venerdì 5 maggio 2017

IL LIBRO

Gli algoritmi indiani di Laila Wadia


La scrittrice Lily-Amber Laila Wadia


Rani, diminutivo di Dharani, dea della terra. Nome d’arte Rose, o Houston 3, come si chiama la postazione nel call center di una multinazionale americana a Mumbai da cui risponde e risolve i problemi dei clienti oltreoceano. È un tecnico informatico ventisettenne, che guida una Honda 250 e mangia nei fast food, figlia dell’India moderna, veloce, aggressiva, ingorda di progresso.
Perchè, allora, la mamma sorprende Rani a benedire la statua di terracotta di Ganesh, il dio della felicità? Perchè la sua ragazza è intenta a preparare un rito, una tunica color giada al posto dei jeans, lei che vive la religione distrattamente, quasi a rimarcare l’appartenenza alla generazione del subcontinente che ha conquistato lo spazio e non si fa intrappolare nelle maglie della tradizione?


Sono tante voci di donne a raccontare le contraddizioni dell’India moderna - e gli stereotipi con cui spesso la guardiamo dal di fuori, siamo noi turisti o partner economici - nel nuovo libro di Laila Wadia, “Algoritmi indiani” appena uscito per Vita Activa Edizioni di Trieste (pagg. 151, euro 14,00), con le immagini di Tullio Valente. Un’opera “sorella” di “Se tutte le donne” (Barbera Editore, pubblicato nel 2012), collage di piccole storie che diventano un racconto corale, un arazzo vibrante di sfumature, quante sono le identità di un paese enorme, squassato da una crescita frenetica mentre è ancora piagato da povertà, ignoranza, violenza. E spesso sono proprio le donne a pagarne il prezzo più alto, ma anche a trovare insperate forme di solidarietà, resistenza e resilienza. Azioni silenziose e sottotraccia forse, a volte solo piccoli ammutinamenti domestici, crepe in sottomissioni secolari, ma robuste e destinate a crescere.


Tutta la storia si svolge nell’arco di un breve viaggio in treno, nella giornata in cui Rani scopre che la multinazionale americana per cui lavora ha i piedi d’argilla e comincia a ridurre i numeri anche nell’esotico ed economico call center di Mumbai. In quella carrozza per sole donne, mentre ritorna a casa, Rani si trova all’improvviso immersa in un concentrato della sua terra. Volti, colori, odori, parole: una vedova avvolta nel bianco della tradizione, una giovane domestica con la passione della lettura, che si ribella all’abuso del padrone, trovando nei libri la forza per affrontare una scelta difficile, la lavandaia intoccabile, sprofondata nell’idea che persino la sua ombra sporchi, la ragazza della minoranza etnica dei parsi, i seguaci del profeta Zarathustra, cittadina del mondo a dispetto del sordo ostracismo della famiglia, la pescivendola ignorante ma fiera di se stessa e orgogliosa, la figlia che si congeda con una lettera dalla madre, spiegandole il desiderio di prendere in mano le redini della sua vita, di strapparsi di dosso il burkha e il carcere.





Laila Wadia, nata in India ma da tanti anni triestina d’adozione, docente di inglese all’Università, incastra le tessere di questo coloratissimo puzzle umano con una scrittura delicata, che ancora una volta, come in “Se tutte le donne”, lascia momentaneamente il suo irresistibile registro leggero e ironico, per addentrarsi nel cuore delle protagoniste.


Rani si accorge che nel vagone sta avvenendo una strana alchimia, che ognuna delle interlocutrici condivide la sua storia perchè le altre possano prendere da quel vissuto personale quanto a loro serve per sentirsi rassicurate, incoraggiate, confortate, completate. E pensa per la prima volta, avvolta nell’anarchia della sofferenza ma anche nell’energia delle altre, che questa è l’India da descrivere e da esportare. Un paese che deve stupirci non per le migliaia di rampanti ingegneri in fuga verso l’America e l’Europa, ma per i piccoli cambiamenti dei poveri, dei rifiutati, di quanti non azzardavano nemmeno l’idea di scalfire un destino immodificabile. Algoritmi indiani, un numero di passi elementari per un’enorme trasformazione sociale e culturale, seppure a velocità variabile. Con le donne a sostanziarla, a costruire una rete di titanio, anche nei loro microcosmi.


Troppo facile fare l’indipendente chiamandosi Rose, postazione Houston 3, estensione di un mondo straniero. Rani deve vincere la sua battaglia capendo qual è il punto di equilibrio tra radici e proiezioni. Mescolare tenacia e pazienza in dosi indiane. Rose è individualista, Rani scopre di appartenenre a quei milioni di sue connazionali che, chine su un vassoio di paglia, separano il riso dalla pula, come fa sua madre Gitanjali. Un gesto individuale che è un’azione collettiva e, come gli spezzoni di vita condivisi sul treno, quell’alimento liberato dalle impurità nutre e fortifica. Prepara a tutte le battaglie, anche dell’emancipazione.

@boria_a

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