lunedì 20 aprile 2020

MODA & MODI

 Il lusso di riscoprire il tempo. Lungo



Balenciaga, Parigi Fashion Week 2020


Tempo è la parola di cui la moda si sta riappropriando in questi mesi. Un tempo che rimette le stagioni al proprio posto. Usciremo di casa per acchiappare ancora le novità della primavera e goderci le collezioni dell’estate, senza ritrovarci a guardare i nuovi cappotti in pieno agosto, accanto ai saldi di una stagione appena iniziata e già bruciata. Pre, cruise, resort, holiday, termini che ai più non dicono niente, sono tutte le collezioni di vestiti e accessori che finora hanno moltiplicato il tempo cronologico, raddoppiato il calendario, inventando stagioni inesistenti per riempire i buchi tra autunno e primavera, estate e inverno. Guardaroba limitati e preziosi, destinati a catturare chi ha i mezzi per sfuggire al tempo meteorologico e col freddo vola al caldo e col caldo cerca la neve.

Collezioni trans-stagionali che hanno ridotto a una linea orizzontale anche i picchi del nostro desiderio: tutto, e nuovo, è stato sempre a disposizione, a dispetto del clima e del mese, pellicce e costumi, privandoci - sia chi può comprare sia chi si limita a sfogliare la pubblicità - del tempo impagabile dell’attesa e della sorpresa.
Ma adesso che i viaggi, nella crudele democratizzazione dell’emergenza, sono cancellati e in un futuro prossimo saranno comunque limitati, soppesati, centellinati?


Giorgio Armani ha scelto due verbi: rallentare e riallineare, uno conseguenza dell’altro. Ovvero, tagliare la moltiplicazione di collezioni, spezzare il ritmo perverso che la fast fashion, con la produzione pressochè settimanale di prodotti a basso costo e con altissime devastazioni ambientali, ha imposto anche ai brand del lusso, obbligati a coprire ogni spazio temporale con un prodotto fintamente nuovo, con varianti minimali, per non essere spiazzata dai grandi magazzini, senza che i consumatori in realtà lo richiedano. Ritmi forsennati che gonfiano la spettacolarità delle sfilate, spesso per mascherare la latitanza delle idee.

Tornare ai ritmi normali e al susseguirsi delle stagioni. Al tempo “vuoto” per apprezzare la qualità e i dettagli di un acquisto, per pensarlo e aspettarlo. Restituire, anche a chi il prodotto lo crea, il tempo per guardarsi intorno e saperlo interpretare. Un tempo “lungo”, come quello ritrovato in questi mesi, che ha a che fare con stabilità, affidabilità, durata. Tutte parole che il senso del tempo lo contengono.

sabato 18 aprile 2020

L'INTERVISTA

Gianfanco Calligarich e Vittorio Bottego
"Una statua, un'amica, Roma di notte
così ho incontrato l'esploratore..."


Lo scrittore triestino Gianfranco Calligarich
 



“Meglio la guerra, meglio i bombardamenti”. Nel piccolo appartamento romano, che definisce la sua tana e la sua fortezza, Gianfranco Calligarich, scrittore e sceneggiatore triestino nato ad Asmara, si gode il nuovo successo del suo libro del 1973, “L’ultima estate in città”, che folgorò Natalia Ginzburg dopo una notte di lettura senza sosta e vinse quell’anno il Premio Inedito.

Pubblicato da Garzanti, riscoperto da Aragno e poi da Bompiani nel 2016, oggi vive una seconda giovinezza con l’edizione in audiolibro, letto dallo stesso autore. “Meglio la guerra, certo”, dice Calligarich. Quella, almeno, la vedevi e potevi cercare scampo e conforto in una cantina o tra le braccia del tuo prossimo. Non è più così. Il solo conforto che al momento puoi trovare è in una forzata solitudine, che ti chiude in casa a guardare la televisione, sperando di non entrare a far parte del numero dei contagiati e dei morti. Non granché, come prospettiva, ma è così”.
 
Anche il virus è una guerra... "Durante la seconda guerra mondiale, tornati dall’Africa, con la mia famiglia, mia madre e i miei fratelli di tredici e dieci anni, abitavamo a Milano, al quinto piano di un vecchio palazzo senza ascensore davanti al parco Sempione. Aspettavamo che la guerra finisse e che mio padre tornasse a casa. Era prigioniero degli inglesi in una zona del deserto egiziano chiamata dei laghi amari, per le immense pozze che trasudavano dalla sabbia, data la vicinanza del mare di Suez. Quando suonavano le sirene dei bombardamenti tutti gli abitanti del palazzo, che era come una grande famiglia suddivisa in piani, si rifugiavano nelle cantine. I vecchi con i vecchi, le donne con le donne, molte con i figli piccoli in braccio, senza per questo rinunciare ad abbracciarsi, a stringersi. Erano momenti terrorizzanti, ma c’era una grande solidarietà umana, perchè il pericolo si vedeva: le bombe che cadevano dal cielo. Col coronavirus è esattamente il contrario. Se la guerra univa, il virus divide. E al tuo prossimo non puoi nenanche dargli la mano perchè la stretta potrebbe, silenziosamente, uccidervi. Il massimo che puoi fare, quando nelle strade deserte incroci qualcuno che conosci, è dirgli buongiorno da dietro una mascherina. E lui, il tuo prossimo, ti risponderà buongiorno nello stesso modo, anche lui dietro una mascherina, per poi affrettare il passo lasciandoti soltanto la vista della sua schiena. Per questo dico: meglio la guerra".

Intanto: Callìgarich o Calligàrich? "L’accento sul mio cognome ha una storia antica. Mio nonno, vecchio asburgico, chiamava noi nipoti ragazzini alla sua poltrona per chiederci come ci chiamassimo. Noi che sapevamo cosa voleva rispondevamo sempre Callìgarich a differenza dei nostri padri che, ormai italianizzati, avevano scelto Calligàrich. Poi, crescendo, e nella usuale contestazione dei padri, abbiamo tutti scelto di schierarci col nonno". 



Che effetto le ha fatto prestare la sua voce a “L’ultima estate in città”? "Un effetto strano. È stato come entrarci dentro da visitatore non pagante.
Da clandestino, da spia... E con la sensazione che i personaggi da un momento all’altro volessero arrestarmi". 

Mezzo secolo dopo, questo romanzo piace ancora. Lo definiscono un “cult”: che cosa vuol dire? "Non lo so. Quello che so è che in tutti questi anni ogni tanto qualcuno mi scriveva, o mi telefonava, o compariva su Facebook dicendo che lo aveva trovato, letto e che era stato colpito al cuore. Negli anni si erano formati anche dei gruppi di lettura e in alcuni casi con gente che parlava usando certe frasi del libro, come “alzare le vele” per dire andare via, o “sfinocchiato” per dire che qualcuno non si sentiva bene, o “da Sant’uffizio” quando subiva qualche duro castigo. È una storia che riguarda la malinconia che può avere la giovinezza, credo tutto sia dipeso da questo". 





Lei ha pronto un nuovo libro, che in qualche modo la riporta alla terra dove è nato, l’Eritrea…  "Il libro si chiama “Una Vita all’Estremo” ed è la storia di Vittorio Bottego, esploratore in Africa della fine dell’Ottocento e della sua feroce smania di vivere. Smania che lo avrebbe distrutto e, insieme a lui, avrebbe distrutto le vite di tutti quelli che lo hanno incontrato. È un libro di avventura ma anche sostanzialmente esistenziale. Come gli altri miei: perché cos’altro vuoi raccontare se non della vita?".


Com’è incappato in questo esploratore morto giovanissimo? "Nel modo migliore in cui potevo incapparci. Vale a dire accompagnando tutte le notti a casa una amica con cui, diciamo, andavo al cinema. Abitava in una lunga e quasi periferica strada romana dietro la quale c’era una piazzetta dove sostavamo piuttosto a lungo per darci la buonanotte e vagamente infastiditi dalla presenza di un monumento di bronzo con un militare che puntava il fucile verso la notte. Era una terza presenza che in qualche modo ci disturbava, per cui una notte sono andato a leggere il suo nome alla base del monumento. Vittorio Bottego. Nome che non mi diceva niente, così il giorno dopo ho cominciato a fare delle ricerche sul web finchè ho scoperto che era un avventuroso esploratore africano. Allora ho comprato una sua biografia scoprendo che era un personaggio straordinario a tal punto che ci ho scritto un libro". 



 
Vittorio Bottego (1860-1897)




Immaginiamo una lettera da aggiungere alla sua raccolta di racconti Posta prioritaria. Una lettera sulla quarantena. Chi la firmerebbe? "Ho solo un nome da fare, Albert Camus che ha scritto La Peste. Ma non sarebbe necessario resuscitarlo, basta leggere i giornali di questi giorni".


E una persona comune scriverebbe..."Sulla mascherina. La lettera di una ragazza che vuole rompere col fidanzato perché lui pretende di baciarla senza togliersela".


Che cosa le manca di più in queste giornale di clausura forzata? "Diverse cose. Gli amici con cui vedere le partite (che non ci sono più), gli amici chiusi in casa anche loro davanti alla televisione a misurare l’immane disastro in cui siamo precipitati, ma che l’uomo ha sciaguratamente voluto. E poi le passeggiate notturne lungo il Tevere (che scorre, gira per la città e nessuno può fermarlo e multarlo), la colazione al bar la mattina con il caffè e la lettura dei giornali (che comunque col corona virus è meglio non leggerli) ". 


La consola che cosa? "Gli animali che lasciano le loro tane liberi di andarsene dove vogliono a cercare da mangiare. I cervi che escono sui campi da golf deserti, i cinghiali che percorrono le strade libere dei gas delle auto. C’è solo una domanda da farsi, gli uomini stanno finalmente comprendendo di avere distrutto il pianeta? Qualcosa mi dice di no".


Secondo lei, quando torneremo alla normalità, riusciremo a vivere più lentamente? "Non so se saremo così saggi da apprezzare la lentezza, ma forse il mondo lo sarà per forza indipendentemente dall’uomo e da tutti i suoi sciagurati tentativi di distruggerlo".

 C’è un libro che rilegge in queste giornate e perché?  "Sto leggendo per l'ennesima volta i 49 Racconti di Hemingway. Che sono inarrivabili. Le cose più straordinarie che ha scritto".

E invece la prossima storia che ha in mente? "Quella di un vecchio uomo che di notte scende nella bellissima strada romana dove abita per portare a spasso i suoi due cani e intanto ripensa a tutta la sua vita. Infatti si chiamerà Passeggiata con i Cani".
 

Ha paura? "Stando chiuso in casa? Vivo da solo in un seminterrato di quaranta metri quadrati tutti occupati da libri e quadri di amici pittori e con due grandi finestre sul bellissimo giardino condominiale di un bellissimo palazzo anni Trenta. Scrivo, e questo in qualche misura mi aiuta a pensare anche ad altro. Scrivere è pur sempre il miglior rifugio che ho a disposizione".

Lei vive da tanti anni a Roma. Come vede Trieste da lontano? "Più che vederla la sento. Sento, le sue voci nei bar all’aperto, sento il rumore del mare che a Trieste è nascosto ma ti racconta vecchie e stupende storie austrungariche come quelle di Roth. Però anche la vedo. Vedo il monumento di Saba sul marciapiede, vedo i vecchi caffè dove andava mio nonno e che ho messo all’inizio de La Malinconia dei Crusich che è la storia della mia famiglia lunga tutto il Novecento, vedo…"
twitter@boria_a

martedì 7 aprile 2020

MODA & MODI

La soluzione terapeutica di scendere dai plateau 




Plateau? Non è più la piattaforma delle scarpe dal tacco impossibile, ma la terra piatta che segna il progredire orizzontale del contagio. Mai come in questi giorni abbiamo sentito pronunciare una delle parole consuete della moda. Con un altro significato, che non ha niente a che fare con lo svettare, con l’alzarsi ad altezze impossibili e allungarci oltre le nostre naturali proporzioni. Il plateau di cui parlano gli esperti, ci riporta a terra, con i piedi ben piantati, e ci fa tirare un sospiro di sollievo: se continua a estendersi, ci lasceremo alle spalle i picchi e torneremo un poco alla volta a toccare il suolo con un pizzico di fiducia nel futuro.

Sono tante le parole che, sull’onda dell’emergenza, si fanno largo nel nostro linguaggio quotidiano con diversi significati. E anche il vocabolario e i tempi della moda attraversano uno tsunami. Le curve per la prima volta ci spaventano e ne seguiamo l’andamento con ansia, al di là delle taglie poco frequenti sulle passerelle e delle misure degli angeli di Victoria’s Secret. Gli aggettivi ripetuti per inerzia, it, hot, cool, must have, sono evaporati improvvisamente dalla comunicazione (o se rimangono, appesi a qualche sito, sembrano intrusi), perché gli oggetti del desiderio al momento sono in quarantena nei magazzini dei negozi e ne usciranno cambiati, almeno nella nostra percezione, o forse salteranno una stagione per riproporsi il prossimo anno.


La moda contraddice dunque uno dei suoi imperativi: rendere tutto, subito, vecchio e deperibile, per farci desiderare il nuovo. Nella misura del tempo di appena pochi mesi fa, dire “è dell’anno scorso”, riferito a un abito o a un accessorio, sembrava segnare un’era geologica, quasi ammettere una colposo ritardo di gusto e di attenzione estetica.


Congelare il calendario, varare l’anno zero di una produzione più umana, nell’emergenza è necessario per salvare la filiera economica. Ma quest’ipotesi, prima impensabile, ora ci fa riflettere su un modello forsennato di consumo che correva verso lo schianto, con guadagni altissimi ma altrettanti costi ambientali e umani, sprechi, sfruttamento. La crescita infinita si è inceppata, traballa come su un tacco troppo alto. Forse scendere dai plateau, smetterla di voler salire, questa volta è davvero terapeutico.

@boria_a

domenica 5 aprile 2020

L'INTERVISTA (21 NOVEMBRE 2003, Il Piccolo)

Ezio Vendrame: una vita presa a calci
Il sesso, le donne, gli incontri: tutto cominciava quando finiva la partita... 





«Non sei un giornalista sportivo? Meglio».
Ezio Vendrame lo chiarisce alla prima battuta: il calcio è un capitolo chiuso, da tanto tempo. Non allena nemmeno più i giovanissimi, quelli che faceva giocare sempre tutti, perchè quando uno mette se stesso fino in fondo dietro a un pallone, senza risparmiarsi, non può rimanere in panchina.


Eppure è proprio il calcio, il suo passato di giocatore-contro, insieme al sesso e ad alcuni amici che gli hanno squarciato la vita come fulmini, a riempire le pagine dell'ultimo libro, «Vietato alla gente perbene» (pagg. 149, euro 12,00, Biblioteca dell'Immagine).



Memorie autobiografiche, ancora una volta, un seguito a «Se mi mandi in tribuna, godo» altrettanto dissacrante, provocatorio, gonfio di quella disperata vitalità che era del suo conterraneo, Pier Paolo Pasolini.


Ezio Vendrame, nato a Casarsa della Delizia, classe 1947. Di lui dicevano che sarebbe stato il più grande talento calcistico degli anni Settanta, se non fosse stato così matto, parola di Nereo Rocco. Che aveva due piedi come stradivari, un fantasista naturale, ma troppo insofferente alle regole, agli schemi, all'ottusità di un certo calcio. Quel calcio che a lui, bambino senza affetti cresciuto in collegio, aveva offerto una via di fuga, la possibilità di bucare il cielo, ma che non volle mai far diventare un mestiere. Interruppe una partita, all'Appiani di Padova, perchè in tribuna aveva visto Piero Ciampi, il cantautore poeta che visse fino a morirne e che Vendrame amò disperatamente fino alla fine. Perchè non c'è partita, dice, che regga un incontro, o anche solo l'attesa di un incontro.

Perchè la decisione di non allenare più i ragazzini? «Pensavo che il settore giovanile fosse un'isola. E ho dovuto constatare con delusione, amarezza, sconforto, che non c'è rispetto per i ragazzi. Invece di farli divertire, di fargli prendere il calcio come un gioco, gli si chiede solo il risultato, così i grandi si identificano in quello e basta. Secondo me, manca la cultura di insegnare loro che il calcio è solo un gioco, una piccola cosa della vita».

La cultura di saper perdere. «Certo, perchè allora sapranno abituarsi anche alle sconfitte del quotidiano, alle quali la vita ti sottopone sempre, quando poi si diventa grandi. Se uno sa che ha la coscienza a posto, che ha dato tutto, deve sapere accettare il risultato. E star male se perde la stima di una persona che lo ama, se perde un affetto, non per le cose piccole così... Invece. ..».

Lei lo dice sempre, anche nel libro precedente. «Dappertutto, ma tanto io sono un folle, che non bisogna ascoltare».

Quando faceva il calciatore perdere non era un dramma? «Non me ne fotteva proprio un cazzo. Noi italiani, senza generalizzare, siamo una razza strana. Forse la gente fa poco l'amore. Io non darei mai da allenare i ragazzi a uno che nella vita ha scopato poco, perchè senz'altro è rigido, non sa rapportarsi con loro, non è solare. Il calcio, anche per i tifosi, dovrebbe essere una delle tante piccole gioie della vita. Se uno ha delle alternative, la lettura, il cinema, un teatro, la famiglia, un'amante, una morosa, un amico... anche il calcio assume una proporzione corretta. Se invece punta tutto lì, arrivano i problemi».




Nel libro scrive: «prima o poi per tutti i calciatori viene il momento in cui il pallone si sgonfia». Per Vendrame questo momento quando è arrivato? «Da subito. L'ho sgonfiato io, non ho aspettato che succedesse. Sono sempre stato me stesso anche quando giocavo a livello di serie A, non ho mai lasciato il telecomando della mia vita in mano agli altri. Ho sempre fatto quello che ho voluto, non mi sono mai fatto mettere paletti, nè dal calcio nè da altre cose. Ho scelto io, anche sbagliando, ma io, e basta».

Le piaceva il calcio, non fare il calciatore. I suoi tifosi hanno capito questa differenza? «Ma certo, mi hanno amato soprattutto per questo. Nonostante non sia più andato a vedere una partita, perchè non mi interessa, non seguo neppure il calcio in televisione, sento che ho tantissima gente che mi vuol bene. Al di là del calcio, evidentemente sono riuscito a trasmettere altre cose. Senza presunzione, perchè non me ne fotte niente del giudizio delle masse, anzi spero sempre sia contrario al mio, ho vissuto con coerenza, sono stato vero, anche se dopo diventava un boomerang. Io sono miliardario, ho dei conti in banca dentro nel costato... Dipende dai valori che uno dà alla propria esistenza».

Adesso il calcio non lo segue più... «Non adesso, da sempre». Un capitolo chiuso, che però riempie i suoi libri di ricordi... «Questo libri sono un po'... anzi sono tanto "marchette". Io amo la poesia, che però purtroppo arriva a pochi. Allora, con queste - chiamiamole - "marchette", che la gente compra, perchè il primo libro ha venduto trentamila copie e questo si presume di più, io cosa faccio? Li frego tutti. Scrivo un libro di poesia, gli metto un titolo da porci e li costringo a leggere. Voglio tentare di fregarli, ma sulla poesia, che poi non è fregarli, è aprirgli una finestra su una delle cose più belle che esistono al mondo».

Strano modo di parlare di un proprio libro, chiamarlo «marchetta». «E sono anche un po' esagerate... Ma, a pensarci bene, fino a un certo punto, ne ho fatte di peggio e non ho rimpianti, anzi rimpiango proprio le cose peggiori, quelli che per gli altri sono i cosiddetti "sbagli", e invece sono le cose più belle della mia vita. Perchè ci sono le lune nel cielo, ma ci sono le lune anche sui marciapiedi, quelle che sento più vicine a me».

Perchè il suo ricordo più bello è il triplice fischio che chiudeva le partite? «Perchè non ce la facevo più. Il calcio, almeno quello che intendevo io, ti dà emozioni, trasmette emozioni. Ma dopo, quando arrivi nel calcio che conta, ti accorgi che è stato un sogno, devi convivere con personaggi di una mediocrità allucinante, dipendi da loro. Sembra che, cazzo, se uno gioca al calcio, è tornato in collegio, alle dieci deve essere a casa, e guai così, guai colì. Una cosa bella non può essere soffocata, io non l'ho accettato. Non vedevo l'ora di uscirne».

Ma momenti belli ce ne saranno pur stati. «Tantissimi. A cominciare, appunto, da quel triplice fischio, che mi permetteva di dare sfogo a tutte le mie esigenze, agli incontri. Per me gli incontri sono sacri, perchè è solo incontrando qualcuno che abbiamo la possibilità di amare. Io sono stato fortunato: ho incontrato poeti, musicisti, persone che mi hanno dato un mondo e io in quello mi sono identificato. E più conoscevo determinate persone, più mi staccavo da quello che inizialmente doveva essere il mio mondo». Di lei, però, si citano sempre le stramberie. «Perchè la gente si accontenta di poco».

Invece che cosa vorrebbe che ricordassero? «Mah, le cose che fa loro comodo. Se mi hanno visto con una gallina al guinzaglio e gli piace ricordarmi così, va bene. Che si tengano l'immagine più giusta per loro, anche se non è vera, perchè su personaggi come me è facile costruire storie».

NeL libro definisce Zigoni «l'ultimo onesto», perchè difende il calcio dei vostri tempi. Era davvero così? «Zigoni è un furbacchione, una persona a cui voglio molto bene, ma essere furbacchioni non significa essere coglioni. Dove c'è denaro e dove c'è la possibilità di facili guadagni non ci può essere pulizia. Diventa utopico. A volte mi meraviglio soltanto di chi si meraviglia. E' sempre stato così e l'essere umano è talmente debole».

A un certo punto nella sua vita entra Piero Ciampi, un poeta, un cantautore per tanti ancora sconosciuto... «Meglio che resti così, che sia arrivato a pochi, a dei prediletti».

Come lo racconterebbe quest'incontro? «E' stata una folgorazione, lui era il mio Cristo. Evidentemente io ero predisposto, ero già minato. Quest'incontro mi ha devastato. E se già mi importava poco del calcio, dopo non me ne importava proprio più neinte. Ho cercato di viverlo fino all'ultimo respiro». 

Cos'ha cambiato nella sua vita? «Tutto, mi ha arricchito di tante cose, mi ha fatto capire cos'è l'amore, l'amore per gli altri, per se stessi. Che non è importante avere delle cose, perchè le cose non sono importanti, che dobbiamo vivere. Già trent'anni fa Piero diceva all'uomo di allora che c'era troppa voglia di apparire, di essere qualcuno. "Tu che vuoi essere qualcuno perchè temi di non essere nessuno, abbi almeno pietà per te stesso", così diceva. I rapporti umani vanno vissuti con intensità, gli incontri, le attese, le assenze. Queste cose sono tutto. Se a uno invece per essere felice basta che la sua squadra del cuore abbia vinto, non lo critico, ma si perde tanto nella vita».

 Oggi questa stessa dolcezza è per Federico Tavan, il poeta di Andreis. «Federico, lo adoro. Per me il più grande poeta in assoluto, anche più grande di Pasolini. Il più grande poeta italiano vivente, e forse di più. Lo sarebbe stato anche se non avesse mai scritto una riga, perchè vive da poeta e in questo è già un fuoriclasse, uno che fa la differenza. Una persona normale che scrive bene arriva fino a un certo punto, lui ti scappa oltre. Con una semplicità...».

 Il libro finisce in modo triste. Perchè si definisce un «ex» di tutto? «Ex di tutto significa che hai vissuto intensamente, che hai attraversato tutto il mondo delle emozioni. E' un po' il termine di una vita, c'è stanchezza e anche delusione. Quando poi parti zoppicando da lontano, quando da piccolo ti è mancato qualcosa, dopo zoppichi tutta la vita. Scrivo che mi piacerebbe vivere dentro un quadro di Chagall, perchè mi sento estraneo a questa rincorsa che vedo, a questa fretta di accumulare. Una conclusione riflessiva. Mi piace che la gente non si limiti a leggere delle scopate».

C'è un'esperienza che ancora le manca? «Tutte. Vorrei ricominciare da capo, non sono mai sazio di niente».

sabato 4 aprile 2020

IL LIBRO



Ocean Vuong, dal Vietnam all'America
il cammino doloroso e luminoso della libertà 





C’è un capitolo lancinante all’inizio di “Brevemente risplendiamo sulla terra”, il romanzo d’esordio di Ocean Vuong, best seller per il New York Times, che lo lancia come il nuovo capolavoro della letteratura americana, in corso di traduzione in ventun paesi.

Ocean Vuong


È domenica mattina a Hartford, nel Connecticut, e Ocean, che all’epoca ha dieci anni e nel libro si chiama Little Dog (perchè il nome di un cagnolino poco desiderabile, vuole la leggenda vietnamita, terrà alla larga gli spiriti maligni che rapiscono i bambini), accompagna la mamma nel centro estetico dove lavora. Rose è giovane, ma ha già i legamenti gonfi per l’artrite, occhi, pelle, fegato aggrediti dagli acidi, lo smalto smozzicato.


Entra una cliente anziana e Little Dog l’aiuta ad accomodarsi nella poltrona della pedicure. Sotto i pantaloni, la donna nasconde una protesi e sotto la protesi un moncherino brunastro. La sua è una preghiera quasi muta, rivolta alla giovane immigrata ingobbita sopra i suoi piedi, che sa pronunciare solo frasi indispensabili ad accompagnare gesti sempre uguali, ma capisce con gli occhi un bisogno. E Rose l’accontenta: massaggia dove la gamba non c’è più, asciuga un piede fantasma, evoca con la memoria muscolare i contorni fisici di una mancanza, come un direttore d’orchestra rende plastico un suono.


È un breve episodio di questo memoir che toglie il fiato, scritto in forma di lettera da Vuong alla madre: viscerale, doloroso, disperatamente sincero perchè lei, semianalfabeta e incapace di parlare l’inglese, non potrà mai leggerlo (“Ti scrivo per avvicinarmi a te, anche se ogni parola che butto giù è una parola in più che ci allontana”).


Dentro il centro estetico, in quella domenica di tante che immaginiamo desolata e vuota, srotolata tra le rotonde dei centri commerciali e i cavalcavia, Vuong ci dice già tutto di sè, di loro: il rapporto simbiotico tra madre e figlio, fatto di intimità ma anche di scoppi di violenza, l’accudimento reciproco (“mi sono spogliato della nostra lingua e ho indossato il mio inglese come una maschera in modo che gli altri potessero vedere il mio viso, e così anche il tuo”), la gentilezza e il dolore, il prezzo di un sogno di riscatto che si incide inesorabilmente sul corpo (“la consapevolezza calcificata di cosa significa svegliarsi con ossa americane, con o senza cittadinanza, ossa indolenzite, tossiche e sottopagate”). La fragilità di lei, che soffre di stress post-traumatico e lo picchia - “aiutami Little Dog, aiutami a restare giovane, a sciogliere questa neve dalla mia vita” - il percorso di lui, che in quel paese, che mastica e sputa gli emarginati, riesce a studiare, cresce, rivendica la sua identità, anche sessuale, contro tutti i pregiudizi.



Ciao Ma’, scrive Little Dog, a quella donna che non parla, non esiste. E pagina dopo pagina racconta la storia della sua famiglia, arrivata dal Vietnam negli Stati Uniti nei primi anni Novanta. La nonna Lan, orchidea, scappata da un matrimonio combinato e poi costretta a vendersi ai soldati americani. La mamma Rose, dalla pelle pallida, nata da uno di quei rapporti mercenari, che a suo figlio fa bere bicchieri di latte per trasformarlo in Superman, capace di vincere ogni ostacolo, latte bianco, del colore che a lei, in Vietnam, i bambini volevano tirare fuori dalla pelle e che in America non basta per essere una di loro. 


Poi l’incontro con Trevor, da cui Little Dog imparerà che c’è «ancora qualcosa di più brutale e assoluto del lavoro», il coetaneo che passa dagli antidolorifici all’eroina, per cui l’omosessualità è qualcosa da cui si può uscire, per tornare a essere normali, anche lui masticato e sputato. Da questo amore, il primo che Little Dog conosce al di fuori della famiglia, dalla scoperta del sesso e del desiderio, comincia il suo percorso di libertà.



Renditi invisibile, gli diceva la madre, “già sei vietnamita”. E invece Little Dog sembra gridare in questo libro e rivendicare il suo diritto all’amore, alla libertà, alla felicità con parole che sono le stesse della sua poesia (con la raccolta “Cielo notturno con fori d’uscita”, in Italia pubblicata da La nave di Teseo, Vuong ha vinto l’Eliot Prize e il Whiting Award) e che nella prosa si gonfiano, dilagano, si alzano. E rendono straordinarie vite altrimenti invisibili, senza parole, facendole splendere, anche se brevemente. 

@boria_a