerati inferiori, e agli indiani perchè ha rinunciato alla purezza della sua razza. Una “meticcia”, o “domiciliata europea”, secondo la definizione british, per dire educatamente che per lei non c’è posto da nessuna parte.


Il giallo, per Mukherjee, è dichiaratamente un meccanismo letterario, che però manovra alla perfezione. Ma quello che gli interessa davvero raccontare è un passato storico per molti inglesi ancora mal digerito, e per gli indiani “romanticizzato” alla luce della figura di Gandhi. Un passato ricco di chiavi per analizzare il presente, che dal sogno dell’impero porta diretto alla Brexit. «Nessun inglese leggerà un libro che parla delle malefatte dei nonni» gli aveva detto il padre, cui il giallo è dedicato. Al contrario, la ricostruzione cattura e, anche se l’autore spesso si sbilancia, il racconto è attraversato da una vena ironica che non lo rende mai pedante o sentenzioso. ”Niente cani e indiani oltre questo punto” c’è scritto sull’imponente ingresso del Bengal club. E Surrender-not, con un sorriso forzato, al capitano Wyndham: «In centocinquant’anni gli inglesi hanno compiuto cose che noi non siamo riusciti a fare in quattromila. Per esempio, insegnare ai cani a leggere i cartelli».

@a_boria