sabato 29 gennaio 2022

IL LIBRO

 

Yokomizo Seishi, la violenza di velluto
del maestro del giallo nipponico





 

Una dama velata si aggira nella gioielleria dei grandi magazzini Ebisuya di Osaka, allungando le sue mani guantate su spille e orecchini che le commesse devotamente le mostrano. Intasca i gioielli e si eclissa, senza che nessuno la fermi, attraversando eterea le sale del terzo piano del lussuoso centro commerciale. E nel lusso vivono anche i tanti nipoti di Tokiwa Matsuyo, matriarca e proprietaria dell’«Impero delle essenze», industria cosmetica che porta il suo nome. Regina di buona parte dei prodotti di bellezza venduti nel paese, la donna ha fatto fortuna durante la seconda guerra mondiale, producendo saponi e dentifrici, mentre i suoi due figli maschi cadevano sul campo e l’unica femmina restava sotto le bombe di Hiroshima, lasciandola a vegliare su una corte di rampolli.
Gioielli, ciprie. Ambienti vellutati dove maturano invidie e vendette, impregnati di essenze che nascondono odori di morte.

 

Questa volta il detective privato Kindaichi Kōsuke, il trasandato e stralunato personaggio uscito dalla penna di Yokomizo Seishi (1902-1981), si muove in negozi scintillanti e macchine costose, per far luce su una coppia di duplici omicidi. A poco più di tre anni dalla prima uscita, “Il detective Kindaichi” (2019), seguita da “La locanda del Gatto nero”, ai fan delle sospese e quasi soprannaturali atmosfere del maestro del thriller nipponico, Sellerio propone ora “Fragranze di morte” (pagg. 177, euro 14, traduzione di Francesco Vitucci), composto da due racconti brevi e incalzanti.


Chi è “L’Orchidea nera” nel titolo del primo giallo, la dama velata il cui ennesimo furto viene scoperto da una commessa appena assunta, innescando due morti in rapida successione dove la bella cleptomane appare la principale sospettata? Ed è veramente un omicidio-suicidio quello consumatosi in uno chalet nei pressi delle cascate di Senga, dove l’erede dell’«Impero delle essenze», il primo nipote, è stato trovato impiccato accanto al cadavere di una donna sposata, riversa sul tatami?


Kindaichi entra in azione ancora una volta affiancato dell’ispettore Todoroki, l’uno eccentrico e intuitivo, l’altro pratico e logico. Come sempre nei gialli di Yokomizo, grande confezionatore di enigmi “della camera chiusa”, sull’esempio dell’americano John Dickson Carr, non è tanto importante scoprire il colpevole, che fin dalle prime pagine entra nella trama, ma il “come” ha agito, il procedimento che ha portato l’assassino a compiere il delitto. E non sono il sangue, o la violenza dell’esecuzione, pure presenti in tutti i thriller, a stordire il lettore, ma la millimetrica e quasi perversa precisione con cui l’autore incastrata elementi all’apparenza insignificanti per poi stringerli intorno al colpevole come un cappio. Gli orari, le gerarchie tra i personaggi, la coreografia degli abiti e delle armi di un mondo antico, l’incombere delle convenzioni e delle differenze sociali, l’incidenza del momento storico, creano il riconoscibile contesto dove Yokomizo fa interagire i suoi personaggi, insinuando in una trama in apparenza immobile il dettaglio che sconvolge l’intero impianto. La violenza della morte ci arriva sempre attutita, quasi mediata dai codici di comportamento di un mondo dove ritualità e tradizioni giocano un ruolo chiave.

 

Yokomizo Seishi

 


È facile intuire allora che non sarà uno stiletto intriso di sangue ritrovato nella sua borsetta a fare dell’Orchidea nera un’assassina, nè la corda da cui penzola l’erede dell’«Impero dei profumi» un elemento sufficiente a considerarlo un suicida. Come per i nomi, sempre riportati in una indispensabile legenda all’inizio delle storie, per impedire al lettore di frastornarsi, nelle macchinazioni di Yokomizo bisogna tornare indietro e cercare di mettere a fuoco il particolare che inchioda l’assassino.

lunedì 24 gennaio 2022

MODA & MODI

La minigonna ritorna da rivoluzionaria

 

L'onda lunga della voglia di libertà esplosa l’estate scorsa, con la prima evasione dal confinamento, scavalla l’inverno e si allunga verso i prossimi mesi. Mary Quant l’aveva detto, mettendo fine alla disputa sull’invenzione di uno dei pezzi più iconici del Novecento: la primogenitura sulla minigonna non era nè sua nè di Courréges, ma delle ragazze che la portavano per le strade. E succede ancora una volta, con le passerelle che rilasciano per la primavera-estate 2022 francobolli svolazzanti di stoffa, a coprire quel che resta tra l’ombelico a vista e i glutei. L’insieme - si fa per dire - nostalgico degli anni Duemila, proposto da Miu Miu, rimbalza dalle pagine dei magazine alle gallerie virtuali: gonnellina leggermente svasata appoggiata sulla linea del pube, intimo con logo esposto, maglioncino e camicia crop, tagliati all’altezza del reggiseno. A vista tutta la fascia addominale e le gambe infilate in brevi calzettoni a metà polpaccio.

 

Miu Miu

 


Ancora una volta la minigonna è chiamata a far da manifesto a un momento storico. Dagli anni della contestazione in poi, ha incarnato protesta, rivolta, indipendenza, è stata strattonata a destra e a sinistra, perfino accusata di rappresentare all’inizio degli anni Novanta una sorta di strisciante restaurazione, di mercificare piuttosto che emancipare. E adesso, in un momento di confusione e insicurezza, in cui ancora i limiti della nostra autonomia cambiano di giorno in giorno e ci disorientano?

Nell’estate 2021 il messaggio era diretto: dopo mesi di divieti, scoppiava la voglia di liberare e di liberarsi, all’insegna della “body positivity”, cioè del diritto a mostrare il proprio corpo anche se non si incasella in parametri estetici superati e obbligati, dando valore prima di tutto al sentirsi bene con se stessi. Mini e microshort hanno colonizzato ogni spazio e ogni tempo della giornata, senza grattacapi di età, fisicità, elasticità. Senza limiti.


Un anno dopo in questo ritaglio di stoffa così minuscolo e così impegnativo non ci può essere solo reazione. C’è la voglia di riprendersi totalmente il proprio corpo, prima di tutto, perchè la pandemia ci ha espropriato di alcuni diritti in nome di un diritto più grande e comunque ci ha obbligato a confrontarci con scelte e con tempi dettati da altri. E c’è voglia di rivoluzione, come ha detto Maria Grazia Chiuri, direttore artistico di Dior, alla Parigi fashion week. Una sorta di ritorno alle origini, quando la gonnellina esprimeva e concentrava l’energia per guardare al futuro in modo positivo, leggero. Fiduciose e determinate a lasciare alle spalle un periodo di costrizioni.

 

Dior
 

 

Nella mini 2022 ritorna un bisogno di libertà dirompente, quasi a portata di mano, ora che le “curve” del contagio scendono e si avvicinano a un confortante “plateau”. Tanti termini utilizzati ogni giorno per parlare di moda hanno assunto negli ultimi due anni un significato sinistro, espropriati come noi. La mini torna al suo. Un nonnulla di tessuto con una responsabilità enorme. Proprio per questo, come tutto nei tempi nuovi che affrontiamo, va maneggiata con cautela.

lunedì 10 gennaio 2022

MODA & MODI

 Pantaloni in maglia: è resilienza (non resa)

 

 


 

C’è un capo presente in ogni vetrina che sintetizza il momento di incertezza in cui siamo di nuovo immersi: i pantaloni in maglia. Perfetti per vestire la fase che stiamo attraversando, dominata da una gamma di sentimenti che va dall’esasperazione alla rassegnazione, dall’insofferenza alla preoccupazione nel non riuscire a immaginarsi in un prossimo futuro di completa libertà e mobilità. Abbiamo abbandonato da tempo, e fortunatamente, le tute del lockdown, portandoci dietro, in questa ancora fase in bilico tra presenza e remoto, l’eredità migliore che il confinamento poteva lasciarci: la voglia di comfort. Che non significa abbandonarsi a pezzi informi, consumati, sciatti, ma adottare un modo di vestire che concili benessere, cura, comodità e grazia, sia in casa, nelle occasioni di confronto con gli altri che anche da remoto il lavoro smart ci presenta, sia all’esterno, negli spazi urbani riguadagnati. E ci faccia sentire comunque a nostro agio, anche se ridotti a un quadratino, a un mezzobusto su un monitor.


Da molte stagioni i pantaloni di lana non comparivano in una selezione così ricca di colori, lavorazioni, fantasie, ampiezze. Anzi, eravamo abituati a considerarli un po’ una resa, un “segno di sconfitta”, come Karl Lagerfeld definiva la tuta, per il Kaiser segno inequivocabile di non riuscire più a controllare la propria vita. Era il 2013, il virus non aveva ancora sovvertito il mondo, e strizzarci nei capi skinny, arrampicarci sugli stiletto, costringerci in guaine e bustier, ci sembrava la quintessenza della libertà. Da due anni a questa parte anche il nostro modo di vestire è stato attraversato da una sorta di tsunami e quello che prima relegavamo ai momenti di relax è entrato nell’armadio di tutti i giorni, seppure adeguato nei materiali, nelle linee, nei colori. La sovrapposizione tra spazi domestici e lavorativi ha fatto evolvere l’abbigliamento all’insegna della versatilità. 


I pantaloni in maglia permettono di muoversi liberamente e di restare seduti per ore senza soffrire la costrizione dei tessuti attillati. Una giacca anch’essa in maglia, corta o lunga oltre le ginocchia, li converte in un completo più fluido e disinvolto del tailleur, senza le rigidità o la formalità del dress code, ma altrettanto accurato e ricercato. Gli accostamenti vengono naturali: un maglione, una camicia, una giacca in tessuto ed ecco che i pantaloni knit diventano un passe-partout, per ore e occasioni delle giornata anche molto diverse tra loro. In vita la coulisse, che si adatta al giro vita, o una fascia elastica morbida, anch’esse in altri tempi bollate come indizi di un modo di vestire per agée, oggi sono ulteriori elementi di praticità. La maglia scivola sui fianchi e non enfatizza le imperfezioni, il fondo dei pantaloni si allarga a coprire anfibi, tacchi, piattaforme, slanciando la figura. 


L’adattabilità è una pratica che nostro malgrado abbiamo imparato a esercitare da mesi ed è la stessa caratteristica che più o meno consapevolmente cerchiamo nei capi. Più che “resa”, una necessaria resilienza.