giovedì 29 ottobre 2020

IL LIBRO

Due donne, un'ex moglie, un'amante

Cristina Comencini: Quando "l'altra" non è più una nemica 




 

«Quello di cui voglio scrivere non riguarda il nostro amore, ormai finito da tempo. La passione, la convivenza tra un uomo e una donna sono sempre uniche quando ci sei dentro, banali e ripetitive se le vedi da fuori. Voglio scrivere di lei, e di lui tra noi». Elena, venticinque anni, giovane professionista, e Maria, over cinquanta, separata con tre figli, sono, reciprocamente, “l’altra”. In mezzo a loro Pietro. Era l’ex professore universitario di Elena e ora sta con lei, che ha trent’anni in meno, in un quotidiano leggero fatto di cene a base di hummus e caipirinha, frigorifero sempre vuoto e buon sesso. Era l’ex marito di Maria, il padre di quei figli nati quando erano ancora entrambi all’università e vivevano un loro eden di amore, sogni, disordine, carriere da costruire, l’ostinazione di non voler replicare l’ipocrita modello domestico dei genitori. Poi il tradimento scoperto da Maria, Pietro che dorme con una collega durante i viaggi di lavoro, la rottura, per lei la prigione di una storia da cui non riesce a liberarsi.
Voler conoscere “l’altra” è una tentazione non originale, figuriamoci oggi, con le possibilità di nascondersi che offre la rete. Maria chiede l’amicizia a Elena su Facebook con un nome fasullo, poi le si para di fronte a una festa, rivela il trucco, e le dà appuntamento in un bar: «Informata? Io ho vissuto con te ogni giorno, come una sorella minore odiata, invidiata...».


Dopo l’incontro con quella donna alta, sicura di sè, elegante, la fotografa che ritrae solo letti sfatti, orme, tracce, quasi i relitti di un passato che non ce la fa a passare, anche Elena vuole sapere dell’«altra» e scorre all’indietro quello che Maria le scriveva di Pietro (nei post su Facebook trasformato in Alberto). La tenerezza, i litigi, i bambini, il peso della routine da cui lui cominciava a sentirsi schiacciato, la scoperta di una relazione, forse neanche la prima: «Tu mi chiedi perchè non me ne sono andata dopo che l’ho visto con l’altra donna? Perchè come dici tu, lei non era il problema, anche se l’ho pensato per anni e ho creato con l’immaginazione una terribile nemica. Il fatto è che sono dipendente dall’affetto accumulato, dai gesti replicati, dalla conoscenza reciproca e anche dalla noia, sì, anche da quella».


Per liberarsene Maria va a cercare Elena, l’ultima, “L’altra donna”. È il titolo del romanzo con cui Cristina Comencini (Einaudi), scrittrice, regista, drammaturga, ci trascina dentro il legame di due donne con lo stesso uomo, in due momenti diversi, e dentro il legame che si costruisce tra loro, seppure a distanza. Rivali? Solo nel senso etimologico di «chi spartisce con un’altra persona l’acqua di un medesimo ruscello». Perchè se Pietro è al centro di quel dialogo virtuale, mentre i racconti di entrambe su di lui si caricano di particolari, la sua figura rimpicciolisce sul fondo, un traditore compulsivo nè cattivo nè coraggioso, costretto a replicarsi, nella sua ricerca di conferme, fino alla fine. E nelle geometrie di questi rapporti, fatti di post, di lettere mai spedite, di confessioni - tra Maria, Pietro, l’amica di entrambi Rita, Elena - si inserisce alla fine anche Francesco, l’ultimo dei tre figli della coppia, bellissimo e dislessico, che sterza la vicenda al suo esito.

 

 

Cristina Comencini, scrittrice e regista
 


In qualche maniera l’incontro con l’altra è terapeutico. Per Maria dissipa le fantasie con cui aveva popolato la mente, per Elena è la perdita della leggerezza, la fine dell’inganno più crudele dell’amore, illudersi che si possa fare tabula rasa e cominciare ogni volta una nuova vita. Gli studi scientifici dicono che il 63% delle donne conserva il dna di tutti gli uomini con cui ha fatto sesso, è il cosiddetto “microchimerismo maschile”, la prima condivisione con tutte le altre, che sono venute prima e che verranno dopo. E in questa stratificazione, in questo cantiere sempre aperto che sono le relazioni, non c’è solo biologia, ma ricordi, scoperte, tradimenti, ritagli di felicità, dolore, strappi e altri inizi, mai vergini solo diversi. “Ora sapevo che non ci si salva da soli - dice Elena - che siamo una catena di storie d’amore, una dentro l’altra, e che i fallimenti appartengono a tutti... Ero figlia di una serie di donne che venivano prima di me, come lui lo era degli uomini e anche di quello che era stato con Maria». Le rivali che dividono l’acqua delle stesso ruscello - per abitudine, per piacere, per capriccio - non devono per forza essere nemiche.

lunedì 19 ottobre 2020

MODA & MODI

 

Quella pecora nera di Lady Diana, recuperata dagli anni Ottanta

 

 


 


 Una pecorella nera ci salverà dalla melassa della rievocazione. Si sta per spalancare un’altra volta il guardaroba di Lady D, con le potenti brutture degli anni Ottanta e la stilosità costuita dei Novanta. 

Ripasseremo tutto grazie alla quarta stagione di “The Crown”, dal 15 novembre su Netflix, in larga parte centrata su di lei, l’infelice matrimonio, i suoi vestiti. Dalla penzolante gonnella trasparente catturata dai fotografi quando era fresca fresca di fidanzamento, al revenge dress scollatissimo in cui comparve a poche ore dall’ammissione di infedeltà del marito in mondovisione. Le salopette, i calzetti a pois rossi, i tailleurini di tweed, le mise da gran sera infestate di strass e perle dei primi anni nella ditta Windsor e poi gli outfit da copertina di quando vampirizzò gli stilisti (che la ricambiarono con entusiasmo), trasformandosi da regina mancata almeno in regina della moda.


Ma la percora nera, con lungimirante operazione commerciale, è già andata in avanscoperta. Era sul magliocino di Warm & Wonderful, brand creato da due amiche sferruzzatrici, Sally Muir e Joanna Osborne, molto in voga all’epoca tra i ricchi rampolli che frequentavano le boutique di Sloane Square a Londra. Un’unica pecorella scura tra righe e righe di disciplinate pecorelle bianche in un esplosivo fondo rosso. Lady Diana la indossò, sui campi di polo dove si esibiva Charles, in due diverse occasioni, da fidanzata e da giovane mamma.


Oggi si elucubra molto, col senno di poi, sul significato di quell’ovino poco ortodosso. Messaggio? Metafora dell’infelice destino? Più divertente concentrarsi sul “come” Diana combinò quel pullover, ancora paffutella su semplici jeans nell’80, tre anni dopo, già più sfilata, con pantaloni bianchi maschili, camicetta con grande collo rotondo e fiocco di velluto nero, scarpe rosse, pochette a fiori. Un insieme così incongruo che restituisce intatta tutta la confusione, i colori e il cattivo gusto (quello reale compreso) degli anni Ottanta. Si salva solo la pecora, che almeno riesce a farci sorridere.


Oggi il brand Rowing Blazer la ripropone nella sua prima collezione femminile, arruolando le due designer del capo originale. In tempi ansiogeni, l’operazione nostalgia legata a Diana punta sul maglione comfy-wear, confortevole, morbido e allegramente consolatorio. La pecora nera reloaded però è tutt’altro che a buon mercato. Essere controcorrente ha sempre un prezzo.

giovedì 8 ottobre 2020

MODA & MODI

 

Rosso Period contro ogni tabù.

Anche quelli delle parole 

 

 

Rosso “Period”, rosso mestruazioni. È la sfumatura appena entrata nella palette di Pantone, la società americana che gestisce la più ampia catalogazione di colori al mondo. Il rosso acceso che cominciamo a vedere nei negozi, da qualche giorno è associato a quello che è ancora un tabù e non solo nei paesi in via di sviluppo. Pantone si è alleata con il marchio svedese di prodotti femminili Intimina per fare del rosso “Period” il momento centrale della campagna Seen+Heard, il cui obiettivo è scardinare lo stigma legato al ciclo. Se ne parla poco, anche tra donne. Il sistema della moda e dell’immagine lancia dunque un altro messaggio, in un momento in cui la comunicazione di valori positivi e inclusivi è un’esigenza forte, dall’ambiente al rispetto del corpo, in ogni sua stagione ed espressione.


È difficile immaginare che penseremo a un “rosso mestruazioni” scegliendo un cappotto o un maglione, anche per i naturalissimi fastidi fisici e disagi legati alla scadenza biologica, che fanno a pugni con l’esperienza rilassante e appagante di un acquisto. Ma l’obiettivo è più alto è volutamente provocatorio, perchè in molti paesi e religioni le mestruazioni equivalgono a emarginazione sociale e confinamento: in Nepal, nonostante un divieto nazionale, le ragazze sono esiliate in capanne ed esposte a ogni genere di pericolo, in India il ciclo equivale a impurità e divieto di toccare persone e alimenti, negli evoluti Stati Uniti una donna su cinque, e nel Regno Unito una su dieci, non ha accesso a prodotti basici di igiene. È la period poverty, che la Scozia - e sarebbe il primo paese al mondo - cerca di combattere con una legge per gli assorbenti gratuiti, in via di approvazione (in Italia sono bene non primario, tassato al 22%...).


Pantone parla del “rosso period” come di un colore attivo, avventuroso, pieno di fiducia, di un flusso vitale. E al focus egualitario della campagna si perdona un’aggettivazione enfatica e un po’ sopra le righe. Intanto, in attesa di leggi e cambiamenti estesi, sarebbe già importante far sparire dalle pubblicità “quei giorni” in cui pare che le signore preferiscano dedicarsi a varie acrobazie danzanti, e condannare frasi come “hai le tue cose”, ostili e discriminatorie. Basterebbe parlare semplicemente di mestruazioni, senza nessun colore.

@boria_a

sabato 3 ottobre 2020

L'INTERVISTA

Joël  Dicker e la nonna triestina che lo ha spinto

a scrivere (bestseller da milioni di copie...) 

 

 


 

 

L’indizio per il lettore, come fa spesso, l’ha disseminato nell’ultimo thriller “Il mistero della stanza 622” (La nave di Teseo), da settimane in classifica tra i libri più venduti, in Italia e all’estero: la madre del protagonista è nata a Trieste. E anche le radici di Joël Dicker, trentacinquenne scrittore svizzero, autore di bestseller da milioni di copie nel mondo (a partire da “La verità sul caso Harry Quebert”, Bompiani, diventata una serie di grande successo su Sky, protagonista Patrick Dempsey), sono potentemente triestine. Anche se lui, nella città dell’amata nonna, non c’è mai stato. Almeno finora, perchè nei progetti a breve della famiglia c’è una “rimpatriata”, con qualche amico da ritrovare.

 


 


La citazione di Trieste è dunque un omaggio alle sue origini?
Sì, il riferimento è a mia nonna, Noemi Spierer, ebrea, arrivata in Svizzera nel 1939 con la sua famiglia, perché le leggi razziali le impedivano di continuare gli studi. Aveva 13 anni quando ha lasciato Trieste insieme ai genitori e alle sorelle. A Ginevra ha conosciuto Vladimir Wolf Halperin con cui si è sposata. Hanno avuto tre figli, due maschi Daniel e Michel, e una femmina, Miriam, mia madre, sposata con Pierre Dicker.


Anche il lato Dicker è ebreo e discende da Jacques, avvocato e leader socialista degli anni ’30. Qual è il suo rapporto con l’ebraismo? Io sono ebreo. Non osservo la kasheruth, i precetti sul cibo, ma osservo le tradizioni anche in omaggio a mia nonna Noemi.


Che è stata poi quella che l’ha spinta alla scrittura. La stanza da dove mi parlate (Dicker sorride, l’intervista è via Skype) mi ricorda il salotto di mia nonna, pieno di libri e di giornali, dove lei amava leggere.


E dove lei pure scriveva…Sì, lei mi ospitava quando, invece di andare a seguire le lezioni all’università, preferivo scrivere. Poi mi ha riservato un piccolo studio tutto per me…


Sua nonna era legata a Trieste? Molto, ci tornava spesso per le vacanze, dopo la guerra, e si interessava alla vita della città che trovava cambiata. Aveva molti amici nel milieu culturale. Ricordo Ugo Pierri, pittore e poeta, che le ha donato alcuni quadri. Ora li ho io, perché la nonna è morta due anni fa.


Pierri ricorda che lei aveva dodici anni quando realizzò un giornalino in rete dedicato agli animali “La Gazette des animaux”, che le valse la nomina di più giovane redattore capo svizzero dalla Tribune de Geneve... Anche in quella iniziativa fu mia nonna a sostenermi. Ricordo ancora con emozione le lunghe telefonate che lei faceva con Pierri in italiano. Non capivo cosa si dicevano, ma capivo che lei era molto contenta e divertita.


Suo zio, Daniel Halperin, racconta che nonna Noemi era molto amica di Anita Pittoni, creatrice di moda, editrice, scrittrice, decoratrice.  Ne so poco, veramente, perché sono cose avvenute prima che io nascessi, so che lei l’ha voluta aiutare. Lo zio Daniel dice che la nonna voleva creare a Trieste una sezione dell’Ort (Obschestvo Remeslevono i zemledelcheskovo Trouda), cioè la Società per lo sviluppo dell’artigianato e dell’agricoltura, fondata nel 1880 a San Pietroburgo da filantropi russi, tra cui il barone Gunzburg, per promuovere la formazione tra i giovani ebrei nel mondo. Ho sentito dire che Anita Pittoni avrebbe dovuto dirigerla, proprio per le sue esperienze nell’artigianato artistico. Dopo varie peregrinazioni la Fondazione spostò la sua sede a Ginevra. È la fondazione per la quale lavorava mio nonno, Vladimir Wolf Halperin. 


Una bella coppia… Mia nonna era una donna piena di interessi e nonno era un gentiluomo di antico stampo. Ho avuto molta fortuna con i miei familiari. I miei nonni e i miei genitori mi hanno sempre sostenuto, non mi hanno mai detto: “Smettila di scrivere e trovati un lavoro”.


Suo padre era insegnante di letteratura e di inglese e sua madre bibliotecaria. Però lei si è laureato in legge… Ma non sono mai andato in tribunale, ho lavorato come assistente parlamentare e questo mi ha lasciato anche tempo per scrivere…

 


 


È mai venuto a Trieste? Purtroppo no, mio zio Daniel sta organizzando un viaggio di famiglia per la primavera, sperando che sia finita con la pandemia. Lo zio racconta che la nonna collaborava con giornali svizzeri scrivendo articoli su Trieste.
 

Ginevra, la sua città natale, insieme a Verbier sulle Alpi, è lo scenario del suo ultimo noir…I miei libri precedenti non riguardano Ginevra perché sentivo il bisogno di un distacco dal luogo dove ambiento le mie storie. Ma sono svizzero ed era giusto che rendessi omaggio alla mia città.


E ha fatto omaggio anche al suo editore Bernard de Fallois, usando uno stratagemma: lo scrittore che diventa egli stesso personaggio del libro e nel contempo racconta come si sviluppa il romanzo. Curioso…. Dovevo ricordare de Fallois, che è morto nel 2018. Lui ha creduto in me, mi ha spronato. Io mi sento un suo discepolo. E nel contempo ho fatto omaggio alla mia famiglia, a partire da mia nonna Noemi, che mi ha formato e fatto di me quello che sono.


Come fa a scrivere storie così lunghe e complesse, a tenere insieme tanti personaggi, a rovesciare la trama? Avverto una pulsione insopprimibile a scrivere: è come aver fame e chiedersi: che cosa mangio? Vado a vedere in frigo che cosa c’è, poi faccio la spesa e poi cucino. Dunque prima c’è la pulsione, poi c’è l’idea, la raccolta dei dati necessari e infine la scrittura.
 

Lei torna indietro per correggere, eliminare incoerenze, magari anche sopprimendo molte pagine. E fa lo stesso per inserire indizi a beneficio del lettore...
È un continuo lavoro di scrittura e riscrittura. Non so se è un metodo, so soltanto quello che non voglio scrivere. E il lettore deve “entrare” nel libro.


È vero che quando ha finito un romanzo pensa di non volerne più scrivere un altro? Poi però arrivano il desiderio, la voglia irrefrenabile di cominciare una nuova storia. A che punto siamo ora? Prima ho fatto l’esempio del cibo. Adesso sono alla fase che mi sta venendo fame….