sabato 29 dicembre 2018

IL LIBRO

Cameron e gli inconvenienti della vita
del dolore, dell'amore


Non c’è nessuno come Peter Cameron per prenderti per mano e accompagnarti dentro il dolore delle coppie. Quello che non traspare, non urla o si straccia le vesti, ma che cresce sotto traccia, come un cancro, mordendoti e intaccando le viscere nel silenzio, nell’apparente normalità del quadro clinico, fino a sconvolgerlo, senza opzione di tornare indietro.

Sono “Gli inconvenienti della vita” (Adelphi, pagg, 122, euro 16,00), l’ultimo, luminoso libro di Cameron, composto da due racconti in apparenza agli antipodi, la storia di altrettante relazioni dove un dramma mai espresso fino in fondo all’altro, una sofferenza sedimentata, che ha impastato ogni momento della vita in comune, a un certo momento per un caso, un accidente, un inconveniente appunto, deflagra e trascina via ogni consuetudine e ogni possibilità di aggrapparvisi ancora.





Stefano e Theo vivono insieme a New York, quartiere chic di Tribeca, l’uno avvocato di grido, l’altro scrittore che ha perso ogni creatività dopo un incidente in cui, ubriaco ma senza esserne direttamente causa, ha spezzato una vita. Anche la sua è rimasta intrappolata in quel momento, congelata più che dalle cicatrici fisiche, da un’apatia psicologica, da un malessere da cui non riesce e non vuole risollevarsi, inconsciamente incolpando il compagno di ogni cedimento nel recupero. E basta il pranzo con un’amica, l’allucinazione davanti a un’insalata, in cui le acciughe improvvisamente appaiono agitarsi nella ciotola come mosse da vita propria («le avevano sbattute lì sopra tutte ingarbugliate come in un’orgia...»), basta un’offerta di aiuto maldigerita, perché tutto il magma del dolore irrisolto torni a galla e diventi “La fine della mia vita a New York”, come s’intitola il racconto, la fine di un rapporto, di un progetto insieme.


Quella del magnifico e straziante “Dopo l’inondazione” è un’altra coppia, i Bird, vecchi coniugi di una cittadina della provincia americana, quartieri indistinguibili, arroventati dal sole, e distributori alla Edward Hopper. Una coppia (e anche loro sembrano un quadro di Hopper, i due anziani di “In the sunlight”) la cui spenta esistenza si trascina sopra la tragedia della morte violenta di una figlia e una nipotina. La vita di entrambi scorre piatta, assuefatta: la chiesa alla domenica col vestito buono, le foto sopra il caminetto, una camera sempre chiusa, i letti separati, il tran tran immutabile che perimetra il passato, gli impedisce di tracimare sradicando ogni appiglio.



In the sunlight di Edward Hopper


Quando una famiglia di sfollati, gli Escobedo - padre, madre e una bambina dell’età giusta per giocare con le Barbie e le case delle bambole sepolte dietro quella porta chiusa - entra temporaneamente in casa dei Bird, si rompe l’equilibrio del silenzio, lo scheletro fragile di un nucleo devastato al suo interno. Nella tragedia privata si fanno largo degli estranei, i tre ospiti, il reverendo donna che ha trovato loro l’alloggio, e ogni scudo domestico, ogni alibi, si frantuma. Il cambio di una camera, la televisione accesa, le visite improvvise della religiosa, le sue domande, l’irrompere della vita “vera”, con tutti i suoi inconvenienti, intacca quella sofferenza asettica e riservata. È lei che racconta: «È molto difficile sapere da dove cominciare perchè, si sa, ogni cosa è collegata all’altra, come quelle farfalle in Messico che battendo le ali scatenano un uragano in Cina, ma dopo averci pensato un po’ ho deciso di cominciare da quando gli Escobedo sono venuti a stare da noi...».





Cameron ci guida dentro la cucina, in salotto, nello scantinato, come prima aveva fatto nelle stanze del lussuoso appartamento di Tribeca, nel bagno dove Theo si stende a terra per trovare sollievo. Indugia sugli oggetti e sulle abitudini, ci accompagna a guardare il sole che tramonta sul New Jersey e fa sembrare New York “clemente”, indirizza il nostro sguardo attraverso la zanzariera della porta d’ingresso della casa dei Bird, che non scherma gli intrusi. Scoperchia ogni oggetto e ogni luogo dell’intimità, con parole asciutte, contate. Non descrive mai la sofferenza, la depressione, il tormento, ma li porta in superficie man mano che la lettura procede, come un esito necessario e ineludibile. Alla fine chiude la porta e lascia i suoi personaggi, e noi, a guardare in faccia la loro solitudine.

@boria_a

giovedì 27 dicembre 2018

IL PERSONAGGIO

Roberto Bertinetti, l'anglista sull'isola delle donne

Roberto Bertinetti


Il suo ultimo articolo per il Piccolo di Trieste l’aveva firmato sull’edizione dell’11 novembre scorso. Un ritratto del fondatore della Beat Generation, Lawrence Ferlinghetti, che in marzo festeggerà cent’anni. A Roberto Bertinetti non sfuggiva un anniversario, un’uscita editoriale, una riedizione degli amati scrittori inglesi e americani, di ieri e di oggi, di cui era appassionato, ammiratore, cultore. Da cronista culturale, preferiva il lavoro di segugio a quello di recensore. Ogni anno scherzava con i redattori sul Premio Nobel per la letteratura, cercava di anticiparne il vincitore, qualche volta ci azzeccava e, puntualmente, ne tracciava un ritratto originale il giorno della proclamazione.

Roberto Bertinetti, 63 anni, docente di Letteratura inglese all’Università di Trieste, scrittore e collaboratore di lungo corso delle pagine culturali del Piccolo, come di molti altri quotidiani e riviste, se n’è andato alla vigilia di Natale 2018 nella sua Pesaro, dopo una malattia con cui combatteva da tempo. «La chemioterapia? Beh, è la prima volta che la faccio. Vediamo com’è» diceva al telefono circa un anno fa, gentile e incuriosito, con la sua solita ironia, quasi partisse per un’avventura.


Non ha mai smesso di lottare e di scrivere, nemmeno durante le cure, nemmeno alla vigilia o dopo esami impegnativi, sempre disponibile a suggerire un tema e ad accettare un aggiornamento del pezzo, anche quando la durezza delle terapie lo prostrava. I “coccodrilli”, secondo il gergo dei giornalisti, di V.S. Naipaul e di Guido Ceronetti, scrittori che se ne sono andati nei mesi scorsi, e la storia di Sylvia Beach, l’americana che a Parigi fondò la libreria “Shakespeare and Company” e lanciò l’Ulisse di Joyce per non guadagnarne niente, sono gli ultimi pezzi che ci ha lasciato: acuti, brillanti, sintetici, sempre con quella riga che spingeva il lettore a volerne sapere di più.

Gli piaceva scrivere di letteratura, ma Bertinetti era insieme un osservatore attento della società inglese. Alla Rai e sugli schermi di Sky commentava la Brexit, le vicende della monarchia, la politica e i cambiamenti di una comunità multietnica, divisa tra la generazione dei millennial globali e gli euroscettici, per mentalità o disagio economico. Nel suo ultimo libro, “L’isola delle donne” (Bompiani), ha raccontato signore britanniche diversissime tra loro, da Lady Diana alla Thatcher, da Virginia Woolf a Mary Quant, unite dalla grinta e dalla personalità (e quanto si rammaricò di non poter essere a Grado, quest’estate, nel festival con lo stesso titolo...). Amava Jane Austen e la stilista Vivienne Westwood, ugualmente protagoniste di una rivoluzione dei costumi. Perchè questo gli interessava: negli autori, nei personaggi e nei loro percorsi, capire la trasformazione di un mondo.


All’insegnamento, alla scrittura, alla passione per il basket e l’Inter, Bertinetti ha sempre affiancato l’impegno politico nella sinistra riformista. Fu consigliere comunale del Pds di Pesaro, tra i fondatori del Pd. Parlando al telefono col Piccolo, qualche tempo fa, confidava un nuovo progetto letterario: seguire la nebbia attraverso il romanzo inglese. Il mistero, l’inquietudine, il viaggio. E, ancora una volta, il cambiamento.

@boria_a

mercoledì 26 dicembre 2018

IL LIBRO

 L'esercizio di Mary B. Tolusso in Danimarca



È abituata a districarsi nella lingua ostica di Carlo Emilio Gadda, ma si è lasciata conquistare da quella facile di Mary Barbara Tolusso. Facile? «Solo in apparenza, s’intende - confessa la traduttrice Conni Kay Jørgensen - perchè poi, quando ci metti mano, ti accorgi che non è affatto così, e che la semplicità è un’operazione complessa». “L’esercizio del distacco”, secondo romanzo della scrittrice e giornalista triestina, uscito nel maggio 2018 con Bollati Boringhieri, per Conni Kay è stato un “amore al buio”, una passione per la lingua prima che per l’intreccio. Così, grazie a lei, traduttrice danese che vive da trent’anni in Italia e ha insegnato alla Statale e alla Sapienza, la storia dell’affacciarsi alla vita dei tre ragazzi in un collegio vicino al confine con la Slovenia ha ricevuto la sua prima traduzione estera.


 
Conni Kay Jørgensen



Dal 14 dicembre 2018 “Distancekunsten”, per i tipi dell’editore Wunderbuch che ha sede a Skive, è disponibile nelle librerie della Danimarca. «Ho una velocità di lettura altissima - racconta Conni Kay Jørgensen, che ha sposato un italiano e vive ad Asti - addirittura di dieci libri al giorno. Quando mi sono accostata al romanzo di Tolusso, di primo acchito ho pensato: “questo non fa per me, non è il mio stile”. Un paio di giorni dopo, invece, mi sono accorta che mi era entrato nel cuore. Sono abituata a tradurre Galileo, Vico, ora sono al lavoro su Marco Polo... eppure mi sono ritrovata a pensare: “si può scrivere anche così”, in modo semplice, appunto. Mi ha colpito».





Jørgensen ha ricevuto il libro dall’editore italiano. E, appena arrivata all’ultima riga, sull’onda dell’entusiasmo l’ha tradotto e si è messa a caccia di un omologo danese che lo potesse far conoscere ai lettori del suo paese. Una caccia non sempre coronata dal successo, come spiega la stessa traduttrice, che si fa “ambasciatrice” dei classici della letteratura italiana, ma anche di autori contemporanei come Nicolai Lilin o dei giallisti alla De Giovanni.





«Quello di Tolusso non è un libro commerciale - spiega - e vendere non sarà facile. Però rispecchia molto il nostro essere danesi. Siamo pochi, non ci sentiamo sicuri di noi, abbiamo paura del mondo. Non ci riconosciamo in questo mondo. Io vivo tra due culture e vedo che mentre gli italiani si “propongono”, si “fanno avanti”, i danesi si rifugiano nella loro ritrosia e riservatezza. In questo senso, “L’esercizio del distacco” è un libro molto danese».






martedì 18 dicembre 2018

MODA & MODI

La politica dell'abito


Nonna Nancy e la ragazzaccia Melania, potenza del guardaroba politico. L’ultimo capo diventato virale è il cappotto della settantottenne speaker della Camera, la veterana liberal Pelosi, che dopo aver vinto un match verbale con Trump nello Studio ovale, ha indossato come un’armatura il suo fiammante cappotto Max Mara arancione. “Non sminuire la forza che rappresento” ha detto la signora a The Donald in diretta tv e il suo temperamento, in simbiosi cromatica, ha contagiato il paltò: il modello Glamis, abbottonatura a sinistra, di cinque anni fa, si è trasformato in un formidabile indicatore di resistenza e rivolta (tant’è che Max Mara si è affrettata a rimetterlo in produzione).




Pochi mesi fa, in giugno, un altro capospalla aveva ugualmente mandato in tilt la rete. Ricordate il parka della first lady Melania, in visita ai bambini messicani in un campo profughi in Texas, mentre infuriava la polemica sulla separazione delle famiglie? “A me non interessa proprio, e a voi?” c’era scritto sulla schiena del giaccone verde, brand Zara, poche decine di euro di prezzo (poi lievitato online di almeno venti volte) e anch’esso di due anni prima. 




Cappotto e giacca, dunque, sono entrambi “datati”, perchè la moda politica non è questione di stagione ma diventa funzionale a quanto si vuole trasmettere in un momento preciso. Troppo scontato liquidare Melania come incurante o provocatoria rispetto alla scritta: e se l’ex top model avesse voluto manifestare piuttosto un’indipendenza rispetto alle odiose scelte del marito o fare spallucce alla scontata tempesta mediatica sullo slogan? Torniamo all’immagine.

Due protagoniste, due capi, due messaggi agli opposti. In comune hanno un punto: la politica indossata scuote quanto le parole, a volte le sostituisce, altre le rende inutili. 
@boria_a
 IL LIBRO

Ai piedi del Medioevo 
Una camminata nella storia con calzari e babbucce


A saperli interrogare, meglio ancora se a osservarli è l’occhio dello storico o del critico d’arte, i piedi e le calzature raccontano molto dell’epoca che attraversano. Credenze e sofferenze, ricchezza e povertà, riti e simboli, religione e superstizione: a piedi e sui piedi è scritta la Storia e tante piccole storie individuali, reali o immaginarie, ordinarie e straordinarie, note o dimenticate.

“Con i piedi nel Medioevo” di Virtus Zallot (Il Mulino,  pagg. 209, euro 25,00) prima ancora che un saggio curioso e documentatissimo, ricco di immagini, è un viaggio, anzi, una camminata densa di incontri, in un periodo storico affrontato da un inedito punto di vista. Dal basso, dalle umili estremità, prende vita una società con le sue classi e le sue gerarchie, di cui sono testimonianza anche i tantissimi ed elaborati modelli di calzari e babbucce (da fashionisti ante litteram). E non mancano le sorprese.




Virtus Maria Zallot, storica dell'arte e docente all'Accademia di Belle Arti Santa Giulia di Brescia




Professoressa Zallot, qual è il linguaggio dei piedi nel Medioevo? «Il linguaggio dei piedi era composto di gesti ordinari e funzionali che tuttavia, per l’uomo medievale, assumevano valore di simbolo e di rito. Il lavare i piedi a qualcuno, per esempio, era esercizio di umiltà: la storia e l’arte medievale narrano per questo di re e regine, santi e buoni cristiani, abati e monaci che lavano i piedi a poveri e pellegrini, ripetendo il gesto di Gesù che li aveva lavati ai discepoli durante l’ultima cena. Il ‘volgare’ levarsi una spina dal piede, raffigurato in molte chiese, indicava la volontà di estirpare il peccato. Calzature e rialzi dei piedi comunicavano lo stato sociale ed esistenziale delle figure, indicandone gerarchie e ruoli. Gli eletti in terra e in cielo, per esempio, non poggiavano i piedi sul nudo terreno, ma su pedane o tappeti preziosi. Caratteri e gesti di piede componevano un lessico e una sintassi che spesso non sappiamo più leggere».





I piedi difformi e deformi sono sempre legati a un’idea di cattiveria o di bisogno. Perchè? «Piedi difformi segnalavano, in genere, una difformità anche morale. Avevano piedi bestiali le streghe, i diavoli tentatori travestiti da uomini o le affascinanti donzelle che tentavano di sedurre irreprensibili monaci. I piedi dissimili erano un espediente iconografico o narrativo che allertava l’interlocutore o l’osservatore sulla vera identità di figure mimetizzate in modo subdolo. Diverso è il caso dei piedi deformi, alterati o amputati da malattie e infortuni. Nell’iconografia medievale caratterizzavano i poveri, poiché la malformazione dei piedi rendeva poveri. Ma vi è anche una motivazione strettamente mediatica: è molto più facile raffigurare uno storpio che non un cieco, un muto o un generico malato. Il povero storpio è, inoltre, degno di compassione (e destinatario di beneficienza e di miracoli) in quanto bisognoso per conclamata necessità e non per indolenza».


L’arte medievale è ricca di piedi torturati, recisi, crocifissi. Tanto dolore e mai l’idea del desiderio e della sensualità come oggi. Perché? «Credo che, nella contemporaneità, non manchi altrettanta crudeltà, così come non mancavano nel Medioevo desiderio e sensualità. Ma l’arte medievale è prevalentemente strumento ‘didattico’ cristiano. Di conseguenza raffigura il dolore e le torture subite da piedi illustri o sconosciuti, ma anche gli eccezionali miracoli concessi da santi che spesso guariscono piedi malati o deformi e, talvolta, persino li riattaccano. Vi è dunque tanto dolore ma anche tanta fiducia e speranza».


Il colore rosso, ieri come oggi, ha una forte simbologia... «Le calzature indossate nei dipinti, come quelle utilizzate nella realtà, denotavano rango e ruolo dei personaggi secondo un repertorio di declinazioni più ampio di quello attuale. Il catalogo di scarpe medievali presentava infatti una gamma di fogge, materiali e colori molto più articolata di quella odierna, soprattutto perchè anche i modelli maschili erano tutt’altro che sobri. Le calzature più preziose e delicate erano quelle rosso-viola (tinte con la preziosissima porpora) riservate all’imperatore d’Oriente e assegnate, nell’iconografia medievale, a personaggi di rango quali la Vergine o gli angeli. I calzari purpurei dell’imperatore erano rossi poiché metaforicamente intrisi del sangue dei nemici calpestati: le scarpe rosse assunte oggi a simbolo della protesta contro la violenza sulle donne attingono al medesimo ambito semantico». 


Alcuni significati ci appaiono singolari: per esempio levare le scarpe e non solo per non sporcare… «Il gesto trovava il proprio prototipo nell’episodio biblico di Mosè che, avvicinandosi al roveto ardente, è invitato da Dio a levare i calzari “perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!”. Il togliere le scarpe indicava pertanto il predisporsi a incontrare il sacro, sia in senso fisico (come ancora, per esempio, quando si entra nelle moschee) che esistenziale. La citazione biblica spiega le molte scarpe levate dell’arte medievale, compresi i famosi zoccoli del signor Arnolfini nel dipinto di Jan Van Eyck. Togliere o perdere una sola scarpa indicava invece un significativo cambio di condizione, come la stessa Cenerentola, personaggio antichissimo, insegna». 


Noi utilizziamo tuttora l’espressione “bacio della pantofola” per esprimere riverenza, un po’ supina... «La prosternazione realizza il massimo scarto possibile, spaziale e simbolico, tra due corpi: la sommità dell’uno, la testa, si abbassa alla terminazione inferiore dell’altro, i piedi, palesando la propria inferiorità e manifestando riverenza. Questa pratica, pur documentata anche in occasioni informali, era regolamentata dal cerimoniale e vale tuttora in alcune circostanze. Persino i re dovevano assoggettarsi a baciare la pantofola del papa, rito abolito da Giovanni XXIII solo nel 1958. La locuzione “baciare la pantofola” è rimasta nel linguaggio comune a indicare un atteggiamento rinunciatario e servile: da “leccapiedi”, dunque, termine ancora più efficace, che rimanda allo stesso ambito semantico».


Chinarsi ma anche calpestare... «Se il chinarsi ai piedi esprimeva sottomissione riconosciuta, il calpestare sanciva sottomissione violentemente imposta. Il gesto, crudele e antichissimo, è rievocato nel linguaggio contemporaneo a indicare, in senso figurato, prepotenza e spregio: si calpestano infatti le libertà, i diritti, le minoranze...».


In questa sua lunga camminata, quale scoperta l’ha colpita di più? «Forse la leggenda della regina di Saba e il tentativo di delegittimarla davanti a Salomone accusandola di avere piede d’asino e gambe pelose. E il repertorio davvero curioso di malanni e miracoli ai piedi, che il Medioevo - e per questo mi piace - descrive sempre con semplicità e senza scadere nel truculento. Infine il vedere autorevoli personaggi o illustri santi presentati, anche in occasioni ufficiali, in ciabatte. Siamo infatti abituati a considerarle calzari domestici e, quando usate in esterno, indice di una certa trascuratezza. Nel Medioevo, però, erano utilizzate anche per uscire, infilate sopra le preziose babbucce di stoffa che non avrebbero potuto affrontare le non impeccabili condizioni delle strade. Così che proprio i più eleganti e ricchi dovevano ricorrervi».

@boria_a

sabato 8 dicembre 2018

IL LIBRO

Il love menu per risvegliare i sensi
fa la fortuna dello chef tamil




Carne di pollastro cotta con cipolle, fieno greco, curcuma, da far riposare in un brodo di coriandolo, cumino e tamarindo: è il pathiya kari, un piatto femminile, cucinato per le madri che allattano. In tavola, l’arrendevolezza delle sue carni si sposa al churaa varai, il piatto maschile a base di squalo speziato, con semi di curry e senape saltati in padella per renderne ancor più battagliero il sapore. Maravan, giovane tamil dello Sri Lanka, fuggito dalla guerra nel suo paese, lavora in un ristorante di lusso di Zurigo come lavapiatti, ma nessuno come lui conosce i segreti dell’unione perfetta delle spezie, l’amplesso dei gusti e dei profumi che, scoppiando nel palato del commensale, accende i sensi e rinvigorisce scintille da tempo sopite.

Fin da bambino, al fianco della prozia Nangay, che “riscaldava”, con le sue speciali pietanze e molta discrezione, il letto di coppie con grande differenza d’età, Maravan ha imparato i segreti di una cucina per appagare carne e spirito. Siamo nel 2008, nello Sri Lanka infuria la guerra intestina tra il governo e le Tigri Tamil, ma a Zurigo, nel suo piccolo appartamento da immigrato, il giovane sguattero col sogno di diventare chef, continua instancabilmente a sperimentare nuovi e audaci accostamenti degli afrodisiaci ayurvedici. Basta il profumo delle foglie di curry messe a bollire a ricordargli la lezione dell’amata prozia, che continua a sostenere a distanza con soldi e medicine, e ad acuire la nostalgia della famiglia, anch’essa coinvolta da vicino nel conflitto.


“Il talento del cuoco” dello scrittore di Zurigo Martin Suter (pagg, 370, euro 14,00), riproposto da Sellerio a sei anni dalla prima edizione, è molto più di quello che Maravan manifesta tra i fornelli. Se ne accorge per prima la collega Andrea, che dopo una cena gli cade tra le braccia, nonostante i suoi gusti sessuali non siano etero. Da lì l’idea di mettere in piedi insieme un catering molto speciale, il “Love Food”, per restituire il fuoco della passione a coppie ammosciate dal tran tran.






Nella fredda e frigida Zurigo l’iniziativa ha subito successo. A dispetto della sua discrezione e della sua religiosità, Maravan non ha problemi con un lavoro che stimoli i sensi altrui: «Nel suo paese d’origine si venerava il principio femminile quale forza creatrice del mondo. Le divinità avevano falli, seni e vagine e le loro madri non erano vergini. No, non aveva nessuna difficoltà a rapportarsi col sesso. Era un elemento importante della sua cultura, della sua religione e delle sua medicina. Ma in Svizzera sì, aveva qualche problema. E credeva di sapere perchè. La verità era che sotto sotto, nonostante fosse onnipresente, il sesso era un problema per gli stessi svizzeri».


Il turbamento del giovane tamil ha un’altra origine. È l’entrare nell’intimità di gente che, fino a quel momento, aveva osservato solo a distanza, da “invisibile”, da “clandestino a bordo di una navicella spaziale extraterrestre”. Armeggiare nelle cucine, conoscere le debolezze di estranei, ingoiare la vergogna che i suoi piatti, nati da sapienze antiche, siano preparati per tradimenti o giochi erotici montati come arma di ricatto. Confezionare “love menu” per bisogno di denaro, senza sospettare che davanti ai “falli gelatinizzati” o alle “passerine glassate di zenzero e pepe” (come Andrea ha ribattezzato asparagi e cuori di ceci) si concludano affari che portano i carri armati dismessi dalla Svizzera all’esercito con cui lo Sri Lanka massacra la sua gente. La storia di Maravan si conclude nell’aprile 2009, un mese prima della resa delle Tigri Tamil.


Con levità, Suter utilizza la metafora della cucina - asettica sotto le campane copripiatto del lussuoso ristorante dove Maravan lavora, avvolgente quella della sua tradizione - per dipingere una società che ci è familiare, con chiusure, ipocrisie, affari sporchi coperti dal segreto bancario e lauti guadagni sulla pelle degli ultimi arrivati. La Svizzera, e l’Europa, delle differenze di classe, dell’emarginazione, della facciata immacolata dietro cui proliferano traffici immondi. Il cibo diventa così uno straordinario ponte di condivisione e conoscenza, in grado di sciogliere pregiudizi e barriere, anche quelli che si perpetuano nelle comunità di immigrati, ostacolando l’integrazione in nome di una mal interpretata appartenenza. «Ecco perchè sono diventato cuoco. Sono affascinato da tutto ciò che è trasformazione», spiega Maravan. La sua è cucina di scambi, non solo di sensi, che Suter, con le complicate ricette riportate a fine libro, ci sfida a provare. 

@boria_a

martedì 4 dicembre 2018

MODA & MODI 

I gioielli
dell'imperatrice 







Una collana ispirata ai gioielli per il lutto, così raffinata che fa pensare piuttosto ai bagliori di una sala da ballo. La natura della principessa Sissi, in fondo, era così: duplice. Una donna sopravvissuta a tutte le trasposizioni di se stessa, cinematografiche e letterarie, e che ancora riesce a rendere il suo mito fonte di ispirazione. Sissi, icona congelata più contemporanea di una millennial.

La collezione di accessori firmata da Paola Fontana e Roberta Debernardi per la mostra “Mitteleuropa” (al Cavò di via San Rocco 1 a Trieste, da merc. a ven., 17-19, fino al 21 dicembre 2018), immagina pezzi per una Kaiserin fuori dal tempo e dalle mode, realizzati con tecniche miste e tessuti e bottoni dell’«archivio di recupero» del loro marchio, Studiocinque e altro (www.studiocinqueealtro.com).




I colletti, cui sono applicati pendenti di cristalli, si rifanno alle divise dell’esercito austro-ungarico, il più elegante d’Europa, le collane e le spille citano decori per parate, balli, battute di caccia, periodi di lutto. E ce ne furono nella vita dell’imperatrice, che mai però avrebbe mortificato la sua immagine, di cui aveva cura maniacale, anche in questo antesignana dei tempi. La collana nera, una delle otto, tutte diverse, di un’edizione limitata, è fatta di jais vintage, pietre brillanti trattenute da un collarino di velluto su cui sono stati applicati frammenti di vecchi vetri. Un’altra assembla preziosi bottoni d’antan (eredità di una defunta pellicceria triestina) cuciti con un filo rosso, un’altra ancora dischi di filigrana e cristalli.




Dodici le spille, ricavate da nastri filettati e modellati a mano, che ricordano le coccarde e gli ordini riconosciuti alle donne di famiglie reali. La collezione è stata ideata per la mostra (accessori numerati, come quelli che Studiocinque e altro firma per il Mudec di Milano) e non avrà repliche.

I prezzi? Adeguati al rango di un’imperatrice.
@boria_a
MODA & MODI

L'arte
di brillare

Cos’è quell’estemporaneo sbrilluccichio nelle vetrine? Un po’ troppo presto per l’anticipo di Capodanno. Siamo abituati alla comparsa degli abiti color carta stagnola nella prima decade di dicembre, appena un po’ prima delle mutande color ciliegia. La fine del 2018 si è accesa con largo anticipo. Dai vestiti sottoveste ai pantaloni, dai cardigan ai berretti, dalle t-shirt ai cappotti non c’è capo senza una trama di lurex, un riflesso metallico, un soffio di puntini dorati, un tocco glitterato.

Le paillettes si sono insinuate pian piano, una spruzzata qua e là, senza imporsi troppo e ora ne siamo assediati. Dorate, argentate, colorate. Ma da quando hanno varcato il confine del guardaroba da sera per uscire di giorno?
 

Le stagioni intere, proprio come le mezze, non esistono più. L’abbigliamento si fa a strati, per accumulazione o sottrazione, senza paura di abbinamenti inediti in consistenze e colori. Lo stesso vale per le occasioni, anch’esse diventate fluide. Trasparenze e nero si portano a qualsiasi ora e gli involucri d’oro e argento non sono più legati all’idea della notte da avvolgere di luce per qualcosa da celebrare. Un paio di pantaloni ricoperti di paillettes va d’accordo col maglione norvegese, una tunica glitter si mette coi jeans, la dolcevita argentata col tessuto tecnico, usciamo col piumino di stagnola per fare la spesa. Il segreto sta nel quanto basta. Niente total look, per non sembrare un roches. Meglio concentrarsi su un unico capo o su un accessorio se il fisico è importante. Le paillettes colorate evitano l’effetto squama. Un maglioncino brillante accende il tweed senza sopraffarlo.

Scintillare è un’arte che richiede discrezione.