sabato 6 maggio 2017

IL LIBRO

Dentro l'America dei perdenti

 
J.D. Vance



J. D. Vance è un americano bianco, ma non è wasp, white anglosaxon protestan, discendente degli originari coloni, facoltoso e classista. Non è neanche un democratico newyorkese con molti soldi e una famiglia creativa e patologica da raccontare al suo psichiatra. Viene da Jackson, nel Kentucky, dove i discendenti degli immigrati irlandesi o scozzesi sono chiamati con disprezzo “hillbilly”, gente di collina, o “redneck”, colli arrossati dal sole o, ancora, white trash, spazzatura bianca. Comunità di contadini, poveri e ignoranti, che negli anni ’50, per sfuggire all’endemica avarizia di questa terra, e degli Appalchi e del West Virginia, emigrarono in massa verso gli stati industrializzati dell’Ohio, del Michigan, dell’Indiana, lungo la “rust belt”, la cintura del carbone e dell’industria pesante, inseguendo quel sogno americano che resterà un miraggio. Quando le industrie cominciarono a licenziare, le famiglie, prive di reti sociali, vennero devastate da alcol, droga, violenze, indolenza. L’«yes, we can» di Obama qui non ha mai avuto alcun senso, anzi, ha un suono sinistro. Qui Trump ha vinto, con il suo linguaggio duro, diretto, misogino e “politically incorrect”, contro l’avversaria Hillary, la signora dell’upper class che parla una lingua incomprensibile in periferie senza sogni nè ambizioni, che non hanno mai preso l’«ascensore sociale».

J. D. Vance è oggi un avvocato laureato in una delle facoltà di legge più prestigiose del mondo, la Yale Law School. Ma la sua storia è cominciata lì, a Jackson, la città dei suoi nonni, tra la gente che vive nelle roulotte ammassate nei parcheggi o nei casermoni popolari, ed è proseguita a Middletown, cittadina industriale dell’Ohio, dove la famiglia si ritrova prigioniera dello stesso scenario desertificato che ha lasciato alle spalle.


Quando, nel 2016, è uscito negli Stati Uniti “Hillbilly elegy”, autobiografia diretta e urticante ma anche saggio spietato sul proletariato bianco americano, l’editore HarperCollins non avrebbe mai immaginato un successo simile: un milione di copie vendute, i vertici delle classifiche per settimane, J.D. Vance promosso commentatore e politologo, inseguito dai media. Il libro è ora pubblicato in Italia da Garzanti col titolo di “Elegia americana” (pagg. 254, euro 18,00), un viaggio dolente e violento dentro l’America profonda, lontana dalle metropoli e dall’immagine stereotipata che spesso ne hanno i turisti, piena di “I love” col cuoricino rosso, di loft e miliardari siliconati. L’America che molti hanno scoperto il giorno dopo la vittoria di Trump: disorientata, impoverita, incattivita, xenofoba, pronta a credere al candidato più lontano da sè, ma che sa prenderla per la pancia. L’uomo che dice “America first” come se lo dicesse proprio a te, per tirarti fuori dall’angolo. 


J. D. Vance ha avuto una mamma drogata, che cambia compagno prima ancora che i figli si orientino nella nuova casa. Un nonno alcolizzato e una nonna che combatte a modo suo con assenze, aborti, infedeltà, alzando le mani e qualche volta un’arma. È cresciuto in un contesto degradato, dove il lavoro e l’istruzione non sono valori e i sussidi statali un alibi per continuare a non far nulla, maledicendo Obama che ha chiuso le miniere e i cinesi che hanno rubato i posti degli americani. Ma la famiglia, con tutti i suoi limiti, gli dà un messaggio positivo: sua madre, bugiarda seriale, lo porta in biblioteca, la nonna lo spinge a migliorarsi. «Se vuoi un lavoro che ti permetta di passare i weekend con la tua famiglia, devi diventare qualcuno». Era l’essenza del suo genio, dice Vance, non solo imprecare e pretendere, ma farti intravedere ciò che era possibile e spiegarti come ottenerlo.


Dopo l’esperienza nei Marines, la vita dell’autore cambia. A casa aveva imparato a rassegnarsi, nell’esecito gli instillano la “determinazione appresa”. Smette di credere che c’è un qualche difetto genetico o caratteriale se i ragazzi di Middletown non arrivano all’Ivy League. Al primo tentativo rinuncia all’Università perchè non sa chiedere il finanziamento, dopo l’esercito si laurea. «Quando ha scoperto che volevo andare alla facoltà di Yale - racconta - mio padre mi ha chiesto se, nel modulo informativo, avevo “finto di essere nero o di sinistra”. È così che sono crollate le aspettative dei proletari bianchi americani».


Se la ricetta alla fine ci sembra paternalistica - impegno, dedizione, stabilità familiare, responsabilità, ottimismo - e la parte migliore del libro è la storia di una strordinaria redenzione sociale, l’autore offre più di un tema su cui riflettere, nell’Europa impoverita che si affida al pupulismo: «La retorica dei neoconservatori (e lo dico da neoconservatore!) - scrive Vance - volta le spalle ai veri problemi della base elettorale di riferimento. A separare le persone di successo dalle persone di insuccesso sono le aspettative che si sono date per la propria vita. Eppure il messaggio della destra va sempre più in questa direzione: “Se sei un perdente, non è colpa tua; è colpa del governo».
@boria_a

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