martedì 29 gennaio 2019

LA MOSTRA E IL LIBRO

 Roberto Capucci e Massimo Gardone, alchiminia nel segno dei fiori




Roberto Capucci e Massimo Gardone fotografati da Giuliano Koren



Colori, forme, matite, obiettivi (fotografici). Gli abiti di Roberto Capucci e le immagini di Massimo Gardone si incrociano e intercettano in ognuna di queste parole. Da una scultura tessile del grande couturier romano sembra uscire un fiore stilizzato del fotografo, che a Trieste ha il suo Studio Azimut, come se l’uno fosse la prosecuzione dell’altro e tra l’uno e l’altro non ci fosse interruzione, solo diversità di materiali. La mostra “L’atelier dei fiori”, fino al 14 febbraio visitabile ai Musei di Borgo Castello a Gorizia, celebra questa inedita alchimia nel segno dell’astrazione. Perchè gli abiti di Capucci sembrano sculture e le foto di Gardone creature animate: entrambi, quindi, lasciano il mondo floreale, cui si ispirano e che riproducono, per diventare potente e libera espressione di creatività, sempre però sorvegliatissima nel processo di realizzazione.


L'abito di Capucci che ha sfilato alla Galleria d'arte moderna di Roma nel 1989 e, sullo sfondo, l'escolzia interpretata da Gardone


Dalla contaminazione dei linguaggi del sarto e del fotografo sono nati l’esposizione goriziana (che ha avuto un primo assaggio, nel marzo scorso, a Villa Manin, dov’è conservato l’imponente archivio Capucci, con oltre cinquecento “creazioni” tessili e migliaia e migliaia di foto e documenti) e ora il catalogo curato da Raffaella Sgubin (Antiga Edizioni), arricchito dalle schede degli abiti di Enrico Minio Capucci e dalle schede botaniche di Matteo La Civita, su progetto grafico di Francesco Messina. Il catalogo verrà presentato giovedì 31 gennaio, alle 17, al Magazzino delle Idee di Trieste, alla presenza dei due protagonisti di questo speciale e poetico “atelier”.



L'abito Capucci per Valentina Cortese e il ranuncolo fotografato da Gardone


Nel volume, una lunga intervista a Capucci firmata dalla stessa Sgubin - che curò un grandioso allestimento di 110 abiti del maestro, nel 2004, a Palazzo Attems di Gorizia - racconta il rapporto dello stilista con i fiori, da cui vive letteralmente circondato nel suo appartamento con giardino pensile, proteso sul cuore monumentale di Roma. Fiori di ogni specie e colore, che, mediati dall’ispirazione, si trasferiscono e materializzano nei taffetà, mai citati pedissequamente, ma suggeriti dal gioco dei volumi.


Succede come per magia nell’abito “Bocciolo di rosa”, creato da un Capucci ventiseienne nel 1956 per presentarlo alla Sala Bianca di Palazzo Pitti a Firenze, accostato a una rosa di Gardone, i cui petali sembrano nati apposta per riprendere le sovrapposizioni del tessuto. O nell’abito da sera dell’82, un lungo stelo di velluto di viscosa color prugna interrotto da un’infiorescenza di petali di taffetà cangianti, che si sposa col fiore della pianta grassa dai colori cupi di Gardone. O ancora nell’abito dell’87 disegnato da Capucci per l’amica Valentina Cortese, in faille di seta, le cui sfumature rosate dilagano in quelle del ranuncolo, che il fotografo schiude in primo piano davanti agli occhi dello spettatore.



Il cinabro, presentato alla Biennale di Venezia nel 1995, con il papavero


E si potrebbe continuare, in un gioco di affinità elettive, di “osmosi involontarie”, lungo tutto il percorso della mostra, e del libro, punteggiato da venticinque fiori tessili e da venti fiori cartacei. Dice Gardone a Carla Cerutti, che firma un altro dei contributi del catalogo: «È stato tutto naturalissimo e in poche ore abbiamo trovato i perfetti abbinamenti tra i soggetti dei nostri rispettivi lavori. Le similitudini, me ne rendo conto, sono così incredibili che è difficile pensare che non siano stati creati ad hoc, ma che fossero impronte che entrambi avevamo lasciato durante il nostro cammino professionale».



"Primavera", abito di Capucci del 1989, abbinato alla camomilla di Gardone


Così, accanto alle imperiali e molto materiche creature floreali di Capucci, i fiori di Gardone - fotografo dal cuore artistico, che cominciò con le immagini della danza, “seguendo” un’ispirazione genetica trasmessagli dai genitori ballerini, che suona e ama la Polaroid dei suoi primi album di bambino - sembrano ideali compagni di un viaggio, figure eteree e sfumate in un percorso di sensazioni ed emozioni. Sintesi di questo incontro gli abiti fluorescenti del 1956, abbinati agli ellebori. I ricami realizzati con le perline dei rosari si illuminano al buio, in un’esplosione di verde cui fa da quinta la foglia, vera protagonista: una sorpresa, come l’incontro di due sensibilità affini. 

@boria_a
IL LIBRO

Roberto Capucci e il filo dello stupore

“Nove gonne”, “Ventagli”, “Giorgini”. Dietro ogni creazione di Roberto Capucci ci sono storie, ricordi, suggestioni, viaggi, amicizie. Ed è l’amicizia, la conoscenza e l’ammirazione per l’opera del couturier, uno degli ultimi grandi della moda italiana, a sostanziare il libro “Lo scultore della seta. Roberto Capucci, il sublime della moda”, firmato dal giornalista Gian Luca Bauzano, edito da Marsilio nella collana Mestieri d’arte della Fondazione Cologni (pagg. 289, con un importante apparato iconografico). 

Capucci stesso definisce questo compendio “il più completo” realizzato sulla sua carriera, lunga settant’anni, ma anche sui metodi di lavorazione e la sublime artigianalità di ognuna delle sue opere, da tempo ospitate nei musei più importanti del mondo.

Nel 1995 fu invitato alla Biennale di Venezia da Jean Clair con dodici sculture tessili ispirate ai minerali (non senza aspre contestazioni degli artisti), l’anno scorso il suo celebre “Angelo d’oro” ha varcato l’oceano per entrare al Metropolitan di New York nella mostra “Heavenly Bodies. Fashion and the Catholic Imagination”, in dialogo con capolavori dell’arte ecclesiastica e con i tesori del Vaticano. Bauzano ci racconta un’avventura straordinaria dell’estro e della fantasia con il rigore del biografo, ma lasciandosi condurre da stupore ed emozione. E il libro si legge come un romanzo.
@boria_a

mercoledì 23 gennaio 2019

L'INTERVISTA

Eravamo trans cattive, ma favolose










«Ho 61 anni e la prima volta che ho visto delle transessuali ne avevo 9, era un periodo in cui di loro non si sapeva nulla». Porpora Marcasciano, presidente onorario del Movimento per l’identità trans (Mit), sarà mercoledì 23 gennaio 2019  a Trieste per presentare “L’aurora delle trans cattive” (Alegre), alle 18 al Caffè San Marco nell’ambito del progetto “Varcare la frontiera #6”. «Ho cercato - dice - di ricostruire la genealogia di un’esperienza che esiste da che mondo è mondo, ma che è sempre stata vittima di una rimozione storica. E l’ho fatto attraverso la mia testimonianza, attraverso una narrazione personale di luoghi e situazioni. Provando a non dare certezze, ma a porre domande a chi legge, perchè solo così ci si incuriosisce e si approfondiscono i fatti». Il libro rivendica il percorso compiuto dai trans fino alla conquista del riconoscimento giuridico con la legge 164 dell’82. Un percorso sofferto, ma anche grandioso e ironico, che sollecita una riflessione sulla nostra, comune e condivisa, dignità sociale.

Perchè definisce “cattive” quelle prime trans? «Tra gli anni ’60, ’70’, ’80 le persone trans non erano accettate, contemplate, articoli di legge stabilivano che chi non vestiva con abiti consoni al sesso di nascita commetteva un reato. Già questo descrive l’ambiente in cui siamo cresciute. Non eravamo brave ragazze, non lo potevamo essere, non esistevano nè garanzie nè possibilità, tutto era riportato alla prostituzione, che rimaneva l’unica alternativa di sopravvivenza. Il mio tentativo è quello di descrivere una fase che ora ci sfugge, la fatica di essere trans in quel periodo e come attraverso l’esperienza delle pioniere si sono aperte le strade che oggi percorriamo».


Trans cattive esistono ancora? «Sicuramente. Chi è meno garantito di altri, meno facilitato nell’accesso alla vita, diventa automaticamente cattivo. Oggi potrebbero essere le trans migranti, che non hanno diritti, non hanno riconoscimenti e quindi sfuggono per forza di cose alle regole, a stili di vita più sobri».


C’è un altro aggettivo che non le piace: “normale”. «Non è che non mi piaccia, cerco di declinarlo nella maniera più corretta. Essere normali vuol dire rientrare nei modelli accettati e accettabili, ma questo tipo di normalizzazione non prevede l’esperienza trans. La normalità significa che i maschi sono uomini e le femmine sono donne, punto. Il resto è ancora tutto da costruire. Voler essere tranquille madri o padri di famiglia, è una ricerca faticosa, spasmodica, per tutta una serie di motivazioni culturali. La normalizzazione è un modello da cui siamo stati storicamente esclusi, bisognerebbe cambiare a monte. Siamo lontani da questo».
Qual è lo stato di salute dei diritti delle persone transessuali?
«Il mondo dell’associazionismo si è fatto carico di portare avanti la realizzazione dei diritti, il percorso di emancipazione, ma questa è una fase culturalmente e politicamente molto difficile. Le richieste sono state messe nell’angolo da una politica poco attenta o insensibile. Oggi i diritti delle persone trans non passano attraverso le leggi, ma dai tribunali. La battaglia per il cambio del nome, riconosciuta in molti paesi dalle leggi, in Italia non c’è. Una sentenza della Cassazione ha stabilito che una persona può cambiare il nome in base alla propria identità e, aggiungo, in base alle proprie sembianze. È stato un tribunale a emettere la sentenza che fa testo, ma la legge, il dibattito politico non esistono».


E il lavoro? «È un’altra battaglia campale, la più difficile in assoluto, perchè non si risolve nè con legge nè con sentenze. È un processo culturale molto più lungo che richiede un cambio di mentalità. L’accesso al lavoro risente di pregiudizi storici antichi, non solo verso le persone trans, ma anche nei confronti di altre categorie. Scardinarli non è semplice. Succede anche alle donne rispetto agli uomini, a noi ancora di più».


Il Comune di Trieste ha negato il patrocinio al gay pride. «Trieste è governata da una compagine conservatrice, non mi sorprende. La posizione del Comune è molto diffusa, non solo in Italia ma in diverse parti del mondo c’è un ritorno al conservatorismo, a posizioni molto rigide di destra. Però potremmo trasformare questo aspetto negativo in un punto di forza. I diritti non sono regalati e garantiti, vanno conquistati. E se il Comune ha negato il patrocinio al pride, il pride dovrà avere un senso più profondo di rivendicazione dei diritti, innanzitutto quello alla visibilità, perchè questo è, una manifestazione di visibilità, una festa che si svolge in tutto il mondo. Essere visibile, esserlo pubblicamente, è un atto politico molto forte. Dobbiamo riaffilare le armi e trovare strategie di lotta adeguate ai tempi».


Ma i pride sono ancora necessari? «Lo dimostra il diniego di Trieste. In diverse parti del mondo sono vietati, e questo ci fa capire che sono oggi più che mai necessari e importanti. Ed è importante anche guardarsi, perchè con la diffusione dei social le persone stanno dietro un computer e non si vedono più».


Che cosa le manca di quando le trans erano, come dice nel libro, “favolose”? «Intanto l’euforia, la voglia di fare, perchè c’era ancora il bisogno e la necessità di costruire. Oggi è come se ci si fosse appiattiti, fermati. Quell’euforia politicamente e culturalmente costruttiva, ci riempiva e colorava la vita».


Se lei potesse dire qualcosa a sindaco e giunta... «Direi che gay, lesbiche e trans sono una fetta di popolazione consistente. Un sindaco deve rappresentare tutti, anche quella parte che non è minoranza nonostante non si veda».

@boria_a

lunedì 21 gennaio 2019

IL LIBRO

Le sei sorelle Mitford, che presero a morsi il Novecento 





Sei: aristocratiche, affascinanti, appassionate, brillanti, spregiudicate, trasgressive. Sei: la fascista, la comunista, la nazista, la duchessa, la romanziera. L’hanno soprannominata “Mitford Industry” e non solo perchè le sorelle, sei appunto, sono state prolifiche scrittrici e giornaliste, e autrici di best seller che le hanno rese (ancor più) milionarie, ma perchè le loro vite eccezionali hanno a loro volta ispirato dozzine di libri, piéce teatrali, musical, oltre a riempire per decenni le pagine di quotidiani e rotocalchi, dalla seconda guerra mondiale all’alba del nuovo Millennio. La più nota è Nancy, classe 1904, la primogenita dei coniugi inglesi Sydney e David Freeman-Mitford, baroni Redesdale: firmò romanzi di successo come “Inseguendo l’amore” e “L’amore in un clima freddo” (ripubblicati di recente da Giunti e Adelphi) ma soprattutto amò perdutamente Gaston Palewski, braccio destro di De Gaulle e poi ambasciatore a Roma. Lui la tiranneggiò e tradì senza ritegno, rifiutandosi di sposarla perchè divorziata e con parenti (leggi: sorelle) imbarazzanti per la sua carriera politica, salvo poi convolare, una volta ritiratosi dalla vita pubblica, con una nobile e abbiente signora, naturalmente lei pure alle seconde nozze.

De Gaulle, ma anche Guinness, Churchill, Goebbels, Mussolini, i duchi di Windsor, John Kennedy. E il Novecento intellettuale di Litton Strachey, Dora Carrington, Evelyn Waugh, Cecil Beaton, omosessuali mondani e cerebrali. La storia delle sei Mitford attraversa e si impasta con quella del secolo breve - la guerra, le ideologie, i regimi, abbracciati con una veemenza sfociata nel fanatismo, ma senza mai perdere la grazia dei natali - come ci racconta la torrenziale e accuratissima “Le sorelle Mitford - Biografia di una famiglia straordinaria” di Mary S. Lovell, uscita nel 2001 e ora pubblicata da Neri Pozza (pagg. 636, euro 25,00), che incornicia un arco temporale dal 1894 al 2014, quando morì Deborah, “Debo” la più giovane delle sorelle, moglie del decimo duca di Devonshire, diventata imprenditrice di successo nella gestione della dimora signorile di Chatsworth - una delle più belle e visitate d’Europa - e del suo fruttuoso merchandising (curiosità: è nonna della top model Stella Tennant).
Tra Nancy e Deborah, c’erano Pam (la bucolica), Diana, Unity e Jessica detta “Decca”, oltre all’unico maschio, Tom, bello e colto, che morì nel ’45 in Birmania, da ufficiale, colpito in un assalto contro i giapponesi, ma inevitabilmente già sepolto dalla vivacità delle sorelle.





Grande spazio Mary S. Lovell dedica alle Mitford “fanatiche”. Unity portava il suo destino addosso. Chiamata di secondo nome Valkyrie, in onore delle guerriere della mitologia di Wagner e concepita a Swastika, fu fervente nazista, riuscì a conoscere Hitler e ne divenne amante. Diana, divorziata Guinness, nonchè futura romanziera di successo, si risposò con Oswald Mosley, fondatore del partito fascista britannico (Buf), in una cerimonia a casa di Goebbels, lei in tunica dorata, con il Führer tra gli invitati. Nel 1939, non potendo sopportare il pensiero di una guerra tra la Germania e la sua amata Inghilterra, Unity si sparò in testa nel parco dell’Englisher Garten di Monaco: non morì e incredibilmente sopravvisse con un proiettile nel cranio per nove anni. Diana e il marito trascorsero un lungo periodo in galera: si amarono per 44 anni e morirono a meno di un anno di distanza l’uno dall’altra.


E Decca la “rossa”? Fuggì col secondo cugino Esmond Romilly, nipote di Churchill, per partecipare alla guerra civile spagnola. Si sposarono in segreto ed emigrarono in America, facendo i baristi per vivere. Nel 1941 lui, arruolatosi nella Royal Canadian Air Force, fu abbattuto durante un raid contro la Germania nazista, mentre Decca continuò a vivere negli Usa, occupandosi di diritti civili e giornalismo investigativo. Firmò un bestseller, “Il sistema di morte americano”, frutto di cinque anni di indagine: fu in testa alle classifiche di vendita per mesi, le fruttò centomila dollari, molte minacce di morte dalle pompe funebri e lauree honoris causa. Tra gli addetti ai lavori la “Mitford” era la bara più economica e la scelse anche Robert Kennedy per il fratello assassinato.


Sei: presero a morsi il ventesimo secolo, in una Downton Abbey con più cervello, sangue e viscere. Di loro la madre Sydney diceva: «Quando vedo un titolo di giornale che comincia con “La figlia di un lord...” so che una di voi ragazze si è messa nei guai». 

@boria_a

sabato 19 gennaio 2019

MODA & MODI

Cicliste in gamba


Vi sembrano un incubo i pinocchietti? Quei pantaloncini maliziosi che si interrompono appena sotto il ginocchio, mettendo a dura prova qualsiasi polpaccio, anche il più sfilato e palestrato? E i cargo con le tasche laterali, come propaggini estensibili, che stressano la silhouette, la allargano e la deformano? Non avete visto niente. Il 2019 vi chiede di essere ancora più in gamba.




I pantaloncini aderentissimi del ciclista, che non fanno sconti neanche al fisico più armonioso, sono suggeriti dalle passerelle come novità dell’anno. Incollati al ventre e alle cosce, impietosamente rivelatori, sono diventati di colpo un capo passepartout, da indossare con una giacca, un maglione, sotto una gonna. Visti sulle passerelle sono agghiaccianti: espongono i profili emaciati, segnano il pube, si appiccicano alle ossa appuntite, circondano il ginocchio, per quanto roseo e tonico sia, perimetrano il sedere, funzionano come Google maps su ogni millimetro di buccia d’arancia. Non c’è modella a cui donino, anoressica o curvy che sia. E se piacciono alle Kardashian c’è più di una ragione per guardarli con sospetto.

Vi immaginate in pantaloncini da ciclista in una qualsiasi situazione quotidiana che non sia una sgambatina sulla due ruote e a un’ora conveniente perché nessuno vi veda deambulare come un insaccato? I vituperati leggings, tacciati in passato di indecenza, sono al confronto consolanti. 

Per la loro presenza nelle varie collezioni, le riviste di moda definiscono i cycle pants, i bike shorts, un “fashion statement”, ovvero un manifesto della moda 2019, confidando nel potere mistico degli inglesismi. E se facessimo come per i colori che Pantone decreta ogni anno irrinunciabili? Guardiamoli sugli altri, anzi, giochiamo a chi li avvista prima in giro (Kardashian a parte). 

@boria_a

martedì 15 gennaio 2019

LA SCRITTRICE

 Torna Ilaria Tuti con la sua "Ninfa dormiente"


Ilaria Tuti fotografata da Beatrice Mancini



 S’intitola “Ninfa dormiente”, titolo scelto dall’autrice, e uscirà la prima settimana di maggio. Ilaria Tuti, la giovane scrittrice di Gemona, caso letterario 2018 con il suo primo libro, il thriller bestseller “Fiori sopra l’inferno” edito da Longanesi, anticipa con trepidazione qualcosa del nuovo giallo. È già terminato e in fase di editing, e avrà ancora una volta come protagonista l’ispettrice Teresa Battaglia, cinquantenne provata dalla vita, dalla determinazione incrollabile ma al tempo stesso fragile ed empatica, questa volta alla prese con un’indagine in una valle delle prealpi friulane, «che ha alle spalle una storia importante». Il romanzo prenderà le mosse come un giallo classico, con un caso di morte che ci riporta alla prima guerra mondiale e un quadro misterioso, ma il dipanarsi dell’intreccio lascerà molto spazio all’approfondimento sulle storie personali dei personaggi: Teresa, che incontrerà sul suo cammino un nemico che viene dal passato, l’ispettore Marini, il collaboratore fresco di scuola di polizia, con una ferita che l’ha allontanato dalla città e indotto a trasferirsi nella ferigna montagna friulana, e un nuovo arrivo, una giovane fortemente voluta da Teresa, in cui l’ispettrice riconosce se stessa, la sua tempra ma anche le difficoltà degli inizi.

«Non nascondo che il secondo romanzo è pesante dal punto di vista psicologico», dice Ilaria Tuti. «Nel primo ti butti, ora invece le aspettative sono alte, è come se tu avessi fatto una promessa ai lettori. Questa nuova storia è difficile da etichettare, è un thriller non canonico che avevo dentro da tanto tempo, ancora prima di “Fiori sopra l’inferno”. C’è una storia vera e ci sono i ricordi di una persona vera, la memoria storica del paese, che mi ha accolto nella sua casa e mi ha aperto il cuore. E poi tanti risvolti sociali, antropologici, politici. È un romanzo d’ambiente, che dà spazio alle vite dei singoli caratteri. Il mio editor, Fabrizio Cocco, dice che la mia narrazione crea assuefazione e ci vuole un po’ di tempo per prendere le distanze dalla storia».


Ilaria Tuti è appena rientrata da Madrid, dove ha festeggiato l’uscita in castigliano e catalano (il traduttore è Xavier Gonzàlez Rovira) del primo libro con l’editrice Alfaguara del gruppo Penguin Random House, che verrà diffuso anche nei paesi latino-americani, seconda traduzione straniera dopo quella francese, uscita a settembre. In febbraio il thriller sarà disponibile in inglese per Inghilterra, Australia e Nuova Zelanda, in aprile negli Stati Uniti, quindi in Grecia, Olanda, Serbia, Polonia, Norvegia, Repubblica Ceca per un totale di ventidue paesi, dove anche il secondo romanzo è già stato venduto.












«In Spagna - racconta Tuti - sono stata accolta molto bene, mi ha intervistata la radio nazionale, è arrivato “El Mundo”. Il traduttore si è affezionato ai personaggi e ha trovato una grande sintonia sull’ambientazione. Teresa Battaglia ha qualcosa di Petra Delicado, amatissima investigatrice creata da Alicia Giménez-Bartlett, ma anche qualcosa di Amaia, l’ispettrice dei gialli di Dolores Redondo, un’autrice attenta come me alle tradizioni, alle radici, alle credenze popolari, a un mondo antico assediato dal progresso, ma anche al rapporto della donna con la maternità. In Spagna credono molto nel libro».

Intanto, tra una fiera letteraria e l’altra, Ilaria Tuti continua ancora a occuparsi di pratiche d’appalto, seppure a tempo molto ridotto rispetto al passato. Per la sua investigatrice Teresa, invece, potrebbe prospettarsi un futuro anche televisivo. La società di produzione Publispei ha acquisito i diritti dei libri e si è presa un paio d’anni di tempo per valutare se ricavarne un film o una serie. —

sabato 12 gennaio 2019

IL PREMIO

Il Nonino internazionale 2019 a Juan Octavio Prenz e ai suoi uomini senza radici


Juan Octavio Prenz (foto Andrea Lasorte)
 

 I colori, la fantasia epica, la vitalità picaresca della grande letteratura latinoamericana e le inquietudini, i tormenti, le ombre che percorrono la grande letteratura mitteleuropea. L’opera di Juan Octavio Prenz, scrittore argentino di origini istriane e da anni triestino d’adozione, incrocia e attraversa questi due mondi, restituendoci personaggi sfaccettati, mai incasellati in un’unica identità, che errano nel groviglio di strade dell’esistenza umana conservando nel cuore, come un’àncora, l’appartenenza a una comune matrice di affetti, di abitudini, di paesaggi e lo spirito di ribellione verso qualsiasi tirannide.

È questa sua originalità e matrice inconfondibile che la giuria ha voluto celebrare, assegnando a Prenz il Premio internazionale Nonino 2019, riconoscimento giunto quest’anno alla quarantaquattresima edizione e dedicato a due suoi presidenti scomparsi da pochi mesi, lo scrittore V.S. Naipaul e il regista Ermanno Olmi. Prenz arriverà in Friuli con un libro di versi freschissimo di traduzione italiana, “Figure di prua”, che uscirà per La Nave di Teseo due giorni prima della cerimonia. E la stessa casa editrice ripubblica anche "Il signor Kreck", il suo romanzo più famoso.


Il Premio Nonino a un Maestro del Nostro Tempo è stato invece attribuito alla storica, saggista e giornalista americana, naturalizzata polacca, Anne Applebaum, vincitrice del Premio Pulitzer con “Gulag: a history”, editorialista del Washington Post e docente di Practice alla London School of Economics. Applebaum ha inciso profondamente nel dibattito internazionale con libri e articoli sui totalitarismi del ventesimo secolo e sulla rinascita del nazionalismo e del populismo nel ventunesimo secolo.




Si ferma a Gorizia, infine, il Premio Risit d’Aur-Barbatella d’Oro, assegnato a Damijan Podversic, viticoltore della comunità slovena, per aver dato un appassionato impulso alla coltivazione della Ribolla gialla, antico vitigno autoctono della regione, e avviato l’iter per il recupero di terreni abbandonati dal 1940 sul Monte Calvario. Podversic, che cominciò ad amare la vite a dodici anni grazie al padre Francesco, oste a Gorizia, ha acquistato un po’ alla volta piccoli appezzamenti, inseguendo con tenacia il suo sogno di produrre “Grandi vini”.



 
Il viticoltore Damijan Podversic



La cerimonia di consegna del premio Nonino, alla presenza della giuria presieduta dallo scienziato Antonio Damasio, si terrà il 26 gennaio 2019, alle 11, a Ronchi di Percoto, con la consueta kermesse popolar-mondana che chiama a raccolta nello stabilimento dei grappaioli friulani il mondo imprenditoriale, intellettuale e politico della regione. Il premio internazionale sarà consegnato da Claudio Magris.




“Solo gli alberi hanno radici” s’intitola l’ultimo libro di Prenz, uscito nel 2017. «È una frase che ho utilizzato spesso per rispondere a chi mi incitava a dichiararmi unilateralmente argentino, jugoslavo o italiano, avendo io scritto in queste lingue e vissuto nei paesi che le parlavano», spiega lo scrittore, nato a Ensenada in Argentina, fuggito dalla dittatura militare, di cui narra ne “Il signor Kreck”, vissuto a Belgrado e infine trasferitosi a Trieste. «Tutto nasce dalla mia diffidenza per le metafore facili, una delle quali fa dell’uomo un essere con radici. A volte, mi sono trovato a rispondere: se si tratta di fare delle metafore, allora, perché radici e non ali? Perché non pensare che l’identità possa anche definirsi in funzione di un futuro da condividere, piuttosto che di un passato da contemplare».


 Così pensano i tantissimi personaggi di “Solo gli alberi hanno radici”, uomini non “piantati” in un terreno comune, ma esseri vagabondi, attratti dai paesi dove passano o approdano, che nel viaggio, o nell’esilio, trovano straordinarie occasioni di scoperta di se stessi.

Con Anne Applebaum ritorniamo nel cuore dell’Europa. Storia e attualità sono al centro della sua riflessione, fin dal primo libro, il resoconto di un viaggio attraverso Lituania, Bielorussia e Ucraina, che descrive nei loro ultimi passi verso l’indipendenza. In “La cortina di ferro. La disfatta dell’Europa dell’Est, 1944-1956” ha approfondito l’imposizione del totalitarismo sovietico dopo la seconda Guerra mondiale, mentre il suo ultimo saggio, che sta per uscire in Italia con Mondadori, analizza la “carestia rossa” in Ucraina, frutto della politica di forzata collettivizzazione agricola di Stalin. Alla London School of Economics, Applebaum gestisce “Arena”, un programma innovativo sulla disinformazione e la propaganda nel XXI secolo.

@boria_a