giovedì 24 ottobre 2019

L'INTERVISTA

Umberto Castiello: "Le piante? Sono
tutt'altro che vegetali"


 


Non sono assetate di sangue umano come “Audrey II”, il vegeegetale mostruoso del musical “La piccola bottega degli orrori”, ma possono farsi la guerra o interagire pacificamente tra di loro. Sentono, annusano, vedono, possiedono gusto e tatto. E sono capaci di ricordare. Insomma, le piante sono tutt’altro che “vegetali”, come a volte ci capita di dire spregiativamente degli umani. Non hanno un sistema nervoso centrale, come gli animali, eppure ricevono stimoli dall’ambiente, li elaborano e mettono a punto strategie. E allora, dov’è il loro cervello?

Umberto Castiello, ordinario di Psicobiologia e Psicologia fisiologica all’Università di Padova ci introduce alla vita segreta dell’universo green. Nel suo saggio “La mente delle piante” (Il Mulino, pagg. 183, euro 14) scopriamo un mondo complesso e affascinante, con virtù e difetti non troppo diversi da quelli degli umani.



Umberto Castiello, ordinario di Psicobiologia e Psicologia fisiologica




Professore, diciamo spesso che parlare alle piante fa bene. Ha un’evidenza scientifica? «Vi sono alcune evidenze molto preliminari e non del tutto attendibili che parlare alle piante aiuta la loro crescita. Si dice inoltre che la voce femminile sia più efficace di quella maschile, ma sono effetti che richiedono di essere verificati con esperimenti rigorosi».


Pare che le mucche siano più produttive se ascoltano certi tipi di musica. Succede qualcosa di simile alle piante? «Sentiamo spesso parlare di piante che fioriscono e crescono più rigogliose in stanze dove risuona la musica classica piuttosto che in stanze dove risuona l’hard rock. Anzi le piante esposte al rock pare subiscano un arresto nella crescita. La scienza, però, ha dimostrato che i suoni della musica non sono molto rilevanti per una pianta. Ne esistono però altri che potrebbero essere vantaggiosi. Vari studi descrivono trattamenti che utilizzano le onde sonore per stimolare la capacità della pianta di assorbire fertilizzanti ed erbicidi, diminuendo significativamente la quantità di prodotto necessaria per ottenere l’effetto desiderato, con un impatto positivo anche sull’inquinamento ambientale».


Lei parla dei cinque sensi delle piante. Partiamo con vista e olfatto... «Le piante monitorano continuamente il loro ambiente  visibile. È stata anche avanzata l’ipotesi che posseggano una forma di visione resa possibile da cellule localizzate nell’epidermide delle foglie, chiamate ocelli. Al contrario di quello visivo, assai ampio, l’input olfattivo è limitato, ma anche altamente sensibile. Le piante emettono odori che attirano gli animali e gli esseri umani, ma percepiscono anche i loro stessi odori e quelli delle piante vicine. Annusando sanno quando il loro frutto è maturo, quando la loro vicina è danneggiata oppure attaccata da un insetto». 




Audrey II, il vegetale assetato di sangue della Piccola bottega degli orrori


Gusto e udito?
«Le piante carnivore hanno preferenze verso gli insetti che cacciano: ragni, afidi e farfalle con maggiori quantità zuccherine nel corpo. E se la preda è poco “gustosa” la rilasciano. Le piante sono anche equipaggiate per percepire il suono, anche se tale capacità non è confinata a un unico organo, l’orecchio, ma avverrebbe attraverso cellule che fungono da “micro orecchie”, sopra e sottoterra».


Difficile pensare al tatto vegetale...
«Al contrario. Le piante sono esposte a molteplici sollecitazioni tattili prodotte sia da eventi atmosferici che dall’interazione con elementi del regno animale, come per esempio gli insetti. Per questo motivo nel corso della loro evoluzione hanno investito molto nella percezione e interpretazione di stimoli tattili. La loro capacità di discriminazione tattile sarebbe talmente sviluppata da poter riconoscere se uno stimolo meccanico, quale il tocco di un insetto ad esempio, ha un effetto positivo o negativo sulla loro esistenza». 


Che cosa ricordano le piante? «Nessuna pianta selvatica potrebbe sopravvivere senza il ricordo delle esperienze passate che, integrate con le condizioni attuali, permettono di effettuare previsioni circa le condizioni future. Sono diverse le piante che quando attaccate dagli erbivori, memori degli attacchi precedenti, mettono in atto una risposta difensiva che si traduce nella biosintesi e accumulo nelle foglie di molecole quali gli alcaloidi e il tannino, che sono tossiche per i predatori e rendono le foglie meno appetibili».


Le piante comunicano tra loro? «In questo campo si sono registrate scoperte sorprendenti, che hanno rivoluzionato la comprensione del mondo vegetale. Gli scienziati sono giunti alla conclusione che gli alberi si avvertono l’un l’altro circa l’imminente attacco di insetti divoratori di foglie. Per comunicare le piante utilizzano migliaia di molecole chimiche volatili, una forma di linguaggio estremamente sofisticato, dove una singola “parola” può avere significati diversi a seconda di chi la ascolta. Un dato interessante è che questa forma di comunicazione chimica sembra essere più efficace tra piante geneticamente simili. Tuttavia, in certi casi anche piante di specie diversa possono intercettare i messaggi: ad esempio, gli avvertimenti spediti dalla salvia possono innescare meccanismi di difesa sia nelle piante di pomodoro che di tabacco».


Com’è che si fanno la guerra le piante?
«Vi sono molteplici forme di comportamento competitivo. Ma è quando si parla dell’”allelopatia” che il gioco si fa duro. L’allelopatia si riferisce alla capacità di un organismo di produrre sostanze in grado di limitare o favorire lo sviluppo di altri organismi. Il noce cresce solitamente in singoli esemplari isolati, proprio perché le sue radici producono sostanze che inibiscono la germinazione di semi della medesima specie nel terreno limitrofo. La sostanza chimica responsabile per la sua allelopatia è lo juglone. Gli effetti di questa sostanza sulle altre piante sono generalmente tossici e causano l’inibizione della crescita, impediscono la fotosintesi e la respirazione così come l’assorbimento dell’acqua. Vari ortaggi, quali il pomodoro, la patata, il pisello, il cetriolo e il fagiolo, così come specie ornamentali quali il rododendro e l’azalea sono particolarmente sensibili all’influenza dannosa dello juglone. Quindi è meglio fare l’orto lontano da un noce».


Con gli umani c’è qualche forma di comunicazione? «Gli appassionati di botanica e di giardinaggio sostengono spesso di parlare alle loro piante per farle prosperare, ma di questo non c’è evidenza scientifica rigorosa. Tuttavia sarebbe importante trovare una stele di Rosetta della comunicazione vegetale. Prima di tutto per comprendere se un trasferimento di informazioni così spazialmente diffuso, lentissimo e impreciso dal punto di vista organico permetta di comprendere meglio l’evoluzione dei mezzi di comunicazione tra organismi viventi. Poi ci aiuterebbe a capire come le piante reagiscono ai cambiamenti climatici. Il rischio è che quelli attuali possano deteriorare questo mezzo di comunicazione e così destabilizzare l’intero ecosistema. Alcuni segnali potrebbero essere amplificati mentre altri smorzati o addirittura resi impercepibili. In assenza di questa comunicazione le piante potrebbero non essere in grado di rilevare e inviare segnali di allarme e quindi diventare più vulnerabili agli squilibri dell’ecosistema».

lunedì 21 ottobre 2019

MODA & MODI

Brown is the new?



Riccardo Falcinelli nel suo bestseller “Colorama” (Einaudi) sostiene che si tratta di una tinta che non catturiamo con la retina, ma che percepiamo col cervello. Il marrone, insomma, più che arrivare dritto al cuore, e scaldarlo, agirebbe sulla nostra razionalità. Un colore da scegliere perchè neutro, pratico, accostabile, discreto, mai sopra le righe, un buon investimento in un guardaroba che vogliamo sempre più duraturo e libero dai trend. Non importa se non ci entusiasma come un arancione, se non è un manifesto d’intenti come il nero, se non possiede la sciccheria del blu e non ha mai calcato un red carpet.



Total brown di Max Mara: ma il segreto è la sfumatura




Avete memoria di una diva in odor di Oscar che si presenti davanti ai fotografi in marrone? Non suscita mai quella passione istantanea che ci trascina dentro un negozio senza un secondo pensiero, ma ci fa riflettere sui pro e contro di un acquisto. Un calcolo più che una gratificazione. Eppure, le vetrine di questo autunno ancora così indeciso, straripano di marrone, in tinta unita o negli stampati. La palette va da un estremo all’altro: dal mou al cioccolato, dalle nuance più chiare, che sconfinano nel cammello, al testa di moro. Non è mai total brown, ma un gioco di sfumature: a differenza del blu, che in tonalità simili si ribella all’accostamento, marroni diversi coesistono, anzi, si ammorbidiscono a vicenda e rendono l’insieme piacevole.

Brown is the new black? Tutt’altro: è un colore ostico, ingannevole. Va dosato con attenzione, a differenza del nero che, anche in quantità massicce, trova sempre la scusa del minimalismo intellettuale. Il marrone può esaltare e può sbattere una carnagione. Può scomparire nel beige di un impermeabile o farsi notare su un trench di pelle o di camoscio. Buca con l’arancione e il giallo, abbinato al nero si fa più salottiero e serale. Nessuno dice che gli piace, non è mai una prima scelta cromatica.


Piuttosto un passepartout, che ci sfida a valorizzarlo. Nel vuoto di idee nuove e portabili, ci consoliamo improvvisando col colore.

sabato 12 ottobre 2019

IL LIBRO


 Peter Cunningham: "Le conseguenze del cuore" un triangolo che fa scandalo







Un triangolo amoroso nella rurale, bigotta, chiusa Irlanda di inizio Novecento. Una storia pubblica e spudorata, che attraversa un secolo, una guerra, lo sbarco in Normandia, senza che nulla, nè morti, disastri finanziari, separazioni, malelingue, ricatti, nemmeno l’odio del proprio stesso sangue possa intaccarla.
Passione e perversione, passione e azzardo. Lei, Rosa Bensey, è figlia di un allibratore, lattea e magnifica fin da adolescente. Loro, che la ameranno senza mai odiarsi, sono Jack Santry, biondo e altissimo rampollo di una famiglia di militari, tutti eroismo e grandi bevute, e Chud Conduit, la voce narrante, moro e mediterraneo, nelle cui vene scorre il sangue di un marinaio napoletano, rimasto sulla terraferma solo il tempo di concepirlo in un ardente matrimonio di pochi giorni.


Questa storia lunghissima, sessant’anni di sentimenti e “regole profanate”, di sesso avido, poi delicato e cauto nella terza età, si svolge tutta a Monument, città immaginaria dietro cui si nasconde Waterford, il porto del sud est dell’Irlanda dove è nato il pluripremiato scrittore Peter Cunningham. Il suo romanzo “Le conseguenze del cuore”, uscito nel 1999 e uno dei quattro ambientati a Monument, è il primo tradotto in Italia (Sem, pagg. 425, euro 20), presentato in anteprima a Pordenonelegge dove l’autore ha fatto tappa per accompagnarlo.



Peter Cunningham


Il triangolo è il cuore della vicenda, ma altrettanto lo sono il gioco, il rischio, la posta. La nonna di Chud, Mabel, se la gioca tutta abbandonando il conte di cui è l’amante per il medico della città, al quale darà quattordici figli, per poi diventare una ricca e rispettata imprenditrice (“prostituta furiosa”, per il generale Santry, padre di Jack). Hilda, la sua secondogenita, nata sorda, infrange il muro della disabilità e va incontro al mondo sconosciuto dell’esotico marinaio italiano, con cui, senza parole, esplorerà tutta la grammatica della passione in un’unica settimana, generando Chud.


Annabelle, l’ultima discendente dei Santry, sfida il padre Kevin, l’uomo più ricco e potente di Monument, per rompere le convenzioni e invitare al suo matrimonio i nonni Rosa e Jack e il loro amico più caro, Chud, legittimando davanti alla comunità il rapporto scandaloso, che nemmeno la vecchiaia e gli acciacchi appannano (le pagine sul loro erotismo di anziani sono tra le più raffinate del romanzo).

La posta. Jack e Chud si giocano in guerra il matrimonio con Rosa, ma il loro legame si cementa molto prima, negli anni dell’adolescenza e delle nuotate insieme nel lago, quando nasce il loro codice, il “Delaware”, a intendere il posto, l’appuntamento, un’intesa impenetrabile agli altri (“nel bene e nel male, avrebbe continuato a modellare le nostre vite, a qualunque rischio, a qualunque prezzo”).
È lì che due occhi estranei, quelli del circense Bruno Belli, si appoggiano una volta di troppo sulle forme dorate della ragazza, stesa sull’asciugamano tra i suoi due accompagnatori, e poco dopo qualcuno glieli chiude per sempre. Quella morte oscura impone la prima separazione del terzetto: Jack in Inghilterra, Chud, accusato dell’omicidio ed evitato il carcere grazie all’influenza di nonna Mabel, in un collegio di preti, Rosa dalle suore.


Al termine della guerra, Jack sposa Rosa e Chud, ritornato a Monument dopo una lunga convalescenza, ne diventa l’amante, sotto gli occhi del marito e colto in flagrante dal piccolo Kevin, il figlio della coppia, che da quel momento proverà nei suoi confronti un odio inestinguibile.
Ma il gioco a tre e l’equilibrio resistono finchè Rosa e i suoi due uomini sono tutti insieme e il loro sentimento si alimenta nelle convenzioni che infrangono. Appena l’uno si allontana da Monument, il legame che unisce gli altri due si intiepidisce, avvizzisce. Insieme, invece, le loro “reazioni chimiche” sono “specchio l’una dell’altra”, cementando un rapporto dove la tiepidezza e l’impenetrabilità di Jack si compensa nella voracità di Chud, e Rosa, moglie insoddisfatta, sogna di tornare a essere tre, di avere l’uno e l’altro, come nel “Delaware” da ragazzi, finchè la fantasia delle sue notti non diventa realtà.


Al sole, fino alla fine dei loro giorni. Fino a quando, ancora insieme, i due uomini seguono la bara di lei. «Credo che siamo stati viziati», dice Chud. Resterà solo lui a conservare in otto raccoglitori e due metri di scaffali quello che è stato, semplicemente, “il racconto di un grande amore”.

lunedì 7 ottobre 2019

MODA & MODI

Denari ben spesi 



I collant coprenti di Armani 2019


La rivincita delle signore cento denari. L’unità di misura delle gambe schermate, protette, avvolte in una calza impenetrabile, al freddo e agli sguardi. Chi le ha sempre amate, per comodità e confortevolezza, quest’inverno sale in passerella. E dall’alto guarda le fanatiche del nude look, indietreggiare zampettando su gambe violacee e pelle di gallina, in nome di un assurdo diktat dello chic: mai le calze, bisogna soffrire dalla caviglia all’inguine, soprattutto con gli abiti da sera e i tacchi.

I vituperati collant sono tornati e mettono in riga anche le autoreggenti, ammennicolo per eccellenza dell’eros cinematografico, perché mai ci immagineremmo una Loren o una Kim Basinger risolvere tutto in un’unica mossa, senza il rito del duplice sfilare e scoprire. Quest’anno la calza intera è protagonista, all’insegna della praticità e della libertà di movimento, senza rinunciare alla personalità. Nerissime, quasi pantacollant, o nei colori più accesi, verde, giallo, zucca, turchese, animalier, a rombi, stampate, pied de poule.


Non vanno scelte a caso, da complemento diventano completamento dell’abito, appendice su cui l’occhio non corre in fretta per passare oltre. Per chi non rinuncia al velato e alle trasparenze, ci sono collant di pizzo, ricamati, glitterati e anche i loghi delle griffe si stendono sulle gambe come un territorio nuovo da segnare.

Effetto dell’onda #metoo, che rivaluta accessori dove l’accento è sullo stare bene con se stesse piuttosto che sul sedurre l’occhio dell’altro (come i body nella lingerie). Sensibilità green, che punta a durata, resistenza, meno sprechi? Senza scomodare troppi simbolismi, i collant sono semplicemente una scelta di buon senso. Tanti denari, ma ben spesi. —