domenica 5 aprile 2020

L'INTERVISTA (21 NOVEMBRE 2003, Il Piccolo)

Ezio Vendrame: una vita presa a calci
Il sesso, le donne, gli incontri: tutto cominciava quando finiva la partita... 





«Non sei un giornalista sportivo? Meglio».
Ezio Vendrame lo chiarisce alla prima battuta: il calcio è un capitolo chiuso, da tanto tempo. Non allena nemmeno più i giovanissimi, quelli che faceva giocare sempre tutti, perchè quando uno mette se stesso fino in fondo dietro a un pallone, senza risparmiarsi, non può rimanere in panchina.


Eppure è proprio il calcio, il suo passato di giocatore-contro, insieme al sesso e ad alcuni amici che gli hanno squarciato la vita come fulmini, a riempire le pagine dell'ultimo libro, «Vietato alla gente perbene» (pagg. 149, euro 12,00, Biblioteca dell'Immagine).



Memorie autobiografiche, ancora una volta, un seguito a «Se mi mandi in tribuna, godo» altrettanto dissacrante, provocatorio, gonfio di quella disperata vitalità che era del suo conterraneo, Pier Paolo Pasolini.


Ezio Vendrame, nato a Casarsa della Delizia, classe 1947. Di lui dicevano che sarebbe stato il più grande talento calcistico degli anni Settanta, se non fosse stato così matto, parola di Nereo Rocco. Che aveva due piedi come stradivari, un fantasista naturale, ma troppo insofferente alle regole, agli schemi, all'ottusità di un certo calcio. Quel calcio che a lui, bambino senza affetti cresciuto in collegio, aveva offerto una via di fuga, la possibilità di bucare il cielo, ma che non volle mai far diventare un mestiere. Interruppe una partita, all'Appiani di Padova, perchè in tribuna aveva visto Piero Ciampi, il cantautore poeta che visse fino a morirne e che Vendrame amò disperatamente fino alla fine. Perchè non c'è partita, dice, che regga un incontro, o anche solo l'attesa di un incontro.

Perchè la decisione di non allenare più i ragazzini? «Pensavo che il settore giovanile fosse un'isola. E ho dovuto constatare con delusione, amarezza, sconforto, che non c'è rispetto per i ragazzi. Invece di farli divertire, di fargli prendere il calcio come un gioco, gli si chiede solo il risultato, così i grandi si identificano in quello e basta. Secondo me, manca la cultura di insegnare loro che il calcio è solo un gioco, una piccola cosa della vita».

La cultura di saper perdere. «Certo, perchè allora sapranno abituarsi anche alle sconfitte del quotidiano, alle quali la vita ti sottopone sempre, quando poi si diventa grandi. Se uno sa che ha la coscienza a posto, che ha dato tutto, deve sapere accettare il risultato. E star male se perde la stima di una persona che lo ama, se perde un affetto, non per le cose piccole così... Invece. ..».

Lei lo dice sempre, anche nel libro precedente. «Dappertutto, ma tanto io sono un folle, che non bisogna ascoltare».

Quando faceva il calciatore perdere non era un dramma? «Non me ne fotteva proprio un cazzo. Noi italiani, senza generalizzare, siamo una razza strana. Forse la gente fa poco l'amore. Io non darei mai da allenare i ragazzi a uno che nella vita ha scopato poco, perchè senz'altro è rigido, non sa rapportarsi con loro, non è solare. Il calcio, anche per i tifosi, dovrebbe essere una delle tante piccole gioie della vita. Se uno ha delle alternative, la lettura, il cinema, un teatro, la famiglia, un'amante, una morosa, un amico... anche il calcio assume una proporzione corretta. Se invece punta tutto lì, arrivano i problemi».




Nel libro scrive: «prima o poi per tutti i calciatori viene il momento in cui il pallone si sgonfia». Per Vendrame questo momento quando è arrivato? «Da subito. L'ho sgonfiato io, non ho aspettato che succedesse. Sono sempre stato me stesso anche quando giocavo a livello di serie A, non ho mai lasciato il telecomando della mia vita in mano agli altri. Ho sempre fatto quello che ho voluto, non mi sono mai fatto mettere paletti, nè dal calcio nè da altre cose. Ho scelto io, anche sbagliando, ma io, e basta».

Le piaceva il calcio, non fare il calciatore. I suoi tifosi hanno capito questa differenza? «Ma certo, mi hanno amato soprattutto per questo. Nonostante non sia più andato a vedere una partita, perchè non mi interessa, non seguo neppure il calcio in televisione, sento che ho tantissima gente che mi vuol bene. Al di là del calcio, evidentemente sono riuscito a trasmettere altre cose. Senza presunzione, perchè non me ne fotte niente del giudizio delle masse, anzi spero sempre sia contrario al mio, ho vissuto con coerenza, sono stato vero, anche se dopo diventava un boomerang. Io sono miliardario, ho dei conti in banca dentro nel costato... Dipende dai valori che uno dà alla propria esistenza».

Adesso il calcio non lo segue più... «Non adesso, da sempre». Un capitolo chiuso, che però riempie i suoi libri di ricordi... «Questo libri sono un po'... anzi sono tanto "marchette". Io amo la poesia, che però purtroppo arriva a pochi. Allora, con queste - chiamiamole - "marchette", che la gente compra, perchè il primo libro ha venduto trentamila copie e questo si presume di più, io cosa faccio? Li frego tutti. Scrivo un libro di poesia, gli metto un titolo da porci e li costringo a leggere. Voglio tentare di fregarli, ma sulla poesia, che poi non è fregarli, è aprirgli una finestra su una delle cose più belle che esistono al mondo».

Strano modo di parlare di un proprio libro, chiamarlo «marchetta». «E sono anche un po' esagerate... Ma, a pensarci bene, fino a un certo punto, ne ho fatte di peggio e non ho rimpianti, anzi rimpiango proprio le cose peggiori, quelli che per gli altri sono i cosiddetti "sbagli", e invece sono le cose più belle della mia vita. Perchè ci sono le lune nel cielo, ma ci sono le lune anche sui marciapiedi, quelle che sento più vicine a me».

Perchè il suo ricordo più bello è il triplice fischio che chiudeva le partite? «Perchè non ce la facevo più. Il calcio, almeno quello che intendevo io, ti dà emozioni, trasmette emozioni. Ma dopo, quando arrivi nel calcio che conta, ti accorgi che è stato un sogno, devi convivere con personaggi di una mediocrità allucinante, dipendi da loro. Sembra che, cazzo, se uno gioca al calcio, è tornato in collegio, alle dieci deve essere a casa, e guai così, guai colì. Una cosa bella non può essere soffocata, io non l'ho accettato. Non vedevo l'ora di uscirne».

Ma momenti belli ce ne saranno pur stati. «Tantissimi. A cominciare, appunto, da quel triplice fischio, che mi permetteva di dare sfogo a tutte le mie esigenze, agli incontri. Per me gli incontri sono sacri, perchè è solo incontrando qualcuno che abbiamo la possibilità di amare. Io sono stato fortunato: ho incontrato poeti, musicisti, persone che mi hanno dato un mondo e io in quello mi sono identificato. E più conoscevo determinate persone, più mi staccavo da quello che inizialmente doveva essere il mio mondo». Di lei, però, si citano sempre le stramberie. «Perchè la gente si accontenta di poco».

Invece che cosa vorrebbe che ricordassero? «Mah, le cose che fa loro comodo. Se mi hanno visto con una gallina al guinzaglio e gli piace ricordarmi così, va bene. Che si tengano l'immagine più giusta per loro, anche se non è vera, perchè su personaggi come me è facile costruire storie».

NeL libro definisce Zigoni «l'ultimo onesto», perchè difende il calcio dei vostri tempi. Era davvero così? «Zigoni è un furbacchione, una persona a cui voglio molto bene, ma essere furbacchioni non significa essere coglioni. Dove c'è denaro e dove c'è la possibilità di facili guadagni non ci può essere pulizia. Diventa utopico. A volte mi meraviglio soltanto di chi si meraviglia. E' sempre stato così e l'essere umano è talmente debole».

A un certo punto nella sua vita entra Piero Ciampi, un poeta, un cantautore per tanti ancora sconosciuto... «Meglio che resti così, che sia arrivato a pochi, a dei prediletti».

Come lo racconterebbe quest'incontro? «E' stata una folgorazione, lui era il mio Cristo. Evidentemente io ero predisposto, ero già minato. Quest'incontro mi ha devastato. E se già mi importava poco del calcio, dopo non me ne importava proprio più neinte. Ho cercato di viverlo fino all'ultimo respiro». 

Cos'ha cambiato nella sua vita? «Tutto, mi ha arricchito di tante cose, mi ha fatto capire cos'è l'amore, l'amore per gli altri, per se stessi. Che non è importante avere delle cose, perchè le cose non sono importanti, che dobbiamo vivere. Già trent'anni fa Piero diceva all'uomo di allora che c'era troppa voglia di apparire, di essere qualcuno. "Tu che vuoi essere qualcuno perchè temi di non essere nessuno, abbi almeno pietà per te stesso", così diceva. I rapporti umani vanno vissuti con intensità, gli incontri, le attese, le assenze. Queste cose sono tutto. Se a uno invece per essere felice basta che la sua squadra del cuore abbia vinto, non lo critico, ma si perde tanto nella vita».

 Oggi questa stessa dolcezza è per Federico Tavan, il poeta di Andreis. «Federico, lo adoro. Per me il più grande poeta in assoluto, anche più grande di Pasolini. Il più grande poeta italiano vivente, e forse di più. Lo sarebbe stato anche se non avesse mai scritto una riga, perchè vive da poeta e in questo è già un fuoriclasse, uno che fa la differenza. Una persona normale che scrive bene arriva fino a un certo punto, lui ti scappa oltre. Con una semplicità...».

 Il libro finisce in modo triste. Perchè si definisce un «ex» di tutto? «Ex di tutto significa che hai vissuto intensamente, che hai attraversato tutto il mondo delle emozioni. E' un po' il termine di una vita, c'è stanchezza e anche delusione. Quando poi parti zoppicando da lontano, quando da piccolo ti è mancato qualcosa, dopo zoppichi tutta la vita. Scrivo che mi piacerebbe vivere dentro un quadro di Chagall, perchè mi sento estraneo a questa rincorsa che vedo, a questa fretta di accumulare. Una conclusione riflessiva. Mi piace che la gente non si limiti a leggere delle scopate».

C'è un'esperienza che ancora le manca? «Tutte. Vorrei ricominciare da capo, non sono mai sazio di niente».

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