martedì 21 agosto 2012

MODA & MODI

Fare tappezzeria diventa chic

Fare tappezzeria? Quest'inverno sarà di moda. E se l'espressione, datata come la tendenza in questione, vi fa venire in mente sfiga e grigiore, cancellate subito l'immagine. Sarà la gioia dei negozi vintage che scovano sempre vecchie borsette di pelle o portaspiccioli decorati a mezzo punto. E, se ancora li avete, per carità non cedete alla tentazione di liberarvi di quei piccoli set irrinunciabili per le nonne, pettine e specchietto da passeggio nelle loro custodie impreziosite da ricami floreali e ramage di punto croce. L'inverno 2012 li nobilita e li promuove ad avanguardia del dilagante tapestry trend che, nella traduzione autoctona, suona proprio com'è: tendenza carta da parati. Insomma, mettersi addosso un pezzo di divano, sventrare un cuscino per farne una gonna, riconvertire in tailleur o soprabito una poltrona dai leziosi cottage inglesi, dove tutto, dalla teiera al copriwater, è un tripudio di rose e lillà, pare essere la quintessenza dello chic.
Indossati dalle modelle e immortalati nei set fotografici delle riviste diventano esercizi di stile (e di stylist), divertenti anche se ridondanti e soffocanti, dove alla fine, di tutto l'ensemble, la donna comune compra la sottovestina da grande magazzino di cui appena si intravede un lembo (quel tanto che basta per citare la marca nella didascalia). Nelle vetrine dei negozi, che si sforzano di sedurci mentre Lucifero e la spending review impazzano, questi abiti sembrano invece proprio quello che sono: un vecchio e familiare pezzo di sofà rivoltato, come i paltò di un tempo che attraversavano generazioni di fratelli.
Alcune griffe, di alta fascia, ci hanno investito buona parte della collezione, abbracciando tutte le variabili di questa tendenza: dalle fantasie optical degli anni '70 per tailleur pantaloni, abiti e soprabiti, al barocco siciliano, con cascate di fiori e animali su giacchini, scarpe e borsette, ai disegni orientali per mini-trench e pigiama palazzo, alle fantasie geometriche delle steppe siberiane tradotte in lunghi cappotti che sembrano ricavati da coperte di pastori nomadi. Piacerà? Meglio prenderlo come un invito subliminale a non buttar via niente e a dare un'altra occasione a copridivani e a fodere di cuscini. A piccole dosi, e magari, con la saggezza della nonna, limitandosi alla trousse da borsetta, che c'è ed è utile, ma in pubblico compare poco.
twitter@boria_a

Tapestry trend secondo Jeffrey Campbell

IL LIBRO

Virginia Agnelli, la farfalla nel cassetto

Virginia Bourbon del Monte di San Faustino il giorno delle nozze con Edoardo Agnelli, l'8 giugno 1919

Le labbra sottili, l'ampia scollatura, la mano lunghissima che regge un fiore, i riccioli rossi pettinati all'insù, una corona regale intorno al viso. La massa dei capelli sostituisce il cappello, che invece dovrebbe portare, come impongono i canoni di eleganza alle aristocratiche, anche se giovani e testarde. Una donna reale e insieme una fata o forse un po' una strega. È Virginia Agnelli, nata principessa Bourbon del Monte di San Faustino, nel ritratto che Gianni, uno dei suoi sette figli, il più celebre, il principe della Camelot italiana, tiene accanto al letto nella casa di corso Matteotti, a Torino. Una giovane donna affascinante e misteriosa, di cui Leonor Fini, l'autrice del dipinto, coglie la natura più riposta: un giunco d'acciaio, anticonformista e volitiva, passionale e indomabile. Una farfalla dalla grazia innata, che, se mprigionata, sa sbattere le ali senza tregua, fino a riottenere la libertà. Sua mamma Jane, americana senza dote, cui il vecchio continente ha riservato Carlo, marito dal purissimo sangue blu, dice di lei, ventenne poco incline alle regole: «Il suo volto non era di quelli che lasciano intravedere un destino tranquillo e comune. Virginia non si sarebbe accontentata di ciò che fa felici le altre donne».
Come mai si sa così poco di Virginia Agnelli, la moglie di Edoardo, figlio di Giovanni, il fondatore dell'impero Fiat? La vedova che il potentissimo suocero fece pedinare, sorvegliare, "intercettare" si direbbe oggi,dall'Ovra, la polizia fascista, in un'estenuante battaglia giudiziaria, pur
di strapparle i sette figli? La donna bellissima, amata dal narciso Curzio Malaparte, che in lei vedeva anche lo strumento per riconquistare la direzione de "La Stampa", da cui era stato cacciato? La mamma attenta e tenera, soprattutto con Giorgio, uno dei sette, tormentato e malato come altri degli Agnelli a venire, cancellato da una morte misteriosa e dall'oblio della famiglia? La diplomatica che, il 10 maggio 1944, alle otto del mattino, promosse l'udienza segretissima tra Pio XII e Karl Wolff, capo delle SS in Italia, per scongiurare la distruzione di Roma da parte dei
tedeschi in ritirata? L'antica nemica che, nella stessa giornata, oliando le ruote cardinalizie di Roma, Milano e Torino, negoziò la futura salvezza del suocero, accusato, dopo il 25 aprile 1945, di essere stato collaborazionista
e fornitore di guerra?
"Virginia Agnelli. Madre e farfalla" s'intitola la biografia firmata da Marina Ripa di Meana e dalla giornalista Gabriella Mecucci (Minerva Edizioni, pagg. 286, euro 19,00), che restituisce, col respiro del romanzo, la breve vita di uno dei personaggi più eterei e inafferrabili di casa Agnelli. Cancellate le tracce, sparite le lettere, rastrellate le
fotografie, acquistata da Gianni, e sepolta in un cassetto, la sceneggiatura del libro "Vestivamo alla marinara", grande successo della sorella Susanna, dove molto si parla dell'intenso rapporto tra Virginia e i suoi figli, le due autrici hanno dovuto compiere un'opera da rabdomanti, cercando, sul filo dell'intuito, e portando alla luce con infinita pazienza, ogni più piccolo indizio, ogni traccia, ogni rimando contenuto nell'opera di storici, giornalisti, nelle memorie di amici.
Ma chi ha fatto scendere il silenzio sulla vita di Virginia? Perché Gianni, che pure provava tenerezza per quella madre bellissima e travolgente, non ne parlava mai e si è adoperato perché nessuno lo facesse? Per paura dello scandalo? Perché la costruzione del suo mito non lasciava spazio ad altri?
Marina Ripa di Meana e Gabriella Mecucci sposano questa tesi e raccontano, molto attraverso le loro debolezze, la storia dei Kennedy italiani, l'unica monarchia accettata dai tempi dell'esilio dei Savoia.
Scandalo c'è e fin da subito nella vita della principessa Virginia Bourbon del Monte, andata sposa ventenne, l'8 giugno 1919, a Edoardo, rampollo di casa Agnelli, di sette anni più vecchio. Matrimonio opportuno, anche se d'amore: lei ha un cognome di altissimo blasone, aristocrazia al soglio
pontificio, per lui il coriaceo padre, senatore Giovanni, aspira alla promozione sociale delle nozze con una fanciulla nobile. Rimane solo una comparsa alla Fiat, Edoardo, cui il padre preferisce Vittorio Valletta, così come alla "Stampa", dove pure presiede il consiglio di amministrazione: la coppia, giovane e dalla vita principesca, si limita a tenere le pubbliche relazioni con la nobiltà romana e con l'aristocrazia piemontese o a trastullarsi con avventure imprenditoriali minori come il lancio della stazione sciistica del Sestriere, Edoardo anche con la Juventus e i primi ingaggi "milionari" degli argentini Orsi e Monti.
Sette figli in quattordici anni, da Clara nel 1920, a Umberto nel 1934, e in mezzo ci sono Gianni, Susanna, Maria Sole, Cristiana e Giorgio, una vita spensierata e mondana, punteggiata da reciproci tradimenti e dagli scandali piccanti che coinvolgono Edoardo. Torino, austera e perbenista, sta stretta a Virginia, prima accolta con curiosità, poi censurata per i suoi modi, il suo accento romano e la sboccataggine, il vezzo di girare nuda per casa e di regalare biancheria intima alle cameriere. Anche il suocero nutre verso di lei un sentimento duplice, di fascinazione per la vitalità e la grazia della farfalla, di fastidio per l'esuberanza impossibile da contenere.
Il 14 luglio 1935, Edoardo, l'erede dell'impero Fiat, muore in un incidente sull'idrovolante, mentre da Forte dei Marmi sta entrando nel porto di Genova. È la svolta drammatica nella vita di Virginia. Di lì a un anno il suocero intraprende contro di lei una battaglia legale durissima e senza esclusione di colpi per l'affidamento di quei sette nipoti di cui fino ad
allora si è poco interessato, arrivando al punto di farli strappare alla madre dalla polizia, nel dicembre 1936, sul treno in sosta alla stazione di Genova. Virginia gli ha messo in mano un'arma formidabile, la relazione con
Curzio Malaparte, allacciata a Forte dei Marmi pochi mesi dopo la morte del marito. Un rapporto di cui si hanno notizie minuziose attraverso le informative dei migliori agenti dell'Ovra, Attilio Dubois ed Ezio Attieri, personaggi abili e di alta estrazione sociale, che non hanno problemi a infilarsi negli stessi ambienti dei due amanti e a riferirne ogni mossa al capo della polizia Arturo Bocchini, interessato direttamente dal senatore Agnelli. Virginia, che a Torino è perseguitata dalle maldicenze e considerata una sorta di Messalina, a Forte dei Marmi può vivere liberamente la sua passione. Malaparte, innamorato di se stesso, dei soldi e della carriera,
più che delle donne, che anche sessualmente avvicina in modo scostante e poco focoso, tuttavia si fa prendere dalla fulva vedova Agnelli, la nuora di quell'uomo che l'ha cacciato su due piedi dalla "Stampa" per conflitti con l'amministratore delegato: «Malaparte, qui dentro ci sono i soldi della
liquidazione; li prenda e, per favore, mi restituisca la busta», gli aveva detto il senatore Giovanni, mettendogli in mano una buonuscita d'oro, un milione di lire, c'è chi dice tre. Chissà che ora, attraverso Virginia, non possa riavere il posto e il ruolo.
Si arriva a un passo dalle nozze nel duomo di Pisa, a un anno esatto dalla fine del lutto. Ma al senatore la liaison non piace. Sono mesi di battaglie legali, di figli trascinati da Roma a Torino, di scontri sulla competenza dei giudici, di episodi surreali come il "rapimento" di Gianni da parte del
precettore, di colpi bassi. Virginia, che a differenza di altre
aristocratiche non ha mai indossato una divisa ma che è la madre di sette ragazzi e per questo premiata dal regime, chiede udienza al Duce. E il Duce si schiera con lei, soprattutto contro la protervia di un industriale che a
Torino manovra i giudici e usa con spregiudicatezza persino i vertici dell'Ovra.
Il grande conflitto si chiude con un accordo tra suocero e nuora, favorito in particolare da Gianni, che mai smette di perorare la causa della madre. A lei rimangono i figli, ma deve rinunciare a Malaparte. Ha trentotto anni, è bella, sensuale, gli uomini le cadono ai piedi. In Costa Azzurra, dove tutti vanno in vacanza dopo la tregua col nonno, gira in bikini e prende il sole nuda. Raccontano che una sera del 1942, a tavola con un gruppo di amici, qualcuno le mostra una foto di Malaparte che esce dalla sauna coperto solo
da un ramo di betulla. «Si è invecchiato anche lui» commenta Virginia, alludendo con tenerezza all'antica intimità e prendendone insieme le distanze.
Come per Edoardo, Forte dei Marmi è la stazione di partenza e di arrivo dell'ultimo viaggio. VIrginia muore il 21 novembre 1945, a 46 anni, in un incidente di macchina tra Livorno e Pisa, nella pineta di San Rossore Migliarino, quando la Fiat 1500 su cui viaggia verso l'amata casa al mare si scontra con un camion miliare americano. Suo figlio Gianni è entrato nel
consiglio di amministrazione della Fiat, la sua nipotina Ira, l'unica che conoscerà, figlia della primogenita Clara e del principe Tassilo von Furstenberg, ha ormai cinque anni. L'anno prima, insieme al colonnello Eugen Dollman, il diplomatico che fa da intermediario tra le SS e Mussolini, ha
concertato "l'operazione Farnese", l'incontro tra papa Pio XII e il capo della polizia tedesca in Italia, Karl Wolff, per salvare la capitale.

Come nella battaglia contro il suocero, la farfalla ha rivelato forza, abilità e intelligenza. E come con grazia ha attraversato la vita, così è entrata nella storia.
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Virginia Agnelli 

venerdì 17 agosto 2012

IL LIBRO

Gianna Manzini: "Signore, non scegliete le cravatte"


                           La copertina del volume con gli scritti di Gianna Manzini, curato da Sarah Sivieri


È risaputo che le donne sbagliano sempre a scegliere le cravatte. Il perchè lo spiegava Guglielmo Battistoni, grande maestro dell'eleganza maschile, a Gianna Manzini, scrittrice e giornalista, che ne avrebbe fatto una delle sue sapide cronache di moda per la "Fiera letteraria", dove firmava come Vanessa.


Non si tratta di errori di gusto, perché le donne di gusto ne hanno da vendere, diceva Battistoni. «È che con questo amabile "laccio al collo" esse pretendono inconsciamente di modificare qualcosa nel carattere o nelle maniere del loro uomo; forse d'attenuare l'eterno conflitto del quale, del resto, hanno bisogno».


Corre il 1959 e Gianna Manzini, intellettuale raffinata e acuta osservatrice di costume, registra le tappe del lento cambiamento femminile, in una società che è anch'essa alla vigilia della svolta. Un uomo, attraverso la cravatta - annota nella sua rubrica - dà le proprie generalità ed è naturale che si ribelli a qualsiasi tentativo di contraffazione. «Ed è altrettanto naturale che la donna insista: "Giungesse a somigliarmi un pochino, appena appena...", si augura, zitta zitta, quando, acquistando cravatte, s'illude d'impossessarsi d'un talismano, d'una chiave di volta, forse d'un reagente».


Gianna Manzini è una delle preziose scrittrici del secolo scorso oggi scomparse da qualsiasi antologia e del tutto dimenticate, nonostante una produzione ricca e varia, cominciata nel 1928, quando pubblicò "Tempo innamorato", e culminata nel Premio Campiello del 1971, che si aggiudicò con "Ritratto in piedi". In cinquant'anni di attività letteraria, ha scritto libri e vinto premi (nel '56, anche il Viareggio per "La sparviera", ex aequo con Carlo Levi), ha firmato racconti su importanti riviste, ha ottenuto recensioni e apprezzamenti da Montale, Gadda, Contini e Carlo Bo, facendosi stimare da intellettuali e amanti delle belle lettere, mentre le loro mogli e amiche ne seguivano i consigli su abiti, accessori e sarti di grido sulle colonne del Mattino, di Oggi, della Fiera Letteraria, o alla radio, dove conduceva "La fiera delle vanità".


Perchè, dunque, dimenticata? Troppo colta e lontana dal grande pubblico, forse, concentrata molto su questioni letterarie. Troppo densa e difficile nella lettura, inevitabilmente "datata". 
Eppure anche lei, oggi, come altre giornaliste, croniste di costume, letterate accantonate (una per tutte: Irene Brin), è al centro di un'operazione di recupero, voluta dalla casa editrice Hacca e a cura di Sarah Sivieri (pagg. 225, euro 14). Il volumetto, che raccoglie pezzi di costume e moda inediti o sparsi su periodici, si intitola "Scacciata dal paradiso" e arriva in libreria dopo isolate ristampe delle opere più famose della Manzini negli anni Novanta, seguite, nel 2005, dalla raccolta di cronache "La moda di Vanessa", come si firmava, edita da Sellerio.

Diario, zibaldone, giornale, termometro interiore sempre tarato sul flusso esterno. Scacciata dal paradiso e cercando di recuperare una dimensione di bellezza, Gianna descrive, partecipa, sta dalla parte dell'emancipazione delle donne, ne vede le difficoltà e i chiaroscuri. E anticipa: il telefono, antenato dei social-network, che si appresta a cancellare il piacere, il mistero delle lettere e l'abitudine all'attesa, al punto che la stessa autrice, ricevendo un plico voluminoso, lo guarda con sospetto, come se volesse ricacciarla indietro negli anni (1972).


Dalla comunicazione, l'attenzione si sposta sul corpo e sulla bellezza. Un piccolo capolavoro il pezzo dedicato al ventaglio (1952), di cui la scrittrice, molti anni dopo averne ricevuto uno in dono per la primo comunione, rimasto intatto, scopre il potere seduttivo, accessorio con capacità di bisbigliare, chiedere e porgere al posto della donna, e si interroga sulla civetteria che diventa gioco d'azzardo (chissà cosa direbbe adesso, ai tempi delle olgettine...).
Elogia blandamente il rosso, il rosso-invettiva, il rosso gridante, che le signore adorano e gli uomini percepiscono come una specie di "minaccia", e si consola che il blu e il violetto siano stati banditi dalle unghie a favore di un rosa-saponetta o di un cenere di rosa, auspicando l'avvento - un'audacia nel 1940 - dello smalto incolore.
Acuta e profonda l'analisi delle dinamiche della coppia. Basta un "quanto zucchero?", la domanda da lui rivolta a lei sopra il caffè, nonostante gli anni di abitudine, perchè nella donna si scateni un uragano di recriminazioni e nell'uomo l'insopportazione della "memoria" che la moglie testardamente coltiva, di quando tutto, tra loro, era promessa e miraggio.


Scacciata dal paradiso, persa la posizione di Madame Bovary, Manon, Eugénie Grandet, non più al centro dell'attenzione del partner, la donna reagisce e, con un colpo di mano, diventa autrice. Ma non si tratta di opere nelle quali «sia diluito il residuo d'una lunga giornata», perchè sarebbe l'ennesimo tentativo di un dialogo smarrito nell'usura della vita a due. «No», scrive Gianna Manzini


«Le donne, nell'adoperare la penna, son diventate guerriere: hanno da combattere battaglie sociali; da vendicarsi; da denunciare (ecco la grande parola); da mettere avanti qualche alibi; e, soprattutto, da legittimare, nero su bianco, l'aspirazione alla loro libertà».
Correva il 1963. La civetteria non esiste più e il corpo femminile è spesso nemmeno gioco, ma tavolo del gioco d'azzardo. «I riflettori sono ormai per le stelle e per le dive, queste apparizioni, spesso magnificamente composite, a meraviglia fabbricate; queste viventi, talvolta miracolose opere d'arte», preconizzava Manzini. E rilanciava: «A noi resta, e non è poco, il vantaggio di una valorosa e riconosciuta serietà. L'attenzione che ci è stata sottratta la irradiamo generosamente; e, qualche volta, con profitto».
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Gianna Manzini (foto Archivio storico Arnoldo Mondadori editore)

martedì 7 agosto 2012

MODA & MODI

Mutande da passeggio

City shorts? Chiamarli così, ormai, è inappropriato, almeno a contare i centimetri che mettono in campo. Sono mini, micro, slip-shorts, con taglio e misure da boxer al femminile. Ma se l'intimo da donna che imita i calzoncini maschili è pratico e utile, riparando dagli inestetismi delle cuciture a vista sotto pantaloni e gonne aderenti, i calzoncini inguinali che ormai spopolano dappertutto, sono un azzardo estetico ambulante. In auge da qualche stagione, nell'estate 2012 hanno tagliato tutto, fino a diventare mutande da passeggio.
Prima caratteristica: la trasversalità. Superate le inibizioni anagrafiche, li portano le adolescenti e le signore negli anta inoltrati, con l'unica differenza del luogo, le ragazzine ovunque, le mamme nel perimetro allargato dalle vacanze, da mare e monti ai transiti aeroportuali. Seconda caratteristica, l'uniformità: shorts d'obbligo con flip-flop e calzature piatte o, nella variante più autopunitiva, con gli stivali estivi da squaw, acciambellati a metà polpaccio. Terza e ultima: la democraticità. Pur ridottissimi, si spalmano su tutte le taglie, pericolosamente anche su quelle che cominciano con L e X.
Uscite dagli skinny jeans e dalle ballerine invernali, le teen-ager hanno trovato la nuova divisa estiva: con buona pace della comodità (denim incollato al sedere e cinturone in vita non aiutano a traspirare nei mesi frequentati da Nerone e altre canicole) e dell'estetica (prima di infilarcisi bisognerebbe assicurarsi di aver conservato integra la propria dotazione di autocritica), l'intimo urbano esalta la voglia di libertà, che cammina su gambe nudissime fino alla linea delle natiche e abbronzatura perfetta. Le fan "più grandi" sembrano contagiate dall'impellenza di liberarsi di ogni indumento di troppo e condividono la stessa nonchalance nei confronti di chi guarda. In sostanza, se ne fregano di tracce di cellulite, venuzze a vista, ginocchia avvizzite e sgambettano platealmente in questi ritagli di cotone, spingendosi ben al di fuori della circonferenza dell'ombrellone. Per Valentino e la sua celebre massima sulla mini vietata dopo i vent'anni, ce n'è quanto basta a scolorire l'abbronzatura. La mini è archeologia. Nella stagione dei tagli, quelli ai centimetri sono gli unici non dolorosi.
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Lea Michele a New York durante una pausa dal set di "Glee"