martedì 16 luglio 2019

MODA & MODI

I love sharing






Tempo di resettarci, per noi cresciute con lo shopping allegro e sventato di Sex&TheCity o con la saga spendacciona di Sophie Kinsella. Se tornassero sugli schermi le amiche newyorkesi dovrebbero imparare dai loro figli Millennial: scarpe e borse non si acquistano, si condividono. E la scrittrice inglese che ha inventato Becky, indefessa prosciugatrice di carte di credito, costruendo sulla simpatica scialacquona una fortuna editoriale, in un futuro capitolo dovrebbe instillarle una diversa ossessione: non comprare l’ultima it-bag, ma scoprire dove affittarla.

Affittare? Eh, sì. La nuova frontiera per le fashion—aholic non è il possesso permanente, ma la fruizione temporanea di un capo o un accessorio. Mentre il disastro ambientale dalla produzione di abbigliamento a basso costo (ma non dimentichiamo le polemiche sull’inquinamento delle presunte pellicce “ecologiche”) è al centro dell’attenzione delle generazioni eco-consapevoli, volano i siti che offrono abbonamenti per godere “a tempo” di quel pezzo che prima avremmo sognato di assicurare al nostro armadio. Possedere non è più l’unico valore, meglio scambiare, noleggiare, condividere, come per le auto.


Si sceglie dai siti specializzati l’oggetto del desiderio e lo si restituisce dopo averlo ulizzato, senza ansia da accumulo. Con l’eccitazione di permettersi quello che non si comprerebbe mai, non solo perché troppo costoso, ma perché eccessivo, legato alla stagione, non abbinabile. Insomma, il classico capriccio. Carrie che contempla in visibilio la cabina armadio piena di scarpe è un fotogramma del passato. Oggi avrebbe gli occhi fissi sullo schermo e una stanza dei desideri virtuale davvero infinita. I love shopping? No, sharing.

domenica 7 luglio 2019

IL LIBRO

Elizabeth Day, benvenuti al party della resa dei conti

 


La passione, la doppiezza, l’ansia di promozione sociale, la gelosia, l’opportunismo, la nevrosi che sconfina nel disturbo mentale. È un impasto di pulsioni quello che spinge Martin, l’orfano di modesta classe sociale, impregnato di miseria e anafettività materna, verso il ricco, bello, vincente Ben Fitzmaurice, che già nel cognome sventola un dna di successo e adorazione altrui. Un’amicizia nata sui banchi della scuola privata inglese di Burtonbury, che Martin, con la sua divisa sbiadita e un episodio oscuro da cui fuggire, costruisce come una strategia: conoscere i gusti di Ben e fingere di condividerli, colmare il vuoto lasciato da un fratellino morto, farsi accogliere nella famiglia, diventare la sua PO, “piccola ombra”, fino a sostituirsi a lui nel momento del bisogno e addossarsi la colpa di una tragica sventatezza. «La gratitudine ci avrebbe uniti. L’avrei salvato da se stesso. Sarebbe stato il nostro segreto e lui avrebbe trascorso il resto della sua vita a ripagarmi».

E invece. A molti anni di distanza, Martin Gilmour, diventato un modesto critico d’arte che deve la sua notorietà a un unico saggio trasgressivo, “Arte: chi c*** se ne frega?”, che fa tappezzeria nelle case radical chic, è seduto davanti a due poliziotti nel commissariato di Tipworth, villaggio bucolico sulle Cotswolds. 

Cos’è successo al ricevimento che Ben e la sua splendida moglie Serena, coppia da riviste glamour e quattro figli sfornati con disarmante regolarità, hanno organizzato per festeggiare i quarant’anni di lui e la loro seconda dimora, nella restaurata prioria di Tipworth, davanti a un parterre di attori, politici, vecchi compagni di college dai cognomi blasonati, con breve apparizione del primo ministro, anzi di Ed, come lo chiama il padrone di casa?

Martin e sua moglie Lucy, legati in un matrimonio tiepido e infecondo, non sono stati invitati ad alloggiare nell’ex monastero del XVII secolo, come tutti gli altri ospiti. In quell’iniziale ingessato colloquio della coppia, nell’alberghetto fuori dall’autostrada dove i due hanno trovato sistemazione, tappeto ruvido e colazione non compresa, la scrittrice Elizabeth Day infila il tema centrale del suo quarto romanzo, il potente, teso noir psicologico “Il party” (Neri Pozza, pagg. 348, euro 18), best seller in Inghilterra e Stati Uniti.


Siamo alla resa dei conti in un’amicizia tra due uomini appartenenti a classi e mondi diversi. Un’amicizia che ha attraversato la loro adolescenza fino a Cambridge, da Ben concessa con graziosa indifferenza, come un’elargizione, e da Martin accettata con avidità, umiliandosi e annullandosi, prima con la speranza che si trasformasse in altro, poi con la convinzione che gli fosse dovuta a oltranza, inscalfibile. Una sorta di rendita sentimentale, come quella economica che riceve dai Fitzmaurice per tacere il loro segreto, con cui ha vissuto ben al di sopra delle sue possibilità di scrittore.


E invece. In quel party di compleanno Ben vuole ristabilire le distanze tra sè Martin, come la mancata ospitalità tra la “famiglia allargata” nella prioria fa capire. Ha altri progetti per il futuro, che non includono più “Piccola Ombra” e la sua devozione.
A raccontarlo sono due voci. Quella ambigua, disturbata, lagnosa o feroce di Martin, con cui il lettore non empatizza, e quella lucida di sua moglie Lucy, riversata nel diario che scrive come terapia in clinica, dopo i fatti di Tipworth.


Lucy, tutt’altro che la “docile e adorante mogliettina”, come la descrive Martin, ha capito molto, forse tutto: la natura di suo marito, la debolezza di Ben, l’ambizione di Serena, quell’élite tra cui sono stati ammessi fin che ha fatto comodo: «Non si curano del resto di noi. Non è una cosa consciamente malvagia, ma una semplice mancanza di curiosità per le vite degli altri. Non riescono a immaginarle. Ma i più impressionabili tra noi - i disadattati, gli insicuri, gli amareggiati e i vulnerabili - vengono spazzati via dalla loro corrente dorata, come nuotatori alla prime armi sopraffatti da una fulgida marea».

Non accadrà alla solida, concreta Lucy, che, a due anni di distanza dalla notte del party, ricomincia a vivere. Lucy che quel mondo patinato l’ha sempre guardato con disincanto, senza sconti: sono i suoi occhi a rappresentarlo al lettore. Mentre Martin, “masticato e risputato”, di nuovo solo con le sue ossessioni, come l’orfano della scuola elementare da cui fu costretto ad allontanarsi, batte a macchina una fluviale, dettagliata vendetta. Riuscirà a scalfire l’oggetto della sua ossessione, l’odio dove non ha potuto l’amore?

@boria_a

mercoledì 3 luglio 2019

MODA & MODI

Saldi intelligenti, o slow

Saldi e canicola, binomio nefando. Il caldo di questi giorni annebbia il giudizio dei valorosi che sfidano il termometro per lanciarsi nella maratona fisica, preferendola a quella più comoda, discreta e asettica della rete. Vogliono provare e toccare con mano e per farlo sono disposti a boccheggiare e a rischiare l’acquisto incauto, sotto la pressione del termometro.

Questo è l’unico inconveniente della tornata di svendite, visto che le previsioni degli osservatori del mercato non sono troppo ottimiste. La sfiducia nel presente e nel futuro, dicono, frena i consumi, abbassa il budget, quindi scongiura le resse. Ma è davvero solo questo?

Online, i siti dei magazine ripetono tutti gli stessi elenchi di pezzi imperdibili, di cui non privarsi, approfittando degli sconti. Ma i suggerimenti sono asfittici, restando in tema meteo. E i compratori, anche senza tirare in ballo Greta e la moda sostenibile, meno forzati dell’occasione a tutti i costi e più sensibili a comprare al prezzo giusto un capo o un accessorio di qualità.

Un paio di scarpe gialle? Colore di stagione, il prossimo anno saranno datate. Il vestito all’uncinetto? Chi non se l’è fatto in casa può prescinderne, non c’è traccia di altro crochet nell’immediato futuro. E così per la serie di ciabattine di paglia rimaste invendute, per il vestitino a fiori (ma davvero non ne abbiamo almeno uno nell’armadio?), per paillettes, frange, balze, piume e tutti i revival anni Novanta o Settanta che resuscitano.
 

Gli in e gli out, questi sì, sono sempre meno di moda, il guardaroba si rinnova reinventando, non più per accumulazione al ribasso. Tempo di saldi slow, intelligenti come i cartellini.