lunedì 22 maggio 2017

MODA & MODI

Quella griffe è un boomerang






A leggere della fresca polemica sul boomerang griffato Chanel viene in mente un libro surreale ed esilarante di qualche anno fa, “White girl problems”, un resoconto dei fastidi quotidiani di giovani miliardarie, col grattacapo di trovare sempre qualcosa di nuovo dove occupare soldi e tempo senza slogarsi la mascella per gli sbadigli. (ne scrivo qui)

Che c’entra il boomerang? Ecco di che cosa si tratta: la maison francese firma con la sua doppia C l’oggetto della tradizione aborigena e lo vende a 1260 euro. Su Instagram, Twitter, Snapchat Jeffree Star, modello e make-up artist inglese da quasi cinque milioni di follower, cinguetta tutta la sua delizia - “che divertimento col mio boomerang Chanel” - e, siccome il post non ha l’indicazione che si tratta di pubblicità, come impone la legge britannica, ci sarebbe da credere si sia davvero piacevolmente intrattenuto con l’oggetto in questione (e magari l’abbia pure pagato di tasca sua).

Il boomerang, però, che per gli aborigeni è un’arma per procurarsi cibo, quindi necessaria alla sopravvivenza, è tornato dritto dritto a infilarsi nella C incrociata di Chanel. L’accusa sollevata dagli attivisti austrialiani in rete è quella di “appropriazione culturale”, ovvero di aver sfruttato un oggetto appartenente alla tradizione di un popolo snaturandolo del suo significato per puri fini commerciali. Il dibattito sul tema impegna antropologi e filosofi: fin dove è lecito spingersi nel pescare motivi, decori, utensili, saperi artigianali da culture senza stravolgerne la funzione e umiliarne le origini? E non è la moda un continuo stratificarsi e mescolarsi di elementi di geografie diverse, non è ogni collezione un guardare e assimilare da altri mondi? Yves Saint Laurent confessava di odiare i viaggi, ma di volare con la fantasia dall’Africa all’India, dalla Russia alla Turchia, e della cultura di questi paesi restano tracce (rispettose anche se “rilette”) in alcune collezioni memorabili. (ne scrivo qui)

Forse nel caso del boomerang il nocciolo del discorso è un altro. Senza scomodare “appropriazioni” e riflessioni alate sui confini della cultura, basta parlare di buon senso. La stampigliatura Chanel su un pezzo di legno e resina da oltre mille euro non ne fa un oggetto di lusso, solo un oggetto inutilmente costoso. Chanel ha fatto anche palline da tennis con la doppia C, a 370 euro. C’è differenza? Sono entrambi passatempi per “white girls” (o guys) ansiosi di mettere un logo anche sulla noia.

@boria_a

giovedì 18 maggio 2017

MODA & MODI

Un nuovo atelier dove si fa "Dressage"




Dopo cinque anni, parte dei quali passati a disegnare e inventare accessori in dialogo tra Trieste e San Paolo del Brasile, Rossella Mancini e Matteo Dazzo, i due designer del brand “Dressage”, inaugurano venerdì 19 maggio il loro primo laboratorio e negozio. Si chiama “Atelier Dressage” lo spazio che apre al pubblico alle 18.30 in via Donota 36/c a Trieste, un piccolo “salotto” di pochi metri quadrati, arredato con mobili vintage scandinavi e qualche tocco tropicale che ricorda il bagaglio brasiliano di Rossella, dove i due creativi, ormai triestini d’adozione, accoglieranno i visitatori per mostrare come vengono ideati e confezionati i pezzi delle loro collezioni.



Due versioni della "Less is bag"

 
Arrow necklace


Dressage” (www.maisondressage.com), fin dal debutto nel 2012, si è distinto per le linee fetish, ispirate al mondo dell’equitazione, di cui fonde disciplina e armonia, costrizione ed eleganza. Braccialetti, collari, mascherine, reggicalze, giarrettiere, speciali “imbragature” da portare sopra le camicie o a contatto con la pelle, ma anche più semplici borse, shopper e pochette, realizzati a mano in pelle, mogano, seta, chiffon, cotone.


Suspender Belt


«Quando sono rientrata in Italia, nel 2015 - racconta Rossella, laurea nel campo della moda al Dams di Trieste, illustratrice - Matteo e io abbiamo cominciato a pensare più in grande, a un atelier nostro anche come punto di partenza per nuove collezioni. Entro l’estate, infatti, lanceremo le prime borse non in pelle, borse “vegan”, fatte di resine e materiali plastici. Pian piano, negli anni, la nostra originale ispirazione si è fatta meno aggressiva, si è diversificata, spaziando dalle borse all’abbigliamento, mentre crescevano le nostre capacità artigianali. Abbiamo partecipato a eventi ed esposizioni, l’anno scorso, per esempio, con la collezione “Altera”, allo showcase Dreamers nel nuovo museo Ettore Fico di Torino».




Pochette bite e Pochette finger




In via Donota l’atelier è diviso tra il vero e proprio laboratorio (con i banchi di lavoro recuperati dalle tavole di legno del vecchio parquet), e lo showroom, dove amici e clienti vedranno, grazie alle illustrazioni, come da uno schizzo si sviluppa il “concept”, l’idea di una collezione, e infine i singoli oggetti. Dell’idea originaria di “Dressage” sono rimasti alcuni punti fermi: i colori, nero e pelle naturale, e l’approccio “green” della concia vegetale.
@boria_a

domenica 14 maggio 2017

IL LIBRO

Nino e Giana Andreatta, cinquant'anni d'amore nella storia d'Italia



Giana e Nino Andreatta



È il 1957, all’Università Cattolica di Milano, quando la studentessa diciannovenne Giana Marina Petronio, triestina, di famiglia che nei due rami ha origini ungheresi e inglesi, incontra un assistente fuori sede, dall’andatura sghemba e gli occhi verdi, Nino Andreatta, trentino, di dieci anni più vecchio. Il loro amore attraversa mezzo secolo e un capitolo importante e controverso della storia recente d’Italia, di cui lui è protagonista pubblico come esponente democristiano di centrosinistra e ministro in vari governi. Ma non è l’uomo delle istituzioni che Giana ritrae in “È stata tutta luce” (Bompiani), come s'intitola - da una frase di Piero e Ada Gobetti - il libro che il 15 maggio 2017, alle 18, verrà presentato dall’autrice all’Associazione Civita di Roma in piazza Venezia, insieme ad Aldo Cazzullo e Mariantonietta Colimberti.

Il racconto è quello della vita privata della coppia e dei quattro figli, dei fatti minimi e quotidiani, degli incontri e degli aneddoti, in un fluire di ricordi che segue non la cronologia ma i sentimenti e il cuore. Un diario denso e preciso, a tratti ironico e tagliente nei giudizi, che corre avanti e indietro nel tempo, dall’infanzia di Giana nella casa di Scala Ferolli, tra Pendice Scoglietto e via di Cologna a Trieste, fino al terribile malore in Parlamento che spense, con sette anni di anticipo rispetto alla morte fisica, l’uomo della sua vita.



L’incontro Giana Marina vede Nino Andreatta per la prima volta all’Università Cattolica di Milano nel 1957. Lui è assistente del professor Francesco Vito e tiene corsi di Economia e Politica Economica, lei segue Scienze Politiche. Il professorino la nota a una conferenza in aula magna e per avere l’occasione di un incontro escogita lo stratagemma di appunti di storia che non gli servono affatto. Un anno e mezzo dopo, il primo bacio: lungo la strada verso il lago Maggiore, Nino la mette a sedere sul cofano della “Dauphine” e la lamiera dell’auto è così sottile che rimane il segno delle sue forme. È pazza di gioia. Nel frattempo Nino tenta l’esame per la docenza, ma il professor Vito, che sarà rettore dopo padre Gemelli, giudicando l’incarico prematuro, gli confeziona una commissione contraria e lo bocciano. 


Matrimonio Giana morde il freno, cerca di farlo dichiarare, è ansiosa, nevrotica, va in analisi. Finalmente Nino riceve un incarico dal Mit Center for internazionale studies. Un anno a New Delhi come esperto della planning commission. Tra le spese pagate c'è anche quella per una "seconda persona, segretaria o moglie". Durante una cena, Nino infila al dito di Giana un enorme solitario, la classica nocciola salgariana. Si sposano nella cappella di San Sigismondo a Sant’Ambrogio, il 30 settembre 1961, la sposa in raso opaco duchesse col corpino stretto, piccolo strascico e velo da ripiegare all'indietro, come molti anni dopo farà Diana Spencer. Testimone di lui è Carlo Bo, che non porta neanche il regalo, consapevole che basta la sua presenza. Breve viaggio di nozze in Italia, Mantova, Venezia, poi la partenza.


L’India Sono innamoratissimi, ma l'adattamento alla vita di coppia difficile. Nino è maturo e saggio, a volte un po’ didattico, Giana competitiva e volitiva, si prende la rivincita nell'inglese, che il marito parla con brutta pronuncia. Il professore non sa neanche nuotare, ma questo, al contrario, suscita nella moglie un sentimento di tenerezza. Nino vuole che lei porti tacchi alti e abiti eleganti e che sia truccata in modo impeccabile, Giana vive queste richieste come un’imposizione (che le ricorda quelle paterne), è gelosa. Viaggiano, fanno vita di società, incontrano l'altezzoso Nehru e la Maharani di Jaipur, forse amante dell'ambasciatore americano Galbraith. In India viene concepito il primo figlio, Tomaso (dalla lettura delle lettere dalla prigionia di Tomaso moro) e Nino ha la notizia di aver vinto il concorso a cattedra. Dopo il discorso su Stato e mercato al secondo convegno Dc comincia a collaborare con Aldo Moro, di cui è per anni consigliere economico.


Trieste Amatissima da Giana è la nonna materna Lina, nata Carolina Newman, che a Trieste abita in via Pascoli con la zia Nora e la cugina Nellie. La casa è vecchia, con gradini scivolosi e consumati, e odora di affumicato per la cucina a legna e per le Nazionali o le Alfa che la nonna fuma col bocchino di legno. C'è la stanza biribissaio dov'è lecito lasciare zuf, disordine, perché si tratta ufficialmente di uno sgabuzzino anche se arredato con bei pezzi di mobilio. Nonna Lina è una donna spiritosa e s'interessa molto ai problemi adolescenziali della nipote, come l'infatuazione per l'ufficialetto Salvo, conosciuto sulla nave che riporta la famiglia in Italia dall’Egitto, dove il padre di Giana, Giordano Bruno, è vicedirettore del banco italo-egiziano. Quando nonna Lina muore a seguito dell'amputazione di una gamba in cancrena, viene sepolta nel cimitero protestante, nella tomba dei Newman.
Zia Ida, invece, sorella della mamma di Giana, sposa zio Angelo, che tutti considerano un pampel, o peggio, un mona. Tornato dall’Accademia, però, diventa sarcastico e tagliente, spesso feroce, e nessuno lo importuna più. Dopo il matrimonio è infedele alla moglie. Una volta, quando si temeva per la sua vita, Giana ricorda che la zia accarezzava la mantella nera di gala del marito distesa sul letto e diceva a mezza voce: “De questa me vien benissimo un capoto nero de luto”.

La famiglia di papà Con la nonna paterna Giannina, piccola è magrissima, Giana va alla Lanterna, al bagno Excelsior o al Savoia, con una borsetta di taffetà scozzese che custodisce il panino con la frittata. Nonna Giannina aveva sposato nonno Carlo, di tre anni più giovane, bello e massone, e per amore aveva ripudiato la sua religione e dato ai figli i nomi di Giordano Bruno e Armida. A 36 anni, appena nominato direttore di banca, nonno Carlo muore in un incidente d’auto causato dalla bora che soffia a 130 km all'ora. Quando Giordano Bruno si fidanza con Paola, la futura suocera la mette in guardia: “Guarda che el Bruneto xe mato. Bisogna dirghe sì sì no no come che’l vol, proprio come ai mati”. I due non vanno d’accordo. Dopo il matrimonio di Giana, Giordano Bruno, dirigente del Credito Italiano, lascia la moglie e si trasferisce definitivamente a Londra. Muore nel 1986, padre e figlia non si frequentano ormai da vent'anni. Anche nonna Giannina muore lontano, senza più contatti con la nipote, ultracentenaria. Zia Armida, invece, sposa zio Angelo, che tutti considerano un pampel, o peggio, un mona. Tornato dall’Accademia, però, diventa sarcastico e tagliente, spesso feroce, e nessuno lo importuna più. Dopo il matrimonio è infedele alla moglie. Una volta, quando si temeva per la sua vita, Giana ricorda che zia Armida accarezzava la mantella nera di gala del marito distesa sul letto e diceva a mezza voce: “De questa me vien benissimo un capoto nero de luto”. Anche la zia muore lontano.


Psicanalisi Nel '63 Nino ottiene la cattedra di Economia all'Alma mater studiorum di Bologna e nasce Tinny, chiamata così dal nome della principessa protagonista della commedia “Dalia” di Tagore, vista in India (oggi è responsabile di Rai Fiction). A Bologna Giana nel ’67 si iscrive a una scuola di specialità post-laurea in Psicologia e si diploma con una tesi sull’incidenza della mancanza di cure materne nella prima infanzia. Nascono Filippo e poi, nel 74, Erika. Giana diventa psicanalista e apre uno studio a casa. Con gli anni è meno ansiosa di contrapporsi a Nino, crescono insieme, si influenzano reciprocamente.


Ministeri Nino viene nominato ministro per la prima volta nel '79, al Bilancio, nel primo governo Cossiga, ma Giana cura lavoro e famiglia e non approfitta delle occasioni di rappresentanza del marito. Una volta che si fa tentare da un pranzo col presidente americano Carter e parte per Roma con un abito lungo di cady color castagna, di una maison che conta un giovane Ferré tra i suoi designer, per un'incomprensione del protocollo non ottiene il posto a tavola. Insieme viaggiano di più quando lui diventa ministro degli Esteri nel gabinetto Ciampi. Giana conosce e apprezza la moglie di Boutros-Ghali, segretario dell'Onu, mentre di Hillary Clinton, che incontra in Giappone, dice “era bruttina ma tenuta al meglio da sarte e parrucchieri; molto intelligente, ma poco gradevole e non cordiale”.


Fiuto Anche Nino, di austera moralità e rigore austroungarico, dà giudizi netti. Chiama Guido Carli "principe" (un richiamo a Machiavelli), tiene a distanza Bertolaso, rifiuta una legumiera d’argento di Faraone regalatagli dal finanziere Nino Rovelli e la dirotta in parrocchia. Una volta, da ministro del Tesoro, sta rientrando in volo a Roma da Milano quando lo raggiunge Berlusconi, in giacca nera e pantalone rigato grigio e nero (come i businessmen della City non vestono più già da anni). Berlusconi cerca un passaggio per parlargli di un finanziamento per il suo progetto di Milano Due, ma Andreatta ha l'impressione di trovarsi davanti a un “venditore di tappeti”, gli dice che ci sono di mezzo interessi privati, e lo lascia a piedi. Il cavaliere ripiegherà su Craxi. Quando Bettino assume la guida del centrosinistra, Andreatta commenta che, mentre i democristiani erano "artigianali" nel perseguire il loro tornaconto personale, coi socialisti si era passati a un livello industriale.


15 dicembre 1999 È Castagnetti a telefonare a Giana e a darle la notizia del malore di Nino durante la seduta parlamentare dopocena per la Finanziaria. La famiglia accorre all'ospedale San Giacomo e sarà l'ultima volta che la donna vedrà aperti quegli occhi verdi che l'hanno fatta innamorare cinquant’anni prima. Nino Andreatta muore il 26 marzo 2007 al Policlinico sant'Orsola di Bologna senza essere mai uscito dal coma vegetativo. Del compagno di una vita Giana dice: “Hai lasciato un pieno immenso”.

@boria_a

lunedì 8 maggio 2017

MODA & MODI

La première dame con la tentazione glam-rock 


 

Il suo sarà il guardaroba più anatomizzato dei prossimi mesi, ancor più di quello di Melania. Con cui condivide praticamente la stessa differenza di anni rispetto al partner, solo che nel suo caso è lui, il presidente, il più giovane. Madame Macron, première dame di Francia, ha sdoganato “istituzionalmente” un pregiudizio duro a morire, che cioè solo gli uomini possano sposare una donna con un quarto di secolo in meno senza doversene continuamente scusare o giustificare davanti a qualcuno.

L’armadio di Brigitte, finora, è andato anch’esso controcorrente, come le sue scelte di vita, rischiando l’effetto opposto: invece di rafforzare l’immagine di una signora solida e affidabile accanto al nuovo inquilino dell’Eliseo, la passione per le gonne corte e gli abitucci sbracciati ha rivelato un possibile tallone d’Achille, quella di minimizzare nell’aspetto il gap d’età col partner. Insomma, moglie sicura di sè e abile stratega politica, ma comunque ansiosa di apparire più giovane, al punto da infilarsi con una certa frequenza in chiodo e tronchetti fuori tempo massimo. Oltretutto, accanto a un compagno così scialbo nello stile da non meritarsi tanto eccesso di zelo. Della coppia presidenziale è lui, Emmanuel, il più attempato, impossibile scrostargli di dosso quell’aria da salotto dell’alta finanza nemmeno infilandolo a forza in un paio di jeans. Morale? Non serve eccedere per non sembrare sua nonna.





Da tempo, in vista del rash finale verso la presidenza, Madame Macron ha lavorato a riposizionare le sue mise, con i buoni consigli della giornalista-guru Mimi Marchand, amica di star e potenti, e di Delphine Arnauld, figlia di Bernard, il patròn del colosso LVMH, e direttrice generale di Vuitton. Punta sulle gambe, lunghe e snelle, e le valorizza con pantaloni skinny. Ha allungato maniche e gonne e indossa più spesso giacche con dettagli ricercati, cappottini sopra il ginocchio, giubbini con la zip. Pantaloni di pelle, scarponcini da motociclista, inserti argentati glam-rock (li aveva anche al Louvre nel trionfo di domenica), restano il suo punto debole, come l’azzurro ceruleo che ama tanto e spolvera tutto di zucchero. Forse basterebbe prendere spunto dalla vituperata Carlà, che in fatto di bon ton da première dame ai francesi ha dato più di una lezione...

@boria_a

sabato 6 maggio 2017

IL LIBRO

Dentro l'America dei perdenti

 
J.D. Vance



J. D. Vance è un americano bianco, ma non è wasp, white anglosaxon protestan, discendente degli originari coloni, facoltoso e classista. Non è neanche un democratico newyorkese con molti soldi e una famiglia creativa e patologica da raccontare al suo psichiatra. Viene da Jackson, nel Kentucky, dove i discendenti degli immigrati irlandesi o scozzesi sono chiamati con disprezzo “hillbilly”, gente di collina, o “redneck”, colli arrossati dal sole o, ancora, white trash, spazzatura bianca. Comunità di contadini, poveri e ignoranti, che negli anni ’50, per sfuggire all’endemica avarizia di questa terra, e degli Appalchi e del West Virginia, emigrarono in massa verso gli stati industrializzati dell’Ohio, del Michigan, dell’Indiana, lungo la “rust belt”, la cintura del carbone e dell’industria pesante, inseguendo quel sogno americano che resterà un miraggio. Quando le industrie cominciarono a licenziare, le famiglie, prive di reti sociali, vennero devastate da alcol, droga, violenze, indolenza. L’«yes, we can» di Obama qui non ha mai avuto alcun senso, anzi, ha un suono sinistro. Qui Trump ha vinto, con il suo linguaggio duro, diretto, misogino e “politically incorrect”, contro l’avversaria Hillary, la signora dell’upper class che parla una lingua incomprensibile in periferie senza sogni nè ambizioni, che non hanno mai preso l’«ascensore sociale».

J. D. Vance è oggi un avvocato laureato in una delle facoltà di legge più prestigiose del mondo, la Yale Law School. Ma la sua storia è cominciata lì, a Jackson, la città dei suoi nonni, tra la gente che vive nelle roulotte ammassate nei parcheggi o nei casermoni popolari, ed è proseguita a Middletown, cittadina industriale dell’Ohio, dove la famiglia si ritrova prigioniera dello stesso scenario desertificato che ha lasciato alle spalle.


Quando, nel 2016, è uscito negli Stati Uniti “Hillbilly elegy”, autobiografia diretta e urticante ma anche saggio spietato sul proletariato bianco americano, l’editore HarperCollins non avrebbe mai immaginato un successo simile: un milione di copie vendute, i vertici delle classifiche per settimane, J.D. Vance promosso commentatore e politologo, inseguito dai media. Il libro è ora pubblicato in Italia da Garzanti col titolo di “Elegia americana” (pagg. 254, euro 18,00), un viaggio dolente e violento dentro l’America profonda, lontana dalle metropoli e dall’immagine stereotipata che spesso ne hanno i turisti, piena di “I love” col cuoricino rosso, di loft e miliardari siliconati. L’America che molti hanno scoperto il giorno dopo la vittoria di Trump: disorientata, impoverita, incattivita, xenofoba, pronta a credere al candidato più lontano da sè, ma che sa prenderla per la pancia. L’uomo che dice “America first” come se lo dicesse proprio a te, per tirarti fuori dall’angolo. 


J. D. Vance ha avuto una mamma drogata, che cambia compagno prima ancora che i figli si orientino nella nuova casa. Un nonno alcolizzato e una nonna che combatte a modo suo con assenze, aborti, infedeltà, alzando le mani e qualche volta un’arma. È cresciuto in un contesto degradato, dove il lavoro e l’istruzione non sono valori e i sussidi statali un alibi per continuare a non far nulla, maledicendo Obama che ha chiuso le miniere e i cinesi che hanno rubato i posti degli americani. Ma la famiglia, con tutti i suoi limiti, gli dà un messaggio positivo: sua madre, bugiarda seriale, lo porta in biblioteca, la nonna lo spinge a migliorarsi. «Se vuoi un lavoro che ti permetta di passare i weekend con la tua famiglia, devi diventare qualcuno». Era l’essenza del suo genio, dice Vance, non solo imprecare e pretendere, ma farti intravedere ciò che era possibile e spiegarti come ottenerlo.


Dopo l’esperienza nei Marines, la vita dell’autore cambia. A casa aveva imparato a rassegnarsi, nell’esecito gli instillano la “determinazione appresa”. Smette di credere che c’è un qualche difetto genetico o caratteriale se i ragazzi di Middletown non arrivano all’Ivy League. Al primo tentativo rinuncia all’Università perchè non sa chiedere il finanziamento, dopo l’esercito si laurea. «Quando ha scoperto che volevo andare alla facoltà di Yale - racconta - mio padre mi ha chiesto se, nel modulo informativo, avevo “finto di essere nero o di sinistra”. È così che sono crollate le aspettative dei proletari bianchi americani».


Se la ricetta alla fine ci sembra paternalistica - impegno, dedizione, stabilità familiare, responsabilità, ottimismo - e la parte migliore del libro è la storia di una strordinaria redenzione sociale, l’autore offre più di un tema su cui riflettere, nell’Europa impoverita che si affida al pupulismo: «La retorica dei neoconservatori (e lo dico da neoconservatore!) - scrive Vance - volta le spalle ai veri problemi della base elettorale di riferimento. A separare le persone di successo dalle persone di insuccesso sono le aspettative che si sono date per la propria vita. Eppure il messaggio della destra va sempre più in questa direzione: “Se sei un perdente, non è colpa tua; è colpa del governo».
@boria_a

venerdì 5 maggio 2017

IL LIBRO

Gli algoritmi indiani di Laila Wadia


La scrittrice Lily-Amber Laila Wadia


Rani, diminutivo di Dharani, dea della terra. Nome d’arte Rose, o Houston 3, come si chiama la postazione nel call center di una multinazionale americana a Mumbai da cui risponde e risolve i problemi dei clienti oltreoceano. È un tecnico informatico ventisettenne, che guida una Honda 250 e mangia nei fast food, figlia dell’India moderna, veloce, aggressiva, ingorda di progresso.
Perchè, allora, la mamma sorprende Rani a benedire la statua di terracotta di Ganesh, il dio della felicità? Perchè la sua ragazza è intenta a preparare un rito, una tunica color giada al posto dei jeans, lei che vive la religione distrattamente, quasi a rimarcare l’appartenenza alla generazione del subcontinente che ha conquistato lo spazio e non si fa intrappolare nelle maglie della tradizione?


Sono tante voci di donne a raccontare le contraddizioni dell’India moderna - e gli stereotipi con cui spesso la guardiamo dal di fuori, siamo noi turisti o partner economici - nel nuovo libro di Laila Wadia, “Algoritmi indiani” appena uscito per Vita Activa Edizioni di Trieste (pagg. 151, euro 14,00), con le immagini di Tullio Valente. Un’opera “sorella” di “Se tutte le donne” (Barbera Editore, pubblicato nel 2012), collage di piccole storie che diventano un racconto corale, un arazzo vibrante di sfumature, quante sono le identità di un paese enorme, squassato da una crescita frenetica mentre è ancora piagato da povertà, ignoranza, violenza. E spesso sono proprio le donne a pagarne il prezzo più alto, ma anche a trovare insperate forme di solidarietà, resistenza e resilienza. Azioni silenziose e sottotraccia forse, a volte solo piccoli ammutinamenti domestici, crepe in sottomissioni secolari, ma robuste e destinate a crescere.


Tutta la storia si svolge nell’arco di un breve viaggio in treno, nella giornata in cui Rani scopre che la multinazionale americana per cui lavora ha i piedi d’argilla e comincia a ridurre i numeri anche nell’esotico ed economico call center di Mumbai. In quella carrozza per sole donne, mentre ritorna a casa, Rani si trova all’improvviso immersa in un concentrato della sua terra. Volti, colori, odori, parole: una vedova avvolta nel bianco della tradizione, una giovane domestica con la passione della lettura, che si ribella all’abuso del padrone, trovando nei libri la forza per affrontare una scelta difficile, la lavandaia intoccabile, sprofondata nell’idea che persino la sua ombra sporchi, la ragazza della minoranza etnica dei parsi, i seguaci del profeta Zarathustra, cittadina del mondo a dispetto del sordo ostracismo della famiglia, la pescivendola ignorante ma fiera di se stessa e orgogliosa, la figlia che si congeda con una lettera dalla madre, spiegandole il desiderio di prendere in mano le redini della sua vita, di strapparsi di dosso il burkha e il carcere.





Laila Wadia, nata in India ma da tanti anni triestina d’adozione, docente di inglese all’Università, incastra le tessere di questo coloratissimo puzzle umano con una scrittura delicata, che ancora una volta, come in “Se tutte le donne”, lascia momentaneamente il suo irresistibile registro leggero e ironico, per addentrarsi nel cuore delle protagoniste.


Rani si accorge che nel vagone sta avvenendo una strana alchimia, che ognuna delle interlocutrici condivide la sua storia perchè le altre possano prendere da quel vissuto personale quanto a loro serve per sentirsi rassicurate, incoraggiate, confortate, completate. E pensa per la prima volta, avvolta nell’anarchia della sofferenza ma anche nell’energia delle altre, che questa è l’India da descrivere e da esportare. Un paese che deve stupirci non per le migliaia di rampanti ingegneri in fuga verso l’America e l’Europa, ma per i piccoli cambiamenti dei poveri, dei rifiutati, di quanti non azzardavano nemmeno l’idea di scalfire un destino immodificabile. Algoritmi indiani, un numero di passi elementari per un’enorme trasformazione sociale e culturale, seppure a velocità variabile. Con le donne a sostanziarla, a costruire una rete di titanio, anche nei loro microcosmi.


Troppo facile fare l’indipendente chiamandosi Rose, postazione Houston 3, estensione di un mondo straniero. Rani deve vincere la sua battaglia capendo qual è il punto di equilibrio tra radici e proiezioni. Mescolare tenacia e pazienza in dosi indiane. Rose è individualista, Rani scopre di appartenenre a quei milioni di sue connazionali che, chine su un vassoio di paglia, separano il riso dalla pula, come fa sua madre Gitanjali. Un gesto individuale che è un’azione collettiva e, come gli spezzoni di vita condivisi sul treno, quell’alimento liberato dalle impurità nutre e fortifica. Prepara a tutte le battaglie, anche dell’emancipazione.

@boria_a