domenica 31 agosto 2014

IL PERSONAGGIO
Fotografo Escapista


Il Bagno Ausoni a Trieste fotografato da Escapista

Il suo racconto fotografico dei tuffi al Bagno Ausonia, è finito, il 1° agosto scorso, sul Financial Times, nella pagina in cui artisti, designer, blogger, uomini d'affari descrivevano la loro "perfect summer", l'estate ideale. Sette immagini dalla patina un po' fanè, quasi anni Sessanta, che trasmettono la sensazione di un divertimento semplice e d'altri tempi, genuino e alla portata di tutti, quando bastava davvero un tuffo strampalato, una "clanfa", per riempire l'estate di grandi e bambini. La libreria di Saba, invece, l'ha fotografata per il più importante quotidiano spagnolo, "El País", dov'è già apparsa un paio di volte: file e file di libri che sembrano svettare fino al cielo, le mura di carta di un castello pieno di suggestioni. Ma sfogliando rapidamente il portfolio di questo singolare fotografo che si nasconde dietro il nom de plume di Escapista, scopriamo altre sorprese: il fascinoso James Franco a Venezia, un insolitamente pensoso Neri Marcorè accovacciato a terra, il pugile Brunet Zamora, coi pettorali tatuati e la mano fasciata. E poi i sorrisi dei bambini siriani in guerra e il gioco crudele di uno di loro, che si punta in bocca l'arma giocattolo, interni di case triestine, con i loro abitanti ritratti sul divano, un ritaglio di vita familiare sull'anonima terrazza di un condominio, la singolare storia d'amore (che finisce pure male) tra un uomo e un manichino, modelle in posa per un servizio di moda.
Escapista al secolo Diego Artioli, 43 anni, ha alle spalle una vita "vagabonda", ma Trieste è la sua città d'elezione e ci vive da quindici anni, oggi anche con la moglie, psichiatra spagnola che lavora al Sert, e la piccola Nina. La Spagna ce l'ha un po' nel sangue, e non solo in quel nome d'arte che vuol dire "fuggitivo", perchè spagnola è anche sua mamma e perchè la Spagna - dice - dall'Estremadura a Valladolid, «è un paese che riesce ancora a offrirti cose inaspettate». Nel suo studio in piazza della Borsa c'è una microstoria in due "scatti" raccolta in terra iberica: un gruppo di agnelli che fissa l'obiettivo e poi un macellaio tra i quarti appesi alle sue spalle.
Nato a Bolzano, studi a Bologna, tre anni in Germania, poi l'approdo, un 23 dicembre a Trieste per lavoro, e l'innamoramento istantaneo per la città. Ancora, una lunga parentesi ad Atene, poi il matrimonio e la paternità. E la scelta di fare della fotografia un mestiere, sette anni fa, da autodidatta. «Adesso però studio», precisa subito. «E mi piace molto il lavoro dell'americano Gregory Crewdson, i suoi racconti fotografici che sono piccoli set cinematografici. Nella vita ho fatto davvero di tutto - continua Artioli - ho venduto macchine, ruote, bicchieri. La fotografia però è stata sempre la mia passione, anche se adesso, con il digitale, il committente tende a pensare che chiunque abbia un cellulare o un tablet possare fare il fotografo. È una lotta, ma cerco di non cedere. Il Financial Times? Mi hanno contattato direttamente dopo aver visto i miei lavori sul web. Lo stesso per El País».
Niente specializzazione, che «è per le formiche», dice, e che trova riduttiva come leggere un solo genere letterario. Quindi, collaborazioni con quotidiani, con magazine come Stile del Corriere della Sera o riviste specializzate come Visionaire, case di moda, grandi magazzini, privati. «Fotografo di tutto, fuorchè i matrimoni. Ma ammiro chi lo fa, perchè gli sposi sono il cliente più difficile ed è complicato trovare qualcosa di nuovo da dire... Trieste è straordinariamente fotogenica e all'esterno piace molto: ha natura, architettura, case e appartamenti privati che sono location fantastiche, anche la popolazione mista ha fattezze particolari, diverse. Lavorarci da fotografo, però, a meno che tu non faccia matrimoni, non è facile. Se non hai passione, smetti». Per riuscire a "vivere" solo di fotografia, appunto, Artioli sta avviando un altro progetto con una collega, che si chiamerà l'Officina delle briciole e avrà sempre come base piazza della Borsa. Punterà a sviluppare il filone della ritrattistica a prezzi più bassi: "scatti" di singoli, famiglie, animali, occasioni, a un costo abbordabile ma senza rinunciare alla qualità. «Sarà bello entrare nelle case. Oggi con un selfie sembra si possa fare tutto...».
L'anno scorso Diego Artioli ha firmato un reportage in Siria, a Binnish, nella provincia dell'Idlib, seguendo l'associazione no profit "Syrian Children Relief" nel suo tentativo di consegnare aiuti umanitari. Ha passato da clandestino la frontiera turco-siriana, ha subíto un bombardamento delle truppe pro-Assad, ha incontrato combattenti di diversi gruppi armati. «Raccontare storie è la parte che più mi affascina del lavoro. Come i viaggi della gente, le migrazioni, che sono una parte fondamentale della vita. Purtroppo è difficile trovare chi te le paga queste fotocronache. Amo anche i ritratti: quando dietro il viso c'è una storia è più facile». E un viaggio triste e ironico al tempo stesso, piccolo concentrato di cronaca quotidiana, è quello che si può fare sul suo sito (www.escapista.net) seguendo la vicenda di Mr. Lonely, protagonista di un amore con una donna-manichino: il colpo di fulmine, il corteggiamento, il matrimonio, il tradimento, la tragedia...
Intanto, anche se per scaramanzia i dettagli non li scopre, Escapista sta lavorando a un progetto commissionatogli da un'istituzione spagnola per la festa della donna 2015, con immagini scattate, almeno per metà, a Trieste. «Non cerco mai bellezze facili, nè nelle donne, nè negli uomini. Non mi piace lo spettacolo che c'è fuori dalle sfilate di moda, con la gente agghindata apposta per gli obbiettivi. Quella è pornografia, non fotografia».
twitter@boria_a


"Clanfe" dal Bagno Ausonia firmate da Escapista

sabato 30 agosto 2014

MODA&MODI

I saldi nella rete

C'era una volta la commessa che, furtivamente, sussurrava: «Le faccio il trenta...». Nell'era "social", niente ammiccamenti, i saldi sono veloci, efficaci, anaffettivi. E cronologicamente "liquidi".
Se la data ufficiale d'inizio per i pedoni dello sconto è il primo weekend di gennaio, i navigatori della rete già da tempo doppiano i grandi siti dell'e-commerce griffato a caccia del pezzo di stagione più conveniente. Al suggerimento verbale, alla parolina fatta cadere a portata di orecchio quando ancora il calendario è da prezzo pieno, si è sostituita la newsletter: periodica, personalizzata, discreta. Basta un dito per cacciarla nello spam, a differenza di un venditore insistente.
Non c'è nemmeno il fastidio di perlustrare le vetrine, con la cifra di partenza ben stampigliata nella mente da confrontare col cartellino dello sconto, come recitavano i consigli dell'archeologia del saldo, per acquirenti non nativi digitali. Al proprio indirizzo di posta elettronica arriva puntuale una selezione "costumizzata" delle offerte della rete, che già ti dice quello che ti piace (perchè tu glielo hai detto in precedenza e lei, la rete, l'ha archiviato, guai a cambiare idea e a barare).
Senza stress da contatto, s'illuminano sullo schermo le promozioni ordinate per firme, capi, accessori preferiti. Prezzo di partenza e prezzo in saldo, taglie, colori, composizione, vestibilità ampia, taglia unica. Non sono ammesse debolezze: solo chi si conosce bene e non tende a lievitare, può riempire il simpatico carrellino elettronico, in alto a destra, senza patemi.
Se poi vagolare nel cyberspazio è troppo snervante, ecco i "top picks" dello "store" virtuale. Ha già scelto lui per te: i must have, le cose "it", quello che non puoi fare a meno di stivare nell'armadio per cominciare bene l'anno. Le celebrities hanno già indossato tutto per te, ti mostrano come si porta, come si abbina: basta premere un tasto e dall'abito si scivola morbidamente al sito che lo vende scontato. Anche l'irritazione da esaurimento (dell'articolo, non dei nervi) è virtuale. Nessuna voce umana sentenzia «la 42 non si trova mai in saldo», o «è rimasto solo in verde pisello», nessun ultimo cashmirino ci viene sfilato con destrezza da sotto il naso.
Il capo finito si limita a impallidire sullo schermo. Anche se ci clicchi sopra non saprai mai quanto costava, non vedrai in faccia chi renderà felice. Più indolore che lasciar andare un fidanzato.

twitter@boria_a





sabato 23 agosto 2014

MODA & MODI
Silvio Betterelli, stile d'Umbras




Il designer sardo Silvio Betterelli
Silvio Betterelli: in passerella i colori della Sardegna

Dieci anni dopo la vittoria a Mittelmoda Silvio Betterelli è tornato a Gorizia, nei giorni scorsi, per partecipare alla giuria della prossima edizione del concorso per talenti emergenti (che, budget permettendo, si terrà in autunno, con la formula collaudata). Allora, nel 2003, aveva 23 anni, era anche lui un aspirante stilista, con alle spalle un diploma in arte del tessuto ottenuto in Sardegna, nella sua terra, e una specializzazione in corso in Fashion Textile Design alla Nuova accademia di Belle arti-Naba di Milano. Dal Parco delle Rose di Grado, dove si tenne la serata conclusiva di Mittelmoda, ripartì con due premi, quello della Provincia e il "Masters of Linen". E cominciò la sua carriera, che, dopo altri riconoscimenti importanti, collaborazioni con brand internazionali e un perfezionamento all'Università di Plymouth, in Inghilterra, l'ha portato a debuttare con la sua griffe sulle passerelledella moda milanese.
La collezione, primavera-estate 2011, si chiamava "Umbras", "ombre" in sardo, perchè i colori e le tradizioni dell'isola rimangono imprescindibili nella sua moda.
Che cosa ricorda della serata di Mittelmoda?
«È stata un'esperienza grandiosa. Avevo lavorato alla reinterpretazione in chiave contemporanea del costume sardo e ho fatto sfilare anche una maschera dellaSartiglia di Oristano. Non era la mia prima passerella, ma senz'altro è stata la più emozionante».
Non la prima passerella, ma i primi premi. Come hanno influito sull'avvio della sua carriera?
«Credo di poter dire che hanno veramente cambiato il corso degli eventi. Sono stato invitato a presentare la stessa collezione ad Altaroma grazie alla collaborazione tra Mittelmoda e la settimana della couture romana. Da subito ho ricevuto proposte lavorative e da lì è cominciato il mio percorso anche professionale».
Di premi ne ha collezionati altri, come il "Who's Next" di Vogue Italia...
«A Vogue sono arrivato cinque anni più tardi, in concomitanza con l'avvio della mia etichetta autoprodotta. Sono stato premiato anche in quell'occasione per le lavorazioni e la ricerca dei materiali innovativi. Il concorso di Vogue mi ha permesso di trovare un produttore e dare grande visibilità al mio marchio».
Adesso queste iniziative si stanno moltiplicando, ogni settimana della moda ha il suo premio per giovani talenti e molti sono sponsorizzati da aziende e riviste. Servono davvero?
«Alcuni assolutamente sì, sono fondamentali per creare contatti, sono veri e propri network. Con alcuni dei professionisti presenti in giuria a Mittelmoda sono tuttora in contatto, alcuni mi hanno aiutato a creare e sviluppare il mio progetto e molti di loro continuano a seguirmi collaborando o semplicemente supportandomi, seguendo ogni mia tappa».
Come tanti stilisti sardi, lei ha un rapporto particolare col tessuto. Sembra scritto nel vostro dna...
«Credo sia legato alla nostra tradizione. I costumi sardi sono molto elaborati nelle costruzioni e nelle decorazioni. E il mio percorso di studi, che ha sempre ruotato intorno al textiles design, ha fatto il resto...».
Insieme alla moda, coltiva arte e design. Come si divide tra questi ambiti, affini ma diversi?
«Il mondo del design mi ha sempre affascinato così come l'arte. Il privilegio di lavorare nella moda è questo: per sviluppare ogni nuovo progetto ci si può permettere di fare ricerche molto trasversali in diversi ambiti. Nel tempo, i contatti e le persone con cui mi sono confrontato facendo ricerca, mi hanno coinvolto nei loro progetti di arte o design, permettendomi di firmare oggetti o esporre pezzi in gallerie e mostre».
Una ricerca di successo, visto che l'anno scorso è arrivato alla Biennale...
«Alla Biennale ho presentato un particolarissimo tappeto drappeggiato, realizzato in collaborazione con "Nodus". Lo stesso è poi stato proposto insieme al lavoro di Studio Job, Fratelli Campana e altri nomi molto noti del design, durante il Salone del mobile di Milano. Quella della Biennale è stata un'esperienza fantastica, si trattava dei padiglioni regionali legati al Padiglione Italia e io ero stato coinvolto per quello della Sardegna. Un modo per lasciare una traccia del mio lavoro anche nella mia terra».
Poi "Re-Edition", progetto che attualizzava capi "icona" di grandi stilisti. A lei è toccato André Laug...
«Era una salopette, in crepon, fotografata negli anni Cinquanta. L'ho scomposta in elementi per poi riassemblarli con delle asimmetrie: una chiave di lettura contemporanea ma senza stravolgere la linea di un capo storico».
Che tipo di donna veste?
«Mi piace mettere in evidenza le silhouette femminili, cercando di sperimentare colori, stampe e lavorazioni. La mia è un'eleganza sofisticata, ma a suo modo discreta. È comunque un'immagine particolare, adatta a una donna che ama acquistare nelle boutique di ricerca e che ha uno sguardo attento a tutto ciò che è non solo abito, inteso come vestire e funzione, ma come design».
Guarda mai i talent di moda, come il Project Runway americano?
«Mi ci sono imbattuto per caso facendo zapping. Devo dire che non mi convincono. Ma io ho molto pudore della mia quotidianità, di tutti i retroscena legati a lavoro e vita privata... Non permetterei a nessuno di riprenderli e farne un programma di intrattenimento».
Che cosa non le piace della moda di oggi?
«Le dinamiche del mercato. Spesso non premiano i più bravi, ma chi riesce a fare il prodottino giusto, facile e soprattutto che costa poco. Non vuole essere una polemica, ma con l'avvento della fast fashion e dei grossi gruppi, le esigenze delle consumatrici sono molto cambiate, tutto deve essere più veloce, facile e di consumo. E questo rischia di mortificare qualità e ricerca. Io comunque non ambisco ai grandi numeri a tutti i costi, sono molto più gratificato dai pochi clienti che seguono il mio lavoro, riconoscendone i contenuti e il valore».
Lei fa abiti ma insegna anche a farli. Che consigli dà ai suoi studenti?
«Fino allo scorso anno ho insegnato progettazione moda all'Università di Venezia, ora tengo un corso sulla stessa materia alla Naba di Milano. Un unico consiglio: crederci e fare il possibile perchè quello a cui si ambisce diventi realtà. Richiede passione e tanto sacrificio. Se non lo si accetta, tanto vale lasciar perdere».
Qual è una donna che la ispira?
«Troppe, in realtà, e di ognuna mi colpisce qualcosa. Non amo avere un nome, mi sembra riduttivo».
Segue i blog di moda?
«Poco, uso il pc solo per lavorare, ma credo sia uno strumento molto interessante e forte, più veloce di tanti altri. Oggi la velocità delle informazioni fa la differenza».
Se potesse buttare giù dalla classica torre tre cose del fashion system...
«I tempi e le scadenze, le persone pasticciate che si vedono per strada e che ai più sembrano "la gente della moda", il compromesso storico "bello-vendibile"».
Elegante è chi...
«Non sa di esserlo».
twitter@boria_a



sabato 16 agosto 2014

MODA&MODI

Viola Foggi, leggerezza addosso


Gli orecchini "cuciti" firmati Viola Foggi


«Sulla leggerezza penso di avere più cose da dire». Intorno alle parole di Calvino, Viola Foggi costruisce i suoi gioielli. Architetture aeree dentro cui far scivolare le dita, curvature o intelaiature di linee da mettere al collo, braccialetti che avvolgono il polso in una spirale sottile come un foglio arrotolato, orecchini che paiono ricavati dalla stagnola delle vecchie mentine fondenti, quelle che da piccoli ci si diverte a trasformare in barchette e che qui diventano delle figure geometriche aperte. "Leggerezza" è la parola chiave da cui parte l'ideatrice di questi "metalli d'autore", come lei stessa li chiama. Un gioco di argenti satinati e dorati, che si spinge fino al punto da intrecciarli con il filo, nero, bluette, arancio, rosso, per creare anelli con una piccola conca su cui si stende un reticolo, quasi una lieve grata, che pare metallo e invece è tessuto. Se poi li si gira, questi anelli, si scopre la meticolosità dei punti, una specie di orlo a giorno, perfetto come fosse disegnato a smalto e non cucito, realizzato in una sartoria non in un'oreficeria. Viola Foggi, giovane artigiana fiorentina, dopo l'Istituto d'arte, ha studiato oreficeria e design del gioiello all'Università e lavorato per tre anni nell'atelier della giapponese Yoko Takirai.
E la scuola nipponica si vede tutta nell'eleganza e nella pulizia dei pezzi. Moduli, profili: così si chiamano due delle sue linee, quelle dove più si esercita nell'intarsio e nell'accostamento delle geometrie. E poi gli origami: orecchini, ciondoli, anelli al primo sguardo difficili da indossare ma, una volta messi al dito, sottili come un'intelaiatura di carta, fragili ma confortevoli, e con un'anima complessa. Infine, gli intrecci, improbabile incontro tra la consistenza dell'argento e l'impalpabilità del filo.
Tutt'altro che improbabile, invece, è stato l'incontro tra la creatività di Viola e quel piccolo laboratorio di ricerca in progress che è "Liberarti", aperto a Trieste dalla poetessa argentina María Sánchez Puyade. Alla designer fiorentina è piaciuta la strana miscellanea tra design, pittura, parole, fumetti, libri d'arte, moda, accessori che convive in questo emporio. Dove l'idea del "cucire" (come i libretti di versi di "Sartoria Utopia", assemblati con ago e filo e presentati qui dalle due editrici-sarte Francesca Genti e Manuela Dago) sta per "collegare" sensibilità diverse con il filo comune della fantasia, dell'artigianalità, della grazia.
E così, in una scatola di legno come i vecchi astucci per le matite, Viola ha raccolto alcuni dei suoi gioielli e li ha portati fin qui. Raffinati e discreti, anche nel prezzo.
www.violafoggi.com www.emporioliberarti.it

sabato 9 agosto 2014

MODA & MODI
Bianca Maria Gervasio, l'allieva di Mila

La designer Bianca Maria Gervasio

Un dolore confessato e uno inconfessato, almeno pubblicamente. Per Bianca Maria Gervasio, stilista pugliese trentaquattrenne, la vendita all'asta di alcuni capi dell'archivio storico di Mila Schön, il mese scorso a Milano, è stato «un colpo». «Avevamo iniziato a ricostruirlo, l'archivio, a mettere insieme i pezzi per rilanciarlo. Poi sono intervenute altre problematiche aziendali. Ma io ci ho messo tanto cuore...». Il dolore di cui non parla, è averla dovuta abbondonare, la griffe Mila Schön, dopo dieci anni di lavoro, di cui sei alla direzione artistica. Un addio brusco, nel febbraio scorso. Bianca Maria viene sostituita da un "pool" di stilisti internazionali per "riposizionare" il marchio. L'annuncio a sorpresa ha chiuso una storia d'amore con la casa di moda fondata dalla stilista dalmata (e triestina d'adozione), che Bianca Maria, entrataci quasi bambina, ha contribuito a mettere al passo coi tempi. Lei commenta solo: «Non me lo aspettavo».
La sua cappa a scaglie di gomma è stata comprata all'asta da un privato per regalarla a un museo. Che cosa ha provato?
«Sono malinconica, ma anche felice. Malinconica perchè la cappa è legata a ricordi belli, quindi c'è comunque il sorriso. Spero che i sacrifici e le energie positive che ci sono in quella mantella siano conservati al meglio e che vada in buone mani. Ma sono anche felice perchè rappresenta la concretizzazione di un momento molto importante della mia vita. Era stata fatta per la collezione primavera-estate 2009, c'era ancora la signora Schön con noi, che ha visto tutti i disegni. Era la seconda collezione che disegnavo e che la signora seguiva».
Che idea aveva in testa per quel pezzo così particolare?
«Era un modo per rendere in 3D il concetto grafico del quadrato. L'avevo abbinata al "double", il tessuto storico della maison. Dunque un qualcosa di ipercontemporaneo da mettere insieme alla tradizione. Non facile da indossare, certo, ma volevo un segno forte. Ricordo che il tagliatore delle scaglie di gomma non riusciva a capire a che cosa servissero. Poi col ricamatore storico della maison, Pino Grasso, e sua figlia Raffaella, abbiamo studiato insieme come farla. Mi hanno affiancato con la loro proverbiale pazienza e professionalità».

Cappa scenografica di Bianca Maria Gervasio per Mila Schön

Lei ha scelto l'Istituto tecnico di moda a Trani a 14 anni. Ha deciso presto...

«Avevo una gran voglia di esprimermi, ma non sapevo in che modo. Ero molto innamorata dello "stile", dei volumi, delle stampe, dei colori. Mi piaceva Versace e anche Mila Schön degli anni '90. La mia famiglia mi ha accompagnato in questa scelta, ma mia mamma mi ha detto: "dopo però vai a Milano o a Parigi, non ti fermerai a fare la sartina a Trani o a Molfetta, vogliamo vederti crescere". Ho imparato lì la tecnica, è stato fondamentale. Sapevo già che costruire un abito e far emozionare una donna era il mio futuro».
Poi a Milano ci è andata davvero, all'Istituto Marangoni.
«Ho studiato fashion design per quattro anni. A Milano la mente mi si è aperta a trecentosessanta gradi. Arrivavo da Molfetta, un altro mondo. Il modellismo era già dentro di me, ma ho sviluppato le basi del disegno, del colore. La città mi ha dato tanti stimoli: adesso se tornassi a casa saprei creare, allora no. E ho viaggiato tanto, in America, Giappone, Cina, Australia, anche per Mila Schön. Esperienze fondamentali per il lavoro e la ricerca».
È vero che ha cominciato in un atelier di abiti da sposa?
«Sì, infatti adesso sono tornata alle origini, lavoro nella sartoria di cui si serviva quell'atelier del centro di Milano. L'abito da sposa è il primo passo per comprendere come lavorare volumi, tessuti, dettagli alla maniera "couture", che è molto diversa dal prêt-à-porter. È rendere viva e vera un'idea speciale, partendo dal corpo della cliente. L'apoteosi del su misura».
Nel 2003 entra in Mila Schön da stagista.
«Facevo l'assistente delle stiliste che seguivano le licenze per il Giappone. Disegnavo un po' tutto, dalle calzature all'abbigliamento bimba. L'incontro con Mila Schön è stato folgorante. Ero in corridoio, lei è entrata e ha detto: "chi è questa bella ragazza? E che cosa fa?". "Disegno", le ho risposto io. E lei: "Allora disegnami un tailleur". Così, dal suo archivio, ho scelto un modello storico e l'ho un po' modificato. Era rosso corallo scuro. Le è piaciuto e l'ha fatto realizzare dalla sua première».
Che cosa le ha insegnato?
«I dettagli, le sfumature, anche per l'uomo. Io disegnavo lo sportswear per il Giappone e lei mi guidava nell'abbinamento dei colori. Era sempre bella, elegante, scicchissima. E contenta di passare il testimone. Per lei la semplicità era alla base di tutto, perchè la ricchezza sta nella costruzione, nel dettaglio, nel tessuto. Per spiegarmi come "alleggerire" i capi mi diceva: "mangeresti più volentieri una lasagna o un risottino?". Esempio alimentare chiarissimo: la semplicità è la più confortevole e naturale per una donna».
A 27 anni diventa direttore artistico. Non ha avuto paura?
«È stata un'emozione molto forte, ma avevo già anche una mia linea e la responsabilità l'ho sentita in maniera naturale. La signora Schön mi è stata vicino, il primo periodo, e a un certo punto il senso del dovere nel portare avanti un marchio storico è diventato un "peso costruttivo", che mi ha aiutato a creare qualcosa di nuovo, di speciale. Lei mi diceva: "non ti invidio", perchè sapeva che ci vuole tempo per capire le dinamiche legate alla moda come produzione».
Le ha mai parlato di Trieste?
«A me no, ma ho sentito tutte le sue interviste per la sua monografia. Quando ne parlava si vedeva che aveva gli occhi velati di malinconia, sembrava che la costa, il mare, la salsedine le passassero davanti. Era legatissima a Trieste e si evinceva. Credo le sia costato venir via, ci aveva lasciato il cuore».
Lei, Bianca, è venuta a Trieste nel 2009 per la mostra-omaggio...
«Ho un bellissimo ricordo. Abbiamo tirato fuori proprio tutti i capi dall'archivio e in quello spazio enorme e maestoso della Pescheria, sprigionavano una grande energia e raccontavano una bella storia. Ci tenevo a seguire la parte storica, proprio per ricordare la passione della signora».
Tutti le riconoscono di aver "svecchiato" un marchio, rispettandone il cuore. E lei?
«Ho lavorato sulle silhouette per cambiare la vestibilità, che era un po' "vecchia". E poi sui fondamentali della maison: il colore, il ricamo, le stampe, il double. Ho scartabellato 15 mila schizzi, ho rielaborato, per esempio, lo "chevron", il disegno a zig-zag. Al momento non ho capito bene che cosa stavo combinando. Quando sei dentro, la "forza" è quella del marchio, ma io ci ho iniettato una forza nuova, fatta di entusiasmo, di passione, di sacrifici. Adesso che mi sono un po' staccata e ho riguardato abiti e collezioni di dieci anni, sì, me lo riconosco: ho svecchiato Mila Schön. Me l'hanno detto in tanti della moda e ne sono felice».
Progetti?
«Al momento, con una première, lavoro sugli abiti da sposa su misura. Con un'amica che vive a Londra, poi, sto sviluppando una "capsule collection": pochi pezzi di prêt-à-porter fatti con ottimi tessuti, che lanceremo a Londra, se tutto va bene in settembre, per venderli per ora solo on-line».
Perchè si veste sempre di nero?
«Credo che la stilista debba stare un passo indietro e non influenzare la cliente. Ognuno ha una personalità che va rispettata: il mio compito è "accompagnarla" all'eleganza».
Se dovesse disegnare un vestito ispirato a Trieste?
«Blu copiativo, il colore della signora Schön. Se lei aveva pensato a questo un motivo ci sarà stato... Il blu del mare dà una sensazione forte e il vento porta a vederlo in un modo diverso. Sarebbe uno chemisier, con collettino, e pieghe da una spalla fino al fondo. In crêpe de chine, disegno jacquard, blu lucido e opaco, per le onde».
Pensa a una linea col suo nome?
«Mi sto muovendo, ho un'idea precisa. Ma quando c'è di mezzo il proprio nome non bisogna fare cose affrettate. Sarà una linea "couture", molto alta».

Un modello di Bianca Maria Gervasio
twitter@boria_a

sabato 2 agosto 2014

MODA & MODI

Fabrizio Talia, un'anima vintage


Fabrizio Talia, al lavoro su un modello


Della sua moda dice: «Non è concepita per il mercato, ma per appagare me stesso». Nasce così, nel 2009, la prima collezione (es)*Artisanal firmata da FabrizioTalia, giovane stilista calabrese lanciato nel 2003 da ITS, edizione in cui vinse uno dei premi più importanti e da cui partì per un lungo apprendistato in brand internazionali. Trieste lo ha scoperto e poi è diventata parte della sua griffe. Qui, infatti, Fabrizio ha conosciuto un altro finalista del concorso, il cappellaio Justin Smith, vincitore nel 2007: un'amicizia diventata nel tempo scambio ed energia creativa. Al centro di quello che Talia chiama il suo "mestiere" di "artigiano", un ideale femminile al di fuori di qualsiasi connotazione temporale, una donna iconica, dalla bellezza "siderale" - come intitolò appunto la collezione nel 2009 - che gli piace vestire reinventando tagli e linee di pezzi ritrovati nel proprio archivio o scovati nei mercatini dell'usato. Haute couture che nasce da collage con un'anima vintage e una silhouette contemporanea. «Quella prima collezione - racconta Fabrizio - non è stata mai prodotta nè venduta. Ho regalato alcuni pezzi a persone che la potessero rappresentare, che ne incarnassero lo spirito: Rossella Jardini, direttore creativo di Moschino, la critica d'arte Caroline Corbetta...».

(es)*Artisanal di Fabrizio Talia


Fare pezzi unici: ci vuole coraggio o incoscienza?
«Entrambi, davvero. E bisogna lavorare quattro volte tanto per non sporcare il principio da cui si è partiti, per non cadere nel cliquè. Oggi siamo tutti star della nostra vita, si è tanto più "cool" quanto più si appare, mentre per me è impossibile parlare di un progetto senza parlare dell'idea, del pensiero che c'è dietro. Mi piace sperimentare, reinterpretare, creare capi che abbiano un aspetto familiare e siano invece del tutto trasformati. Ho scelto di lavorare con una sarta che è stata per quarantasei anni nella maison di Capucci. Ci crede? Non aveva più voglia di tramandare il mestiere a una generazione di giovani che si sentono designer appena usciti dalla scuola, ma non fanno altro che affiancarsi a un trend che determina il successo del prodotto».
Lei ha cominciato con Galliano. Cosa le ha insegnato?
«Tutto quello che la scuola non ha fatto, è stato il più grande mecenate che ho incontrato».
E si è arrabbiato molto quando l'hanno cacciato da Dior per quelle frasi antisemite...
«Questa bagarre razziale è tutta una fandonia. Nel team di Galliano c'era gente di ogni parte del mondo e non ho mai assistito a un isterismo, a una parola scortese o di troppo. Galliano riconosceva i nostri sacrifici di stagisti e ci incoraggiava, ci spingeva a una libertà scevra dai preconcetti del mercato. Dubito che in un qualsiasi ufficio stile oggi potrei essere altrettanto libero di esprimermi».
Eppure le abbiamo sentite tutti le sue parole...
«Abbiamo sentito quello che hanno scelto di farci sentire. Galliano aveva perso un anno prima il suo braccio destro, con cui aveva lavorato per vent'anni da Dior, un uomo morto in casa, solo, e trovato dopo tre giorni. Si vedeva che era sotto l'effetto di alcol e psicofarmaci, ed era appena stato pesantemente insultato per la sua omosessualità. Non sposo la teoria del complotto, ma sfido chiunque a non reagire in una situazione simile. Lui ha sempre parlato al mondo tutt'altro linguaggio che quello razzista. Ma nessuno ha speso una parola per salvarlo, forse, anzi, la sua dipartita era più che opportuna per interrompere un rapporto di lavoro...».
Lei sembra piuttosto critico verso il mondo della moda...
«Ci vivo da quindici anni dentro e molte volte ho trovato atteggiamenti che perdono di vista i rapporti umani, ho assistito a scenate, a umiliazioni gratuite. Io stesso ne ho subìte e non voglio più espormi come parte consenziente di questo sistema. Facciamo un lavoro che dovrebbe parlare per noi, mentre oggi "sei" quanto più dimostri di apparire. Uno sforzo immane, un altro lavoro. Ho scelto di defilarmi, come hanno fatto gli stilisti della scuola giapponese o di quella belga, come Margiela».
Cavalli invece?
«È stato il primo banco di prova: lavoravo con le sarte e realizzavo quello che concepivo mentalmente».
Moschino e Dolce&Gabbana?
«Da Moschino sono stato felice, lavoravo come in famiglia. Dolce&Gabbana è stato il primo scontro con la realtà industriale. Non sono contrario, intendiamoci, ho fatto anch'io un progetto con Oviesse: dico solo che ha tolto molta poesia. C'è differenza tra fare un prodotto e raccontare una storia, come McQueen, come Galliano, come, in Italia, fa Prada, che porta la moda su un altro emisfero, sposando una filosofia e un concetto legato a una stagione. Infatti, della collezione si capisce molto di più sentendola raccontare da lei, che vedendola sfilare».
I suoi abiti invece come nascono?
«Aspetto che ci sia qualcosa a parlarmi. Ora, per esempio, sto lavorando su una giacca che avevo nell'armadio da moltissimo tempo. Ho iniziato a scucirla, a "customizzarla", cioè a reinterpretarla e a personalizzarla con una nuova silhouette. Nella mia moda c'è una matrice vintage che mi piace vivificare, "rimixare", però intervenendo direttamente sul capo. Lo faccio anche con le pellicce, che amo molto pur odiando il concetto che c'è dietro. Allora le acquisto nei mercatini e le rimetto a nuovo, faccio girare qualcosa che esiste con una diversa allure».
Che cosa significa (es)* Artisanal?
«Es, materializzazione di un'idea astratta, in senso socratico. "Artisanal" che c'è un impegno artigianale in primis dell'autore».
Lei è calabrese come Versace. Che cosa le piace e non le piace di questo brand?
«Mi piace Gianni, la sua bellezza poetica, la sua capacità di esaltare la figura femminile e di creare un genere di donna che non avesse paura di aver coscienza del proprio corpo. Non mi piace quello che è diventato il brand: capisco che ci sia voluto tempo per riappropriarsi del dna, ma ha permesso ad altri di arricchirsi saccheggiando il suo archivio. Ci sono marchi nuovissimi che lo copiano in modo "letterale", tentando solo di occupare quella fetta di mercato».
Come sarà la sua prossima collezione?
«È ancora un progetto, ma penso a capispalla reinterpretati, per la stagione invernale».
I suoi capi, su che donna li vede?
«Perchè fare una scelta? Collaboro con Simonetta Gianfelici, top model e talent scout, che è stata la musa di Mugler, di Helmut Newton e che ha appena compiuto cinquant'anni. Mi chiedono: perchè un marchio giovane guarda a una figura così "datata"? Ma la bellezza è questione di atteggiamento, di sguardo, anche di accettazione del fascino della propria età. Parlo a donne che non sono schiave di un'identità da disegnarsi addosso, ma possono mettere qualsiasi cosa restando sempre presenti a quello che indossano».
Che cosa non le piace della moda?
«Vorrei escludere la terribile competitività e la cattiveria di fondo. In molte maison vige la politica del terrore. Mancano team leader che sappiano motivare i collaboratori e creare una "fidelizzazione", come invece è capitato a me da Moschino. Rossella Jardini sapeva che non l'avrei mai tradita, perchè mi aveva guadagnato alla sua causa. Altrove non c'è questo sentimento di "crescere" le persone, piuttosto si tende a scaricarle velocemente, tanto si sa che se ne troveranno altre».
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