venerdì 27 gennaio 2023

MODA & MODI 

 

Gli scaldamuscoli senza l'energia di Jane

 

Jane Fonda, 1982

 

Cosa resterà di questi anni Ottanta? Raf se lo chiedeva nel 1989 pensando alle cadute dei muri, alle proteste di piazza Tienanmen e ai leader politici che avevano segnato le sorti del mondo, come Reagan e Gorbacev. È però la moda del decennio a restare, anzi a resiste pervicacemente, tornando in superficie di stagione in stagione con singole tendenze: riecco le spalle quadrate, i tessuti technicolor, i colori sparati, la cascata di rouches, balze, volant, pois di un decennio energetico ed eccessivo, eclettico ed esagerato. Siete pronti a farvi investire da un’altra, potente ondata di déjà vu? La primavera estate 2023, che a dispetto del meteo spunterà nelle vetrine non appena liquidati i saldi, è un distillato di Ottanta: abiti ipercolorati, tessuti dorati e metallizzati, giacche oversize, spalle segnate, paillettes. Manca qualcosa? Certo: gli scaldamuscoli. E sono già qua, un toccasana parziale per le mini in circolazione a temperature proibitive, ma avvistati anche sulle recenti passerelle milanesi della moda maschile, perfetto capo gender.

Per quanto rivisitati, restano proprio loro, quelli che indossava Jane Fonda, insieme al body a righe e ai leggings, quando nel 1982 ebbe un successo planetario ed entrò con l’archeologica videocassetta nelle case di milioni e milioni di persone per insegnare il suo pilates domestico. Dal 1983 i meandri della memoria ci restituiscono un’altra immagine iconica: Jennifer Beals, in body e scaldamuscoli neri, che vola (anzi volano le ballerine sue controfigure) sulle note di “What a feeling” in “Flashdance”, la commedia mielosa rimasta nell’immaginario per la splendida voce di Irene Cara e quell’inedito e dirompente combo calzettoni-costume che sovvertiva il dress code dell’ortodossa étoile.

 

Flashdance, 1983

 

 

Il balletcore, il guardaroba ispirato al balletto, ha attraversato tutto il decennio, cominciando dal film “Fame” di Alan Parker, anno 1980, con la successiva serie cult “Saranno famosi”, replicata allo sfinimento, che ha portato golfini scaldacuore, scarpette rosa e tutù fuori dalle scuole di danza (citazione obbligata la gonna di Carrie nella sigla di Sex&TheCity, anno 2008), facendone dei pezzi evergreen sempre riproposti dalle collezioni.
 

 


Gli scaldamuscoli, per la verità, erano latitanti da un po’ e del loro ritorno forse non si sentiva l’impellenza. Trasversali, si infilano dappertutto: dai mocassini rialzati che definiamo “chunky” alle scarpe col tacco più o meno sottile, dagli anfibi alle ballerine.

A volte sono ricoperti di ecopelliccia per trasformare i polpacci in gambe da plantigrado, altre spruzzati di paillettes e abbinati a tute da ginnastica color caramella. I più desiderati sono semplicissimi, ma con un particolare che fa la differenza: il logo, ben visibile sul lato appena sotto il ginocchio.

 


 

 

Lo stesso vale per le ballerine più cliccate sul web e altrettanto concupite, che sfoggiano un’inequivocabile griffe sulla sottilissima cinghietta. Reperti degli anni Ottanta, appunto, ma che di quel decennio hanno perso lo spirito e anche l’energia (di Jane e tutte le altre).

martedì 10 gennaio 2023

MODA & MODI

 

Una cosa scintillante da sirena

appesa in palestra 




 

Eravamo abituati a vederle sparire appena bruciato il Capodanno, subito inghiottite dalle rassicuranti vetrine dei saldi, piene di capi che ovunque, infallibilmente ogni anno, tutti ci consigliano di comprare perché durevoli e adattabili: la camicia bianca, il cappotto cammello, il pantalone nero, il jeans ben tagliato e senza stramberie. Invece no. 

Quest’anno le paillettes non sono evaporate coi fuochi, ma resistono, si insinuano, in qualche caso colonizzano gli spazi dei negozi, anche all’inizio di un nuovo anno, quando siamo più versate ai buoni propositi e alle spese oculate. L’accostamento dello sbarluccichio con l’idea della notte o della festa comandata, è superato da tempo e quasi non ce ne siamo accorti. Prima un berretto, un paio di guanti o una sciarpa con una scia di lustrini, poi la gonna o il top dorato o argentato, poi la giacca nera con i revers paillettati, e così via via, un poco alla volta, qualsiasi capo del guardaroba ha tirato fuori la sua seconda vita bling-bling, non più confinata in determinate ore e occasioni. Non esiste la distinzione giorno e notte ha sempre detto Alessandro Michele, l’ex creativo di Gucci. E sulle passerelle di molte griffe sono sfilate donne coperte di squame brillanti o da una sorta di seconda pelle lucida, ottenuta da tessuti interamente realizzati con micropaillettes che creano un effetto di scivolosità e fluidità.


Dalle sfilate alla strada il passo è lungo, ma i video virali sui social amati dai giovanissimi polverizzano le distanze. E le paillettes, i lustrini, gli strass portati a qualsiasi ora e negli accostamenti più quotidiani e informali, sono entrati nel nostro orizzonte visivo. Un top sui jeans o una gonna glitterata con il maglione non ci fanno più voltare nè scatta l’idea che brillare fuori orario sia indice di grossolanità. Lo stesso Armani non si è sottratto alla tendenza e nelle collezioni 2023 di bagliori ne ha usati a profusione. “E pensare - ha detto - che qualche hanno fa un lustrino di giorno era fuori dal mondo”.


Perché allora ci piace luccicare a qualsiasi ora? La spiegazione più immediata ha a che fare con i vari “index” che scattano nei tempi incerti. Come il rossetto consolatorio, le cui vendite salgono nelle recessioni economiche, ecco che i punti luce nell’abbigliamento rinvigoriscono l’umore, ci danno un po’ di carica. Ma a consolidare la tendenza contribuisce la seconda vita social, trasversale a tutte le età: le scaglie luminose, gli effetti vinilici ottenuti con vernice e latex, il guizzo luccicante buca le vetrine di Instagram. Ed elettrizza i video su TikTok della Generazione Z, nata e cresciuta in un’estetica senza più codici e abbinamenti di rigore. 


L’altro giorno mi sono sorpresa a fissare un paio di pantaloni di paillettes d’argento appesi di prima mattina nello spogliatoio di una palestra. La proprietaria li ha indossati con maglione lunghissimo bianco, pelliccetta eco, scarpe da ginnastica. “Con le ginniche li sdrammatizzo” mi ha spiegato. L’ho ascoltata con curiosità, sia perché l’effetto coda di sirena all’alba era divertente, sia perché per la prima volta incappavo nel verbo “sdrammatizzare” riferito a un vestito fuori dal gergo degli articoli di moda. Per entrambe le ragioni, mi sono sentita illuminata (e un po’ energizzata) anch’io. 

domenica 8 gennaio 2023

PERSONAGGI

Leonor Fini, Mae West e la boccetta

per il profumo Shocking  (senza chili di troppo)

 

Shocking/ Lés mondes surréalistes d'Elsa Schiaparelli a Parigi

 

 

“Da questa silhouette è nata anche la bottiglia di profumo dal busto di donna, la famosa bottiglia di profumo Schiaparelli che è praticamente diventata la firma del brand. Eleanore Fini la disegnò per me e ci volle più di un anno perché il bouquet fosse pronto. A me ora toccava trovare il nome e scegliere in quale colore presentarlo. Il nome doveva cominciare con la S, questa è proprio una delle mie superstizioni”.

Così scrive Elsa Schiaparelli nella sua autobiografia, “Shocking Life” del 1954: shocking la sua vita, Shocking il nome che decise di dare al celeberrimo profumo, shocking la nuance di rosa per la scatola ispiratale dall’amico pittore Christian Bérard.
Schiap, «quell’italiana che fa vestiti», come la liquidava la rivale Coco Chanel, era arrivata a Parigi nel 1922, un anno prima di “Eleanore”, Leonor Fini. Era separata dal marito, il conte William de Wendt de Kerlor, un teosofo, e con lei c’era la figlioletta Gogo (la futura mamma di Marisa Berenson).

Da sempre sensibile alle suggestioni dell’arte, Schiaparelli si avvicina all’ambiente dei surrealisti. «Lavorare con degli artisti del calibro di Christian Bérard, Jean Cocteau, Salvador Dalì, Vertés e Van Dongen, con fotografi come Hoyningen-Huene, Horst, Cécil Beaton e Man Ray aveva un qualcosa di esaltante - annota nell’autobiografia - ci si sentiva aiutati, incoraggiati molto al di là della realtà pratica e noiosa in cui consiste la fabbricazione di un abito destinato alla vendita».


Per Schiap, Cocteau disegna motivi di ricami costellati da simboli poetici, Dalì i tessuti con le aragoste, le labbra rosse, la borsa-telefono, Jean Hugo crea bottoni-scultura, Elsa Triolet e Louis Aragon progettano un collier di pastiglie di aspirina. Ma è Eleanore, l’amica Leonor Fini, a firmare la “creatura” che percorre tutta la vita della stilista. «La moda nasce da piccoli fatti, tendenze, anche dalla politica, mai cercando di fare piegoline o balze, gingilli, o vestiti facili da copiare, o dall’allungare o accorciare una gonna...» dice Schiap in “Shocking Life”.


Eccolo il “piccolo fatto”. È il 1936, Leonor e l’amica stilista sono nell’atelier di quest’ultima, in Place Vendome, davanti alla statua di gesso che l’attrice Mae West ha inviato dagli Stati Uniti per facilitare la confezione dei costumi di “Every day’s a holiday”, il film diretto da Edward Sutherland che sarebbe uscito un anno dopo. Mae vuole vestiti Schiaparelli, ma senza spostarsi dall’America e per le prove in atelier ha mandato al posto suo la statua che la raffigura nuda nella posa della Venere di Milo.

 

Mae West in "Every day's a holiday"

 


È così che a Leonor viene l’idea per la bottiglia di Shocking: un manichino modellato sulle curve di Mae West, con un metro da sarta passato intorno al collo e incrociato sul punto vita, dove spicca la S di Shocking nell’inconfondibile rosa. Nella mostra “Shocking! Lès mondes surréalistes d’Elsa Schiaparelli”, splendido omaggio visitabile fino al 22 gennaio 2023 al Musée des Arts Décoratifs di Parigi, la boccetta di Leonor Fini è esposta accanto al ritratto che l’artista triestina fece a Gogo.


La bottiglia-busto è rimasto un oggetto iconico della griffe, ripresa negli anni Novanta da Jean-Paul Gaultier. Non andarono altrettanto bene i costumi per Mae West che nel frattempo era ingrassata. La Paramount fu costretta a cambiare la palette lilla-rosa-malva pensata da Schiap e a rifare tutti i vestiti in nero e colori più scuri, perché nemmeno i corsetti riuscivano a dominare i chili di troppo e a ridisegnare la leggendaria silhouette a clessidra dell’attrice.

PERSONAGGI

 "Estée Lauder? Complicata

La mia preferita è Leonor Fini" 


Leonor Fini vestita da Simonetta


 Wallis Simpson? Sapeva di non poter vincere sul piano della bellezza, ma quando conquistò il principe di Galles, che per lei rinunciò al trono d’Inghilterra, puntò tutte le sue carte sullo stile e sull’eleganza. Estée Lauder, l’imperatrice della cosmesi? Divisa tra l’azienda e una vita sociale frenetica, era difficile di carattere e per di più allergica a tutti i materiali, salvo la seta pura. La più simpatica? Leonor Fini, la pittrice triestina che aveva grande intuito e sensibilità per la moda: vestirla era una gioia.


Ricche signore del bel mondo parigino degli anni Sessanta, clienti affezionate, e alcune, come Lolò, diventate anche amiche. Dalle memorie di Donna Simonetta Colonna Romano di Cesarò, figlia del duca Giovanni, già ministro di Mussolini, per tutti Simonetta, eccentrica pioniera del made in Italy scomparsa nel 2011 a 99 anni, escono pungenti ritratti delle “celeb” che passavano per il suo atelier di Rue François 1.

 

Simonetta Colonna di Cesarò fotografata nel 1951 a New York da Clifford Coffin (Archivio Simonetta)

 


L’aveva aperto all’inizio nel 1962 insieme al secondo marito, lo stilista Alberto Fabiani, seguendo il trasferimento d’oltralpe del loro grande amico Roberto Capucci, che aveva lasciato Roma per sfilare per la prima volta a Parigi nello stesso anno. Quando Simonetta e Alberto debuttarono sulla scena francese con la collezione congiunta “Dauphin”, l’amica Leonor Fini era tra gli invitati, accanto a Elsa Schiaparelli ed Helena Rubinstein. Poliziotti facevano la guardia all’ingresso della boutique e negli showroom del piano superiore, perchè gli accessori per gli abiti erano preziosi da mille e una notte prestati dal gioielliere americano Harry Winston.


Leonor e Simonetta si erano conosciute a Roma, durante la guerra. La prima frequentava scrittori e artisti della capitale e si affermava come ritrattista di signore dell’alta società, tra cui la sorella di Simonetta, Mita, andata in sposa al conte Uberto Corti Santo Stefano Belbo, che ritrasse nel 1949 (l’opera fu esposta al Museo Revoltella di Trieste, nella grande mostra del 2009 su Leonor Fini, l’italienne de Paris).
Simonetta, all’epoca sposata con Galeazzo Visconti di Modrone, aveva fondato appena ventiquattrenne, nel ’46, la sua casa di moda, annoiata dall’asocialità del marito. Cinque anni dopo, alla sfilata che segnò la nascita della moda italiana, nella villa fiorentina del marchese Giovan Battista Giorgini, presentò le sue creazioni accanto alle Sorelle Fontana, Schuberth, Marucelli, al futuro secondo marito Fabiani, a Jole Veneziani, Pucci, e a un imberbe Capucci, che fece parlare di sè vestendo moglie e figlie del padrone di casa.


Ma torniamo alle clienti di Rue François 1. Wallis Simpson, racconta nelle sue memorie Simonetta, era “la cliente ideale”. La sua segretaria fissava gli appuntamenti e lei era di una puntualità assoluta, comparendo infallibilmente all’ora stabilita. Estée Lauder, al contrario, non avvertiva mai del suo arrivo, ma in genere si presentava in maggio o giugno, al culmine della stagione, quando aveva bisogno di nuovi abiti da cocktail o da sera. Non aveva una bella figura e non era facile da vestire, per di più le sue allergie obbligavano le sarte a foderare tutti i capi in chiffon. Suo marito Joe, alto e robusto, fungeva da sherpa, reggendo le scatole con i suoi spettacolari gioielli. Seduto nello showroom aspettava pazientemente che Madame Lauder scegliesse tessuti e colori adatti per l’abbinamento ai monili. Le prove erano lunghe e laboriose, perchè la linea del décolleté andava spesso modificata in modo da valorizzare spille e collier e l’atelier era costretto a defatiganti straordinari.


«La mia cliente prediletta - confessa Simonetta nel memoir
("Una vita al limite, 2008, Marsilio) - era la pittrice Leonor Fini». Bruna, istrionica, «aveva grande intuito e sensibilità per la moda. Il suo stile era molto personale, semplice, ma sorprendente. Proprio quello che preferivo!». La tenuta più amata da “Lolò” consisteva in un completo pantaloni e blusa, «che indossava con inimitabile e spavalda eleganza». Simonetta racconta come alla pittrice piacesse moltissimo avvolgersi con fare teatrale in lunghi mantelli ondeggianti, poncho e scialli. «La sua tavolozza di colori non cambiò mai: amava il nero, nero con qualche tocco bianco, oppure il rosso. In inverno indossava quasi sempre stivali col tacco alto e cappelli di pelliccia alla cosacca».


Leonor aveva ritratto Simonetta nel 1947-48: bellissima, altera, il collo da cigno circonfuso dal nero della camicia, gli occhi profondi che guardano lontano. Per Leonor, Simonetta aveva ideato una sorta di pantalone-stivale, rigorosamente nero. E le aveva inviato da Roma a Parigi le lunghe piume per il costume da “Angelo nero”, con cui l’artista monopolizzò l’attenzione dei media internazionali a Venezia il 3 settembre 1951, nel fastoso “Bal du siècle”, organizzato dal miliardario Carlos de Bestegui a Palazzo Labia.


Il loro sodalizio fu lungo e profondo. «Penso di essere stata una delle sue poche amicizie femminili - scrive Simonetta nel memoir - perchè non si curava troppo della compagnia delle donne. L’amicizia, però, era molto importante per lei, che odiava essere sola».

martedì 3 gennaio 2023

IL PERSONAGGIO

Anita Pittoni, la triestina "stramba"

che inventò gli "straccetti d'arte"

 

Discontinuità. È la parola scelta da Alessandro Del Puppo, curatore della Collana d’arte della Fondazione CrTrieste, per presentare il ventitreesimo volume, appena uscito come strenna natalizia. Discontinuità perché è il primo dedicato a una donna e il primo a uscire dalla direzione “pitturocentrica” della collana, se si esclude quello sullo scultore Ruggero Rovan.

 

Anita Pittoni (Trieste, 1901-1982) in un ritratto degli anni '60
 (Biblioteca Hortis Trieste)

 

 

La protagonista della monografia del 2022 è Anita Pittoni e questo omaggio è di per sè carico di significati: non solo perché a una donna, in un anno in cui le donne hanno guidato e determinato il cambiamento in tanti ambiti, ma perché a una donna creativa, controcorrente, anticipatrice, singolare e per questo inevitabilmente sola. “Ruggero fin da piccolo si abituò a vivere in solitudine, una solitudine che egli sapeva arricchire di fantasie indefinibili con l’ansia di impadronirsi al più presto dell’alfabeto” scrive Anita nel 1955 proprio dell’amico scultore Rovan, certamente confessando anche di sè.


Artigiana, designer, disegnatrice, pittrice, poetessa, infine editrice, Anita Pittoni è stata un’artista a tutto tondo, una personalità complessa che riuscì a cogliere e interpretare i cambiamenti in atto nella cultura del suo tempo, a farsi largo in settori di esclusivo appannaggio maschile e a portare il suo gusto e il suo stile ben al di là dei confini nazionali, ottenendo riconoscimenti che Trieste, pur sua città amatissima, le tributò con parsimonia, almeno fin quando era in vita.

 

Anita Pittoni indossa il suo "Vestito" nel 1935

 


In vent’anni di attività il suo Studio d’arte decorativa rivoluzionò il campo dell’artigianato artistico applicato al tessile e alla maglieria. Non solo. Nel suo “manifesto” - dal “Profilo per l’istituzione di una scuola artigiana” del 1963 - spiega di aver voluto riscattare i lavori femminili per portarli sul piano dell’arte e di aver cercato di educare le donne all’esecuzione di manufatti d’alto livello, potenziando il discernimento “tra bello e brutto, tra fatica utile e inutile, tra il ben fatto ed il malfatto”.


La monografia che porta la firma di Rossella Cuffaro - e conta su un ricchissimo corredo di immagini oltre a un apparato di scritti della protagonista, alla sua bibliografia, alla cronologia delle partecipazioni a mostre e fiere nazionali e internazionali, alle schede sulle opere e gli artisti con cui collaborò - segue il percorso professionale di Anita, attraverso il suo ampio e articolato archivio, lasciando in secondo piano le testimonianze personali su “la Pittoni”, dove spesso le asperità del carattere prendono il sopravvento sul profilo di una designer per certi versi geniale.

 

Un abito di Anita Pittoni al Design Museum a Milano nella mostra sulla creatività degli anni '30

 


Dal “fatidico” 1928, anno in cui visitò a Vienna i laboratori della Wiener Werkstätte e lasciò la famiglia per trasferirsi dal primo compagno, il medico Giovanni Parovel e avviare la sua attività a palazzo Hierschel dell’odierno corso Italia, in casa delle amiche sorelle Wulz, alle collaborazioni come costumista teatrale con Anton Giulio Bragaglia; dalla prima mostra di pannelli decorativi al Circolo artistico di via Margutta a Roma col grafico Marcello Claris, alla successiva Biennale al Castello Sforzesco di Milano che le aprì le porte dei circoli culturali e artistici animati da Gio Ponti, Raffaello Giolli, Ernesto Nathan Rogers, il volume segue anno per anno l’affermarsi di Anita, i suoi rapporti, sempre dialettici, con gli artisti triestini di punta, tra cui Leonor Fini, Urbano Corva, Maria Lupieri, Marcello Mascherini, Augusto Černigoj, Ugo Carà, Carolus Cergoly, gli articoli per riviste come Domus e Casabella, la crescita del laboratorio, che, in un decennio, coinvolse almeno un centinaio di lavoranti. Un percorso sempre sostenuto dalla consapevolezza del suo valore, pioniera anche nel griffare le creazioni, prima con un monogramma a forma di freccia poi con le etichette di stoffa e il nome per esteso.

 

Disegni futuristi di Anita Pittoni

 


“Arte e vita per me sono una cosa sola” s’intitola il primo capitolo del volume, che offre la chiave di lettura della monografia. Anita espone in Italia e all’estero, da Parigi a Budapest, sperimenta le fibre autarchiche promosse dal fascismo - juta, canapa, lino, ginestra - realizza abiti da spiaggia, da giardino, da sera, e poi costumi da bagno, completi da viaggio adatti alle decapottabili, accessori, tovagliati, tende, cuscini, arazzi premiati nelle mostre e lodati dalla stampa, intreccia rapporti professionali e personali, come quello col giovane architetto Agnoldomenico Pica, nel cui studio milanese nel ’36 aprì una succursale e che le fu accanto sino all’inizio di un’altra avventura, quella editoriale dello Zibaldone questa volta con Giani Stuparich al suo fianco.

 

Un cappello di Anita Pittoni alla Triennale di Milano nel  2016

 

Negli anni d’oro dello Studio d’arte decorativa, dal 1931 al 1942, Anita Pittoni lavora senza sosta: sperimenta, partecipa alle esposizioni, riceve commissioni dai più importanti studi d’arredamento d’interni (uno tra tutti: il BBPR, Banfi-Barbiano di Belgiojoso-Peressutti-Nathan Rogers), dagli architetti protagonisti del nascente industrial design, alleanza tra curata produzione seriale e manualità artigianale. L’atelier entra nell’Enciclopedia Treccani.
Nel 1940 alla VII Triennale milanese - chiusa un giorno prima della dichiarazione di guerra - espone il Pannello imperiale nell’Aula Massima del Palazzo dell’Arte, sullo sfondo della tribuna d’onore, la grande tenda “Li Fioretti di Sancto Francesco” nella galleria principale, la tenda “Le pudiche e le impudiche” e vince due medaglie d’oro e una menzione.


Ma la fine dello Studio si avvicina. Prima i gravi lutti familiari, il venir meno della madre Angelina, da sempre sua collaboratrice, e del fratello più piccolo, Franco, sommergibilista, la mancanza di materie prime e di lavoranti, le sempre più aspre difficoltà economiche sia all’arrivo dei nazisti del Küstenland sia più tardi, negli anni del Governo militare alleato, le delusioni per alcune trasferte negli Stati Uniti andate male, il fallito tentativo di rilanciare il laboratorio con la socia Olga Bois de Chesne, che investe denaro ma poi si ritira per divergenze caratteriali. Anche la Scuola d’artigianato di qualità, il sogno che aveva sempre coltivato per dare un mestiere alle tante ragazze profughe dall’Istria, non si realizza, seppure lei ci creda fino alla fine.


Nel 1949 Anita chiude, pur continuando a sopravvivere, negli anni delle alterne fortune dello Zibaldone, vendendo materiali, oggetti e abiti dello Studio.
Muore l’8 maggio 1982 al reparto Lungodegenti di San Giovanni, a 81 anni. Al suo funerale partecipano in pochi. “Sono un po’ spaventata da me stessa, dalla rivoluzione che sono, di questo mio vedere le cose in una indipendenza alla quale forse non ho diritto”, scriveva.


Dimenticata per vent’anni, nel 1998 il suo busto fu il primo dedicato a una donna collocato tra i grandi triestini nel Giardino pubblico. L’anno dopo l’omaggio con la mostra “Straccetti d’arte” a Palazzo Costanzi, l’annullo filatelico, l’intitolazione di una scuola. Alla “donna stramba”, come lei si definiva, all’«indiavolatissima triestina», per dirla con Bragaglia, che aveva ripulito il “tricoter” dalle superfetazioni domestiche, incrociando tecnica e arte, semplicità e funzionalità, alla ricerca costante della bellezza.