martedì 24 dicembre 2013

MODA & MODI

Rosso o nero? Meglio un colore da alchimisti
 
Non è un Capodanno in rosso. Per la prima volta, da anni a questa parte, il colore delle feste per antonomasia disturba nelle vetrine. I soliti reggiseni e i perizomi beneauguranti tinta fiamma non bucano il vetro, non penzolano pimpanti ad altezza occhio in un fuoco artificiale di pizzi e applicazioni, piuttosto se ne rimangono sdraiati, pensionabili, tra più modesti berretti col pon-pon e muffole. Non è solo colpa della crisi, della cui immanenza è comunque difficile scordarsi anche solo per un istante. Questione di feeling: non c'è l'umore, la spinta. Vediamo rosso, ma non addosso a noi. Qb, quanto basta, suggeriscono i capi rimasti a testimoniare le stagioni in cui tavolate e signore parevano sul punto di prendere fuoco. Così ci lasciamo alle spalle la superba gonna lunga di shantung, una pennellata ardente che esplode dietro il vetro, come faremmo con una puntata del Natale a Downton Abbey: era tutto così perfetto, peccato che sia finita.
Che colore ha allora lo spirito di queste feste?

Il nero dilaga nelle strade, contro ogni tentazione di cromoterapia antidepressiva. È immutabile, rassicurante, parla al budget prima che al cuore: durerò, ci promette, per tante occasioni ancora, sono la tinta più smemoratamente riciclabile, ti renderò identica, a dispetto degli anni, come un'iniezione di botox. Ma qualcosa ci dice che non è nemmeno un Natale in nero, seppure declinato in sete, trasparenze, pizzi, pelle ed ecopelle. No al Black Christmas come il Black Friday, il giorno dopo Thanksgiving, quando in America orde di consumatori a digiuno danno il via ai saldi natalizi arraffando i capi a buon mercato, in un'ubriacatura di quantità.
Guardiamoci intorno, è tempo di sfumature. Non di grigio, ormai esasperante con tutto il suo strascico di implicazioni pseudo-erotiche. Nessun colore è definito: il bianco sfuma nel torrone, il rosa nel cipria, il blu nel cobalto, il verde muschio si fa acquoso, il giallo evidenziatore impallidisce ma si carica di bagliori, di pagliuzze, diventa dorato, rotondo. Le pubblicità dei profumi, dei gioielli, degli accessori ci avvolgono in un'onda pastosa, senza punte, senza tinte urlate. Il 2014 - secondo il Pantone Color Institute, l'azienda americana che lancia i colori per industria e grafica - sarà "radiant orchid", mix di fucsia, viola e rosa. Nuance luminosa, che ispira fiducia, ma anche enigmatica, equilibrista. Un po' come stiamo imparando a essere noi, meno asseverativi, più alchimisti.

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Radiant orchid per il 2014

venerdì 6 dicembre 2013

IL LIBRO

Caselli e Ingroia, confronto a due voci sui vent'anni "contro"

Manifestazione a Palermo in memoria di don Puglisi, settembre 1993 (fonte Shobha/Contrasto)

Antonio Ingroia ricorda il primo incontro con Giovanni Falcone, nel suo ufficio-bunker alla procura di Palermo. Lui, neofita in magistratura, assegnato come uditore giudiziario al giudice blindato, il primo uditore della sua carriera. Non era un estroverso, Falcone. Spesso manifestava i suoi sentimenti solo con un'impercettibile smorfia del viso, con un cambio nel tono della voce. Dopo un mese, improvvisamente, rompe il silenzio e chiede a Ingroia se vuole occuparsi di inchieste di mafia. Il giovane magistrato, sorpreso, si vede consegnare un libro con centinaia e centinaia di verbali istruttori, le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonino Calderone. Di lì alle settimane successive lo leggerà con attenzione, senza mai farlo uscire da quelle quattro mura d'ufficio, che si favoleggia imbottite di metallo, come le porte e le finestre, per salvare la vita al giudice Falcone. «Capita di occuparsi di fatti di mafia un po' per caso, un po' per destino», dice Ingroia. «Da quel momento in poi Falcone instaurò con me un rapporto di maggiore confidenza e mi piace pensare di aver superato positivamente uno dei test più impegnativi della mia vita».
Anche Gian Carlo Caselli ricorda. Giovanni Falcone è stato ucciso da poco, insieme alla moglie Francesca e alla scorta, nella strage di Capaci del 23 maggio 1992. Lui partecipa a un dibattito pubblico, a Milano, quando un ufficiale dei carabinieri gli si avvicina con un sorriso timido e gli sussurra, assicurandosi di non essere sentito: «Il dottor Borsellino le manda a dire che per lei non è ancora arrivato il momento di andare in pensione». Caselli è infastidito, crede che l'osservazione si riferisca al suo lavoro in Corte d'Assise come a una sorta di pre-quiescenza. A quelle parole ripenserà neanche tre mesi dopo, domenica 19 luglio, quando, mentre è impegnato in un dibattito sulla mafia in un piccolo paese del Piemonte, davanti a poca gente, deflagra la notizia della strage di via D'Amelio, dei cento chili di tritolo che hanno dilaniato il giudice Borsellino. E allora, nel momento di sommo strazio, Caselli rileggerà nella mente quella frase, accolta sul momento con irritazione, ma lucidamente profetica.
S'intitola "Caselli-Ingroia. Vent'anni contro. Dall'eredità di Falcone e Borsellino alla trattativa" il libro curato dal giornalista Maurizio De Luca, per oltre dieci anni direttore editoriale dei giornali locali del Gruppo Espresso, che esce per i tipi degli Editori Laterza (pagg. 261, euro 16,00). In occasione di un anniversario sofferto e dibattuto, davanti al crescere delle ombre e della polemica sui rapporti tra lo Stato e gli uomini di Cosa Nostra, i giudici Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia si mettono di nuovo a confronto, come fecero già una dozzina di anni fa, all'epoca dando materiale, con le loro riflessioni protrattesi per molte sere in casa di De Luca, al volume "L'eredità scomoda", edito nel 2001 da Feltrinelli. I due interlocutori, che non hanno più operato nella stessa procura - Caselli dirige quella di Torino, dove tra poco concluderà la sua carriera, Ingroia, rimasto fino a tempi recenti alla procura di Palermo, poi trasferitosi per un breve periodo in Guatemala, quindi prestato a una poca fortunata avventura politica e oggi uscito definitivamente della magistratura - si sono ritrovati "sulle stesse poltrone" di casa De Luca a condividere e mescolare ricordi e giudizi, impegni ed episodi inediti, nel segno di una lotta ancora lontana dalla conclusione. Il libro verrà presentato giovedì 12 dicembre, alle 18, al teatro san Genesio di Roma (via Podgora 1, zona Prati) in un dibattito tra Caselli, Ingroia, Marco Travaglio e Maurizio De Luca, alla presenza dello scrittore Andrea Camilleri.
Il silenzio delle mafie, i nemici di Falcone e Borsellino, Palermo sull'altare (quando nella chiesa di Sariano, paese in provincia di Rovigo, il fondatore del pool Antonino Caponnetto chiese scusa di aver detto pubblicamente che, dopo le stragi, a Palermo la speranza stava morendo, e strappò l'applauso di tanti giovani...), infine le scorte e le coperte. Quattro corposi capitoli racchiudono le lunghe riflessioni dei due magistrati, lucide al punto da sembrare asettiche nel rievocare passaggi particolarmente "sensibili", primo fra tutti quello sulla stagione dei veleni, delle diffidenze e delle invidie tra giudici. Falcone definito con sufficienza "genio e superuomo", accusato di protagonismo per la candidatura alla successione di Caponnetto come capo dell'ufficio istruzione del tribunale di Palermo (che perde). Poi, una volta diventato procuratore aggiunto, ostacolato in ogni modo dai colleghi, al punto da far circolare la voce che il fallito attentato dell'Addaura il 21 giugno 1989 (una borsa con 58 candelotti di tritolo ritrovata nei pressi della villa affittata per le vacanze) se lo fosse inventato di sana pianta per farsi pubblicità, lui che se ne andava in giro dicendo "prima o poi la mafia mi ucciderà". Borsellino, che, nel 1988, lancia pubblicamente ad Antonino Meli - diventato capo dell'ufficio istruzione al posto di Falcone - l'accusa di aver smantellato il pool, ricacciando la lotta alla criminalità indietro di cinquant'anni, e diventa l'oggetto di una guerra di maldicenze e insidie brutta e lunga. Dice Caselli: «Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, osannati da morti, da vivi sono stati pesantemente ostacolati e alla fine umiliati umanamente e professionalmente lapidati».
Caselli arriva a Palermo dopo gli attentati, «quando i corvi volavano ad altezza d'uomo». Gli suggeriscono di emarginare i pm sospettati di aver orchestrato le manovre contro i giudici assassinati, ma il nuovo procuratore capo preferisce lanciare a tutti la sfida di «fare squadra». «Quando viene detto che la Procura di Palermo, dopo le stragi, ha ottenuto risultati eccezionali - ricorda - credo si dica la verità». La complessa macchina si è rimessa in moto, nonostante gli ostacoli, le persistenti manovre sotterranee, i misteriosi incidenti, come la mancata sorveglianza da parte di Ros e Carabinieri della villa di Totò Riina, col risultato che, quando finalmente i magistrati riescono a entrarci, tutto si è volatilizzato.
Nella ricostruzione a due voci di una stagione e di un clima, si aprono anche spazi per ricordi e aneddoti quasi surreali. Dopo la morte di Borsellino, le scorte ai giudici di Palermo vengono rafforzate. Non una novità per Caselli, già abituato alla vita blindata per le sue inchieste sul terrorismo, un drammatico cambiamento di abitudini per Ingroia. Quando Caselli, nel '94, vuole a tutti i costi partecipare a un dibattito sulla legalità a Corleone, nel paese dei boss più potenti, il caposcorta accetta di assecondarlo solo con carta bianca sulle modalità del trasferimento: sdraiarsi sul sedile posteriore di un'auto anonima, che sarebbe stata collocata sul piano più alto di una bisarca, accanto ad altre auto tutte procurate dalla scorta, e rimanere per tutto il tragitto nascosto sotto una coperta. A poca distanza da Corleone, dopo chilometri di strada priva di ripari naturali, Caselli viene fatto scendere e caricato su un'altra macchina che aspetta nell'ombra. Il suo ingresso a Corleone è trionfale, tra gli stupefatti carabinieri del paese, che non riescono a capacitarsi da dove fosse spuntato il giudice.
Ingroia non aveva forse mai riflettuto a fondo su come la sua famiglia vivesse quella prigionia forzata. Lo fa un giorno, attraverso gli occhi del figlio Marco, all'epoca di sei anni. I due stanno per entrare nell'ascensore di casa, ma hanno talmente tanti pacchi e pacchettini, che l'agente di scorta, armato, rinuncia ad accompagnarli fin sulla soglia dell'appartamento, com'è suo obbligo, e decide di farli salire. Marco, guardando il padre nello specchio della cabina, gli lancia un bacio e gli dice con tenerezza: «Qui noi finora non siamo mai stati soli».
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Una foto di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone del 21 gennaio 1998

giovedì 5 dicembre 2013

L'INTERVISTA
Ferzan Ozpetek: Rosso Istanbul, come l'amore

Ferzan Ozpetek torna a Istanbul, dov'è nato e cresciuto. Torna a rivedere sua madre, che nella fragilità della vecchiaia e della malattia ha scoperto un colore, il rosso, il colore di un nuovo amore. La sua città gli viene incontro con le memorie dell'infanzia: la nonna "principessa ottomana", le zie zitelle, ma libere e affamate di vita, la mamma bellissima e malinconica, che si è sposata due volte e custodisce un segreto, il padre scomparso per anni e poi riapparso, il primo amore dolce e proibito.
Ricordi, colori, passioni. È la trama di "Rosso Istanbul" (Mondadori, pagg. 111, euro 16,50), il primo libro del regista turco da anni trapiantato a Roma, arrivato in poche settimane alla terza ristampa. La storia di un ritorno, il suo, tra struggimento e nostalgia, intrecciata alla storia di una scoperta, quella della città, da parte di una donna incontrata per caso sull'aereo, che a Istanbul conoscerà il tradimento ma anche la voluttà e l'ebbrezza di una nuova libertà.
Biografia e invenzione si intrecciano, ancora una volta, nel paesaggio interiore di Ozpetek, autore di film come "Le fate ignoranti", "La finestra di fronte", "Saturno contro". Il regista e la sconosciuta si sfiorano, all'inizio e alla fine del viaggio nella città, nel passato di un uomo e nel futuro di una donna. E il romanzo, atto d'amore verso la madre, finisce per essere un contenitore magico di tanti amori, senza distinzioni di sesso, di età, di tempo. Nemmeno di numero, perchè, come lei gli ha insegnato, si può amare anche due persone allo stesso tempo, senza tradire nessuno. 
 Il regista Ferzan Ozpetek
Quanti rossi ci sono nel suo libro?
«Tanti. Tutto è cominciato dalla richiesta di mia madre: uno smalto rosso per le unghie. Poi c'è il rosso scarlatto dell'abito della ragazza che va incontro ai poliziotti con gli idranti per difendere gli alberi di Gezi Park. Il rosso dei carretti dei venditori ambulanti di simit, le ciambelle ricoperte di sesamo. Il rosso del cielo che vedo dalla finestra di casa mia, quando, di sera, sembra fondersi col mare».
E c'è il rosso sul colletto della donna, splendida, nella foto in copertina...
«È mia madre. L'idea di partenza del libro è nata dal cambiamento del nostro rapporto. Nel 2006 è stata operata male, è finita in coma e quando ne è uscita ha dovuto affrontare un periodo di riabilitazione. Così ha conosciuto il suo fisioterapista, un ragazzo di ventisei anni. Lei, all'epoca, ne aveva ottantadue, ma ha cambiato improvvisamente atteggiamento verso la vita. Non c'erano più il blu, il beige, le tinte pallide che l'avevano sempre accompagnata. Vedeva tutto coloratissimo, voleva il rossetto rosso, lo smalto rosso, la tuta da ginnastica rossa... E tra noi è come se si andasse creando una nuova conoscenza: una madre di una certa età che parla al figlio dell'amore, quasi fosse un suo amichetto. Naturalmente non tutto è biografico, perchè nel libro, come nei miei film, la conoscenza diretta si mescola all'invenzione, la verità alla fiction...».
Questo cambiamento l'ha colta alla sprovvista?
«Per due o tre minuti, confesso, sì. Poi ho scoperto che mi piaceva. Mi rilassava l'idea che mia madre fosse innamorata, quando sono lontano. Per tutta la vita facciamo i conti con i nostri genitori, e loro con noi. Ci poniamo lo stesso dilemma: sarò stato all'altezza? Mi sarò comportato bene? In fondo siamo bambini e genitori lungo tutto l'arco della nostra esistenza. Allora è caduto un tabù: parlare alla propria madre dell'amore». 

"Rosso Istanbul", il primo libro di Ozpetek
Com'è stata la sua educazione sentimentale?
«Tutta al femminile, e per fortuna. Le donne hanno un linguaggio superiore, un altro sguardo verso la vita rispetto agli uomini. Quello che io chiamo il mio harem è stato fondamentale per la mia educazione, anche se me ne sono accorto solo da grande, perchè è allora che uno riflette e valuta».
Mamma, ma anche due zie un po' speciali...
«Zia Betul e zia Güzin, bellissime e sempre elegantissime. Zia Betul - come la chiamo nel libro, ma non è il suo vero nome - è stata la mia maestra di aquiloni. Un giorno mi ha detto: "vieni, perchè ho comprato la carta per fare l'aquilone. Un uomo che non riesce a far volare un aquilone, non riesce a far felice una donna". Sembrava follia e invece zia Betul voleva dire che il modo di far felice una donna ha a che fare con la creatività, con il costruire qualcosa insieme. È importante nel rapporto tra due persone».
Donne emancipate?
«Molto, ma non a parole. Nei comportamenti e nei giudizi. Erano modernissime, perchè cresciute dagli anni venti in poi, nell'epoca del passaggio alla Repubblica. Ma non si sono trovate sempre bene nel cambiamento. Pensiamo che in Turchia le donne hanno votato prima che in Italia, si sono messe prima il bikini. Una trasformazione che è andata oltre il moderno. L'ultima volta che ho visto zia Betul mi ha fatto una grande tenerezza, era troppo intelligente per il mondo che la circondava».
E poi sua nonna, che le ha fatto scoprire il cinema.
«"Se fanno un film con la leonessa andiamo" diceva sempre. La leonessa era il leone della Metro Goldwin Mayer. Io le chiedevo continuamente: "Nonna, cos'è il cinema?". A quell'epoca i bambini non ci andavano, prima dei sette anni era vietato. Poi un giorno decise di portarmi, anche se non avevo ancora l'età giusta. Davano "Cleopatra" con Liz Taylor e Richard Burton, il mio primo film, il mio primo amore. Il cinema era Emek Sinemasi. Quando l'hanno buttato giù è stato un grande dolore, tanti si erano mobilitati per salvarlo. Così l'ho messo nel mio libro, l'ho salvato con le parole. Poi, una volta finito di scrivere "Rosso Istanbul", c'è stata la grande protesta per Gezi Park con la ragazza vestita di rosso contro la polizia. Mi succede anche nei film: il destino mi propone quello che sto girando, realtà e finzione si mescolano».
La protesta a Gezi Park (f. Osman Orsal/Reuters)
"Allacciate le cinture" è il suo nuovo film, con Kasia Smutniak, che uscirà a marzo. Le cinture per che cosa?
«Racconto di un matrimonio che dura da tredici anni in cui arriva una turbolenza abbastanza distruttiva. Le cinture servono a proteggersi».
Un film d'amore?
«L'amore è in tutte le cose che facciamo. Non c'è amicizia senza amore, non c'è la solidarietà. Tempo fa, una mattina prestissimo, saranno state circa le sette e un quarto, mi chiama la badante di mia madre. Come al solito mette giù la cornetta perchè richiami io. Stavo andando a girare "Magnifica presenza", a Cinecittà. Ho telefonato e mi ha passato mia madre. "Ricordati - mi ha detto - che niente è più importante dell'amore"».
Il film è ambientato a Lecce, una città di cui lei parla anche nel libro. Perchè?
«Il Salento è meraviglioso, Lecce la amo per le persone».
È mai stato a Trieste?
«Nel '78, tornavo dalla Turchia in auto, avevo fatto un lungo giro in Grecia e nell'ex Jugoslavia. Quando sono entrato a Trieste ho avuto una sensazione bellissima, come di un'allegria all'improvviso. Era fine agosto, un momento molto felice. Abbiamo mangiato in un ristorante, c'era un gruppo che suonava... So che Trieste è una città invernale, di vento forte, ma il mio ricordo è quello, di un cambiamento».
Lei, turco che vive da molti anni in Italia, in che cosa si sente italiano?
«Non lo so. Mi capita di sentirmi turco in Italia e italiano in Turchia. Io credo in quello che siamo in quel momento della nostra vita. Dappertutto mi sento straniero, ospite, e questa sensazione di vedermi "dall'esterno" mi piace. Avere due culture, due lingue, due paesi, due di tutto, è un grande privilegio».
Come mai ha scritto un libro?
«Per puro divertimento. Quando avevo diciott'anni ho vissuto vendendo i miei quadri, ero piuttosto bravo e ho avuto un piccolo successo personale come pittore. Allora raccontavo una storia dipingendo, come da regista la racconto nei film. Cambio solo il mezzo. In fondo, già scrivendo le sceneggiature, racconto una storia in un altro modo ancora».
L'amore di Ozpetek?
«Non sappiamo per quale motivo amiamo. L'amore non sa nè leggere nè scrivere, è ignorante».
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Il rosso di Istanbul

martedì 26 novembre 2013

MODA & MODI

Di che boot sei?

Ankle boots, biker boots, Chelsea boots, daily boots. Pare che senza uno qualsiasi di questi boot alle estremità, non si possa andare da nessuna parte. Gli stivaletti per ogni ora del giorno e della notte assediano le vetrine, in un tripudio di borchie, catenelle, plateau, lacci, fibbie, elastici, vernice e pelle, camoscio e gomma. Di rigore il nero, possibilmente con qualche bagliore metallico. Che fare? Lasciarsi tentare da un'appendice da motociclista, modalità cattiva ragazza, o dai tronchetti da gran sera, che raggiungono a stento la caviglia dopo essersi arrampicati su uno stiletto perlomeno dodici? La scelta è ardua, perchè prima di infilarsi nei boots, in tutte le loro immaginifiche varianti terminologiche, vanno studiate con cautela posologia e controindicazioni. I più inoffensivi sono i Chelsea, punta rotonda, elastico laterale, tacco inesistente: nacquero in epoca vittoriana e raggiunsero la fama quando li adottò, negli anni '60, il "Chelsea set", come la stampa chiamava quel gruppo di artisti e fashionisti ante-litteram che frequentava King's Road a Londra e che comprendeva Mary Quant e la modella Jean Schrimpton. Piacevano anche ai Beatles, seppure con l'aggiunta del "cuban heel", un tacchetto più alto. I "Chelsea" sono pratici, disinvolti, comodi, sia con i pantaloni a sigaretta sia con gonne e vestitini. Non richiedono gambe da top-model perchè si fermano discretamente a livello caviglia, evitando di segare in due il polpaccio e di scombinare tutte le proporzioni. Altrettanto non si può dire dei biker, stivaletti da centauro più o meno alti, tacco squadrato, carroarmato e ammenicoli vari, meglio se pungenti e luccicanti. Si sprecano i consigli per "ingentilirli" con gonnelline di tartan o twin-set pastello della mamma. Ma che senso ha infilare una calzatura per digrignare i denti, se poi ci si preoccupa di smorzarne l'effetto? Piacciono? E allora subito in sella con chiodo e jeans skinny, scendendo quando si avvicinano gli "anta".
Daily e ankle boots sono le due facce della stessa scarpa, altezza caviglia: da giorno tacco robusto, da sera spillo. Le puriste li tengono distinti dal tronchetto, che si avventura più in su lungo il polpaccio. Il conteggio dei centimetri è irrilevante: gli ankle sigillano il collo del piede e riducono l'altezza. Quella "percepita", certo, ma le bassine vanno ancora più giù.


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martedì 12 novembre 2013

MODA & MODI

In pelliccia di orso giocattolo

Pitonesse, leopardate? Già viste, troppo viste. La specie animale che va per la maggiore sono le orsacchiotte. Morbide, tenere, calde, politicamente corrette. Perchè la loro pelliccia è quella finta degli orsi Steiff, vero e proprio giocattolo di culto per collezionisti, prodotto in Germania dagli inizi del secolo scorso. I più rari di questi simpatici teddy bear raggiungono in asta quotazioni vertiginose, con un record che veleggia al di sopra dei centomila euro, neanche il vello ce l'avessero d'oro.
Ebbene, sarà un caso che tra i cultori dell'orsetto tedesco ci siano molti stilisti, dal "connazionale" Karl Lagerfeld a Marco Zanini, appena insediato alla direzione artistica di Schiaparelli, alla nostra Prada, ma quest'anno l'allegro plantigrado è uscito dai negozi per bambini ed è salito in passerella.
Mohair setoso, riccioluto o pettinato liscio, alpaca e cashmere tessuti al telaio, creano una eco-pelliccia tutta naturale, che si distingue immediatamente da quella ispida di poliestere, spiacevole al tatto, impettinabile come i capelli delle bambole e, una volta bagnata, impossibile da riportare all'originaria lucentezza. Chi non ricorda il proprio orsetto preferito (no logo) finito sotto l'acqua e poi asciugato col phon? Il pelo si trasformava in un tappetino di aculei, perdendo qualsiasi appeal consolatorio. L'orso Steiff, di tempra pannonica, resiste a qualsiasi intemperie senza trasformarsi in un animaletto spelacchiato da cartone animato. Per decenni ignorato dalla moda, oggi conquista perfino le colonne del Financial Times come alternativa "sostenibile" al pelo animale.
Lo stilista Dries Van Noten ha preso l'orsetto, l'ha rivoltato e riconvertito in giacche e cappotti confortevoli, caldi ma leggeri, per tutte le ore della giornata. Pelliccia scanzonata, che non sa da signora in gran montura. Tommy Hilfinger, meno credibilmente, la propone anche all'uomo, mentre la stilista russa Vika Gazinskaya  la mette tutta per strappare le sue ricche clienti da visoni ed ermellini offrendo l'alternativa divertente di stole di finta volpe (e autentico orsetto) con tanto di muso posticcio.
L'idea è eco fuorchè nel prezzo, perchè herr Steiff vende cara la pelle. Non sarà allora che sull'idea ludica prevale quella simbolica? Nostalgia della pelliccia e di tutto quanto significa: solidità e stabilità economica, sicurezza, certezze. Altro che gioco.
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Eco pelliccia firmata Vika Gazinskaya

martedì 15 ottobre 2013

MODA & MODI

Cappotto oversize, bene rifugio

Un po' bene rifugio un po' bene consolatorio, il cappotto è la riscoperta evergreen di quest'inverno. Dalle passerelle è finalmente approdato nelle vetrine, in primo piano, senza dover sgomitare per trovare uno spazio tra l'esercito impenetrabile e respingente dei piumini, in tutte le loro versioni e dimensioni.
E non è il cappottino modaiolo, corto, indeciso, con un'anima a tre quarti, un po' da maxi-giacca, adatto solo a quelle giornate anche loro indecise, umide come un inizio d'autunno ma non ancora abbastanza fredde per dichiararsi invernali. È ampio, scolpito ma comodo, con la vita segnata, spesso lungo fino ai piedi, avvolgente, confortevole, dal collo generoso per sistemarci sotto anche una sciarpa, o abbottonato fino al mento, o bordato di pelliccia, insomma un cappotto-cappotto, da portare col freddo e non solo come capo obbligato ma inefficace, quando goretex e giacconi imbottiti fanno a pugni con l'abituccio elegante e inconsistente della serata. È il cappotto dai materiali pregiati e dal taglio classico, concepito per attraversare più stagioni, per "durare", appunto, rispolverando una forma verbale ormai del tutto desueta in un'accozzaglia di trend e must-have.
Con sollievo guardiamo arretrare l'esercito insalsicciato dei piumini, che negli ultimi inverni aveva arruolato inesorabilmente alla sua causa ogni generazione, dalla bimbetta infilata nei colori candy candy, alle signore anta e molto over, imbacuccate in quelle specie di sarcofaghi lunghi fino ai piedi, informi e indistinguibili, tutte impacciate e paurosamente fruscianti a ogni minimo movimento. Se molti obiettano che il cappotto è scomodo per guidare o muoversi nel caos dei mezzi pubblici, altrettanto limitante è il piumino "tubolare", che in più, con la zip che corre fino alle caviglie, ti fa camminare con la scioltezza di un robottino.
Vuoi mettere uno dei bei cappotti di quest'anno, cintura in vita e gonna a ruota, cachemire e pied de poule, a vestaglia, doppio o monopetto, con inserti di eco-pelliccia o maniche di tessuto impermeabile, tradizionalissimo in nero, beige, blue e grigio, o più contemporaneo in rosa confetto, rosso, arancio, mirtillo? Ha le spalle arrotondate e scivolate, ma è sempre un po' fuori misura. Grande al limite dell'XXL.

Un bene rifugio, non solo per il portafoglio.
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I "cappottoni" di Christopher Kane e Stella McCartney

martedì 1 ottobre 2013

MODA & MODI

La gonna pelosa e l'effetto farfalla

Se le mezze stagioni (meteorologiche) non esistono più, le passerelle da tempo hanno decretato anche la scomparsa delle vere e proprie stagioni. Le ultime, da Milano, confermano: lunga stola di pelo argento per la primavera-estate 2014 da Roberto Cavalli, top di pelliccia su gonna plasticata da Dolce&Gabbana o, viceversa, gonna pelosa su top leggero. È vero che la moda non accetta il teorema della causa-effetto, ma, nelle stesse ore, le agenzie di stampa battono i numeri della recessione: ventimila imprese hanno chiuso i battenti nei primo otto mesi del 2013, e, nel settore commercio, un esercizio su quattro tra quelli scomparsi è di abbigliamento.
C'entra? L'obiezione, sulla carta, sembra facile. Il negozio dove approderà la gonna pelosa color bluette, che ricorda da vicino quei rivestimenti per poltrone e sedili d'auto che andavano per la maggiore negli anni Ottanta, non è certo quello, d'angolo, che è stato inghiottito dalla recessione.
Le "summer furs", come titolano baldanzosamente molti giornali e siti, le pellicce estive, approderanno nei lussuosi monomarca degli stilisti che se le sono inventate, esibite con gran dispiego di mezzi nelle vetrine come una pensata assolutamente geniale per palati fini: chi se lo potrebbe mai immaginare di proporre un capetto di pelo, smanicato, o una bella gonna di pelliccia a vita alta, o una lunga coda di un qualche animale da drappeggiare su una spalla nella canicola estiva? E il target di riferimento di questi pezzi per intenditori non è quello che frequenta il negozio defunto, ma una clientela internazionale, dal portafoglio gonfio, che sale su un aereo a Mosca dondolando la sua stola di pelliccia, o tacchettando dentro la gonna di pelo, per poi scendere a Singapore e infilarsi in una limousine con aria condizionata. Tutto vero, se non fosse che per una sorta di «effetto farfalla» della moda, quello che sfornano i grandi marchi viene imitato in chiave cheap da un'infinita serie di sottomarche e finisce pure nel negozio all'angolo, dove con tutta probabilità andrà ad allungare la lista degli invenduti da mettere in saldo appena un mese dopo.
Non è una gonna pelosa la colpa della crisi del sistema, ma chi pensa che il cliente tipo sia solo un miliardario frastornato, su cui mettere qualsiasi cosa, purchè firmata in bella vista, proprio come un appendiabiti.

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domenica 29 settembre 2013

IL FILM

Baby modelle sulla passerella per l'inferno

Casting in Russia
Fuori, un paesaggio spelacchiato, una nave mercantile in porto, strade sterrate e qualche carcassa d’auto. Dentro, in quella che potrebbe essere una palestra, ragazzine in bikini da quattro soldi si mettono in posa davanti alla macchina fotografica, ciascuna con un pezzo di carta in mano, su cui c’è scritto il nome, spesso impronunciabile, e misure da prepubertà. La macchina da presa si trattiene sugli esterni, una landa congelata dal freddo e dalla miseria, facendoci capire che lì, in Siberia, è importante avere un sogno. E loro, al massimo quindicenni, replicanti l’una dell’altra con la pelle diafana e i capelli lunghissimi, un sogno ce l’hanno davvero: diventare “girl model” e lasciarsi alle spalle la Russia per tentare la fortuna nel mondo dell’immagine.
Comincia così Girl Model il docu-film girato nel 2011 da David Redmon e Ashley Sabin, che esce per Feltrinelli Real Cinema accompagnato dal libretto “Apparenze” a cura di Anna Maria Pasetti, un collage di interviste agli stessi autori - coppia di documentaristi americani vincitori di molti premi - a poi a esperti nel campo della moda, a psicologi e sociologi (dvd e volume euro 16,90). Un film agghiacciante che segue passo passo il viaggio della speranza di Nadya Vall, tredici anni, scelta in un casting ai confini del mondo per rappresentare il noto brand americano di abbigliamento giovanile “Switch” sul mercato giapponese, dove “giovane è bello”, e più sei acerba e ingenua più fai vendere.
A far da contrappunto alla storia di Nadya c’è quella, parallela, dell’ex modella americana Ashley Arbaugh, diventata “reclutatrice” in Russia di nuovi volti da spedire nel paese del Sol Levante.

La baby modella Madlen
 

È stata proprio lei a contattare i due filmaker perchè girassero lo squallore e lo sfruttamento infantile che si celano dietro la promessa delle passerelle, ma nel film la sua volontà di denuncia è sfuggente e la sua figura rimane avvolta nell’ambiguità, finendo per assumere i contorni della vittima diventata il più implacabile carnefice delle bambine che sceglie. Non le protegge, non le incoraggia, si limita a guardarle come un entomologo e a osservare in loro la sua stessa sofferenza. La moda è un “mondo inconsistente, perfino noioso”, dice Ashley, ma poi ammette che è anche una droga da cui non ci si libera. A costo di diventare parte del marchingegno di tortura.
C’è un momento, nel documentario, in cui David Redmon appoggia idealmente a terra la telecamera e si sveste dei panni del testimone per aiutare la piccola modella. È quando Nadya si trova, sola, nell’immenso aeroporto di Tokyo, senza saper pronunciare una parola se non in russo. Porge il dizionario, smarrita, alla hostess, cercando invano il modo di acquistare un biglietto dell’autobus, mentre le luci abbaglianti si riflettono nei suoi occhi sgranati.
Scorrono in sequenza i fotogrammi di quello che ha lasciato in Siberia. Una mamma orgogliosa fino alle lacrime della coroncina simil-swarovski di Miss Elite Star, che ha assicurato alla sua piccola un contratto di lavoro temporaneo in Giappone, un padre che spera, coi guadagni promessi, di ristrutturare la casa, un’intera comunità che sogna il riscatto sociale. «Credo che non si debba crescere troppo in fretta», confessava Nadya alla telecamera appena pochi giorni prima della partenza, mentre raccoglieva ribes nell’orto con la nonna.
E invece. Casting defatiganti da un capo all’altra della megalopoli nipponica, poco da mangiare e un appartamento grande come una stia per polli, da dividere con la compagna Madlen, che però è benestante e ha una carta di credito e un telefono per chiamare casa. Le due, morte di fame, sgranocchiano dolcetti vicino ai letti a castello, non sapendo che nei loro contratti c’è scritto che la Switch può cambiare le clausole a suo piacimento e che nessun lavoro è garantito. A Madlen basteranno due centimetri di troppo sul giro vita per essere rispedita a casa con un debito di oltre duemila dollari.
Ashley è la proiezione di quanto accadrà alle modelle-bambine, almeno a quelle che riusciranno a non essere stritolate. Nella sua enorme e vuota casa design, acquistata ad appena ventitrè anni, senza una traccia di calore, impermeabile a qualsiasi intimità familiare, raggelante come la landa siberiana da cui Nadya è partita, la “reclutatrice” vive con due bambolotti di plastica, un maschio e una femmina, nudi e abbandonati sul divano di pelle: «Li ho comprati quando ho preso casa, perchè una casa non è tale senza figli e questi sono i miei figli». Poi l’immagine si sposta e Ashley viene ripresa di profilo, mentre guarda allo specchio la sua pancia arrotondata. Non è una nuova vita che comincia: in un letto d’ospedale la giovane donna mostra crudamente la cisti e il fibroma che le hanno tolto e, alternando poche frasi smozzicate a silenzi eloquenti, parla del sogno di una futura maternità.
Nessun giudizio, se non per implicazione. Nel film si sentono solo le voci dei protagonisti. «A scopo educativo - dice Tigran, l’agente di Nadya e tra i più potenti model booker del Paese - qualche volta le portiamo in visita all’obitorio di San Pietroburgo. Facciamo vedere loro le ragazze e i ragazzi morti per droga. È una cosa che non dimenticheranno mai. E se non è sufficiente le facciamo assistere a un’autopsia. Credimi, ha un effetto devastante. Perchè pensano che potrebbe capitare a loro».
Nadya ha deciso di continuare a fare la girl model, nonostante anche lei sia tornata indietro dal Giappone solo con un mucchio di debiti. «Abbiamo saputo - dicono Redmon e Sabin e in un’intervista riportata nel libro - che è andata in Cina per alcuni lavori. Onestamente siamo rimasti sconvolti nell’apprendere che tanta sofferenza non sia bastata a farle cambiare idea, ma comprendiamo anche che in quella fascia d’età e con un background famigliare e culturale come il suo, tutto può sembrare migliore che non restare a a casa. Il vero problema è che queste teenager si espongono a un “mercato umano” fortemente sessualizzato, con tutti i rischi implicati al caso».
Sul blog del film http://girlmodelthemovie.com/ si raccolgono i nomi delle giovanissime morte per autodistruzione, di cui solo le famiglie custodiscono ormai le storie. Non sono top model, nessuno se le ricorda. «Chi difende l’industria della moda - si legge - ammette che esistono diversi problemi al suo interno, ma li espone come problemi di un’industria qualunque. Dimenticandosi così che in quest’industria si investe sulla vita di giovanissime donne. La maggioranza viene sbattuta in uno stile di vita “adulto” prima di raggiungere l’effettiva età adulta. La moda reagisce definendosi un’arte. Ma - posto che arte sia - è giusto che siano le vite di queste ragazze a pagarne il prezzo?». Segue un elenco di trentun nomi, dai sedici ai trentasei anni: donne morte per anoressia, overdose, la maggior parte per suicidio.
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Nadya Vall con la nonna



mercoledì 25 settembre 2013

IL PERSONAGGIO

Maryla Lednicka, la scultrice delle navi inghiottita dall'oblio

C'è qualche collezionista privato, o qualche istituzione triestina, che custodisce nelle sue raccolte un busto dell'armatore Oscar Cosulich sulla cui attribuzione nutre dei dubbi? O magari possiede qualche altra scultura di pregevole fattura, in marmo o legno, la cui firma è un nome avvolto nella nebbia? Pezzi recuperati da qualche nave andata distrutta?
L'autrice di queste opere potrebbe essere un'artista polacca, Maryla Lednicka, famosa e apprezzata in Italia tra gli anni '20 e '30 del secolo scorso, che raggiunse l'apice della carriera con alcune opere realizzate per navi costruite a Trieste e a Genova: la Victoria, il Conte di Savoia, il Rex e l'Oceania.
Maryla ebbe in sorte il destino peggiore che può capitare a un artista: le sue più importanti sculture, anche monumentali, collocate a Milano o sulle navi, sono state inghiottite durante la seconda guerra mondiale, distrutte o perdute. E il suo nome, quando non è caduto nel buio più totale, è stato confuso con quello di Tamara de Lempicka, di cui, per ironia del destino, Maryla fu amica per alcuni decenni: si frequentarono a Parigi tra il 1919 e il 1923, quando la Lednicka lavorava anche con l'architetto Adrienne Gorska, sorella di Tamara, poi a Milano e infine a New York, dove la Lednicka arrivò nel 1938 e la Lempicka nel '42, ritrovandosi a vivere a pochi isolati di distanza. Qui Maryla si suicidò, nel 1947, gettandosi da una finestra: il fratello Waclaw, grande slavista e docente all'Università di Berkeley, testimoniò che era depressa e aveva problemi economici, al punto da non riuscire nemmeno più ad acquistare la materia prima per le sue sculture.



Maryla Lednicka, a sinistra, con Tamara de Lempicka, di cui fu amica per decenni
 

A investigare in quello che è un appassionante "giallo" artistico, ma soprattutto a ricostruire una carriera arrivata ai vertici della fama e poi piombata inspiegabilmente nel dimenticatoio, è la storica dell'arte Gioia Mori, che in Maryla si è imbattuta proprio attraverso Tamara, di cui è la massima esperta in Italia. «In effetti - racconta - è una storia che sembra uno scherzo del destino. Sono stata infatti interpellata dalla Banca d'Italia per visionare una scultura, che faceva parte della collezione dell'istituto dai primi anni 30. Già negli anni '50 si era perso il nome dell'autrice, forse perchè troppo difficile da trascrivere. Nel '97 l'opera fu sottoposta a restauro e in quell'occasione eminenti studiosi la attribuiscono a Tamara de Lempicka: è firmata, ma il cognome "Lenicka" venne letto male. Quando ho visto la scultura - prosegue la professoressa Mori - ho subito riconosciuto "L'angelo nero", un'opera che avevo visto pubblicata in diversi articoli della stampa polacca negli anni '20 e '30, perchè all'epoca era tra le più famose di Maryla Lednicka. Così ne ho ricostruito l'intera storia, restituendole la giusta "maternità"». L'attribuzione corretta è pubblicata nel bel catalogo Skira che correda la mostra su Tamara de Lempicka allestita nei mesi scorsi alla Pinacothèque di Parigi (8 aprile-8 settembre 2013), e curata dalla Mori: il libro ricostruisce il rapporto tra le due artiste e rende giustizia postuma alla vera artefice dell'"Angelo nero". La scultura era stata esposta a Parigi nella mostra "La Jeune Pologne" nel '22 e poi in due personali della Lednicka a Milano, nel '24 e nel '26. 

"L'angelo nero" di Maryla Lednicka dal catalogo Skira dedicato a Tamara de Lempicka a corredo della mostra parigina
 

Ma chi era Maryla  Lednicka? E qual è il suo legame con Trieste? Di lei troviamo traccia in due articoli del "Piccolo". Il primo, del luglio 1931, cita due opere realizzate per la "Victoria", motonave costruita dal Lloyd Triestino per il servizio celere Trieste-Alessandria d'Egitto: il pannello di legno con una scena di caccia, accanto allo scalone che dal secondo conduce al terzo e quarto ponte, e la "Vittoria rutilante d'oro" collocata nel bar. In chiusura si fa menzione anche del busto di Oscar Cosulich, ma senza dare di quest'ultimo ulteriori riferimenti. Il secondo articolo, dell'aprile 1932, firmato da Mieczyslaw Treter, il maggiore storico dell'arte polacco dell'epoca, dà notizia della partecipazione di Maryla alla XVIII Biennale di Venezia come artista indipendente, fuori da gruppi o correnti.
Nata nel 1893, Maryla Lednicka approda a Parigi nel 1913 e poi vi ritorna nel '19, dopo la prima guerra mondiale, ed espone al Salon d'Automne del '20. In quegli anni divorzia dal marito, il nobile Wladislaw Niemirowicz-Szczytt, ma per un po' sceglie di firmare col suo cognome da sposata, uno scioglilingua impronunciabile. In Italia arriva nel 1924 col padre, lo statista Alexander Lednicki, personalità politica molto in vista, e fa tappa a Varese nella villa di un amico di famiglia, il banchiere Jozif Toeplitz, presidente della Banca commerciale italiana e potente mecenate degli artisti polacchi: doveva essere per lei un breve soggiorno estivo, vi rimarrà quindici anni.
Fu molto stimata dagli artisti e dai critici italiani. La sua personale del '26 a Bottega di Poesia, la galleria di via Montenapoleone a Milano gestita dal conte Emanuele Castelbarco, fu presentata da Carlo Carrà. A Milano collaborò con due architetti di punta, Giuseppe de Finetti e Piero Portaluppi, ornando con quattro gigantesche cariatidi il Padiglione degli Alimentari della Fiera di Milano progettato dal primo, e con una statua la fontana firmata dal secondo per la Banca commerciale italiana. «Finora - racconta Gioia Mori - il corpus di opere della Lednicka che ho rintracciato è costituito da due sculture che sono al Muzeum Narodowe di Varsavia, una del Museo teatrale di Cracovia, oltre alla tomba Lednicki a Varsavia. In Italia ho ritrovato la fontana realizzata con Portaluppi in via degli Omenoni a Milano, nel 1930, che poco dopo venne rimossa. È stata rimontata in un cortile interno di Banca Intesa, ma nessuno sapeva chi ne fosse l'autore. È l'unica opera monumentale della Lednicka che si sia salvata».
Per quanto riguarda le opere per le navi, Mori precisa: «L'articolo pubblicato sul Piccolo nel '31 aveva avuto una certa risonanza sulla stampa polacca e io ne avevo notizia attraverso "Wiadomosci Literackie" di quell'anno. La "Victoria" fu disarmata a Genova all'inizio della seconda guerra mondiale, per essere utilizzata nel trasporto delle truppe in Africa, e poi affondata nel '42 nel golfo della Sirte. Ora è da vedere se nel disarmo quelle opere si salvarono e magari sono "anonime" in qualche casa oppure se andarono veramente distrutte...». 


La scena di caccia del pannello che Maryla Lednicka firmò per la nave Victoria
 

Su Maryla Lednicka, Grazia Mori sta scrivendo una monografia, che uscirà il prossimo anno. Sicuramente la scultrice realizzò busti per committenti triestini, oltre a quello di Cosulich, che potrebbero trovarsi ancora nelle case degli eredi o in qualche istituzione cittadina.
C'è qualcuno che può aiutare la studiosa a completare il catalogo delle opere di Maryla, ricostruito finora attraverso documenti, immagini, archivi tra Polonia, Italia, Francia e Stati Uniti? Anche una sola scultura può essere un tassello importante per restituire identità all'artista dalla vita come un romanzo, celebrata e poi divenuta fantasma. E questo tassello, magari finora ignorato, può essere qui, a Trieste.


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Il busto di Maria José firmato Lednicka installato sul "Conte di Savoia"

mercoledì 18 settembre 2013

IL LIBRO

Sira e Blanca, le donne di Maria Dueñas

La scrittrice spagnola Maria Dueñas

Una donna che ha perso le sue coordinate e un capitolo di storia spagnola da riscoprire. Ancora una volta Maria Dueñas trova l'alchimia tra questi due elementi per confezionare un romanzo teso e affascinante, ricco di rimandi al passato senza essere pedante, dove le scelte della protagonista diventano un elegante pretesto per andare indietro nel tempo, sulle tracce, e dentro i segreti, del Camino Real, le missioni dei francescani spagnoli in California. "Un amore più forte di me" (Mondadori, pagg. 389, euro 19,50) esce a tre anni di distanza da "La notte ha cambiato rumore", il primo libro di Dueñas, diventato un best seller da venti edizioni grazie al passaparola dei lettori. Al centro della vicenda c'è sempre una donna i cui punti di riferimento familiari e sentimentali si liquefanno dal giorno alla notte, costringendola a tagli chirurgici e svolte repentine per ritrovare un equilibrio. Nel romanzo d'esordio ("La notte ha cambiato rumore") era Sira, la sarta che diventerà creatrice di alta moda nel protettorato spagnolo di Tetuàn, in Marocco, e stringerà amicizie pericolose con alti esponenti del regime franchista. In questo nuovo libro è Blanca Perea, docente come l'autrice, che, all'indomani della scoperta del tradimento del marito, prossimo padre del figlio di un'altra donna, accetta l'incarico della defilata università di Santa Cecilia, in California. Si tratta di mettere ordine nelle carte di Andrés Fontana, un letterato spagnolo morto trent'anni prima, il cui lascito è da allora sepolto sotto la polvere e l'indifferenza.
Quella di Blanca è una fuga. Dal tradimento, dalla disillusione, dal ricordo di una vita familiare solida e in apparenza serena che ha contribuito a costruire con tante rinunce, anteponendo le ambizioni del marito a qualsiasi sua gratificazione professionale. E le carte di Fontana, le sue minuziose ricerche sulla fondazione delle missioni oltreoceano, rappresentano il primo rifugio in cui barricarsi, il puzzle monco dei suoi appunti l'antidolorifico con cui addormentare il cervello e impedirgli di attorcigliarsi sul passato.
Dai freddi documenti, alle onde magnetiche di un uomo vero. Quando Blanca vede per la prima volta il volto di Fontana in una vecchia fotografia, capisce che il suo approccio è sbagliato. Non bisogna solo registrare e archiviare fogli ingialliti, ma tornare sui passi del letterato, vivere la sua passione, cercare, come lui, di svelare il mistero di un francescano ribelle alle direttive dei superiori e di una missione di cui non esiste alcuna traccia.
Quelle carte nascondono non solo le orme del Camino Real, ma le ombre di tante vite. Quella di Daniel Carter, per esempio, l'allievo più brillante di Fontana, oggi luminare degli ispanisti americani, che torna a Santa Cecilia non appena ha notizia che qualcuno sta mettendo le mani sull'eredità del maestro. Di Aurora, la moglie che Carter aveva incontrato durante un viaggio di formazione in Spagna e sposato su due piedi in modo rocambolesco, contro ogni convenzione, anche lei rimasta vittima delle ambizioni di un marito giovane e promettente, fino a morirne. Di Luis Zárate, il frustrato direttore dell'istituto universitario, di Darla Stern, l'ottuagenaria ex segretaria, una megera inacidita con i suoi segreti e le sue recriminazioni.
Tutti questi personaggi devono fare i conti con qualcosa di irrisolto, un filo tagliato di netto e rimasto a penzoloni. Sullo sfondo di un pezzo di Spagna trapiantato in America, è la passione che alla fine riuscirà a riportare ciascuno di loro alla vita. Come in quella di padre Altimira e della sua "Misión Olvido", l'ultimo tassello del puzzle viene alla fine recuperato e rimesso con delicatezza al suo posto. Così il disegno, individuale e corale, può essere letto. E la sfida di un altrto amore, accettata.

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martedì 17 settembre 2013

MODA & MODI

Stritolate dai must have 

Must have. Imperativo categorico da mettersi addosso. Trend da seguire, mood in cui sprofondare, pezzo da accaparrarsi per essere "it", una it-girl con la sua it-bag. La moda di questi giorni è piena di obblighi, di capi che si devono avere, comprare, portare. Detto in inglese non fa lo stesso effetto, anzi, quel must infilato qua è là nelle riviste o nei patetici "tutorial" televisivi per imparare a vestirsi (con capi per lo più orrendi, va detto, ma bisogna pur pagare un prezzo agli sponsor...), il must, insomma, sembra il solito vezzo dei modaioli di professione, che infilano una parola straniera ogni due per far vedere che fanno parte di un giro ristretto.
In italiano cade tutto il glamour, tanto per seguire la corrente: quella fantasia, quel capo, quel colore "devo-avere" dà più l'impressione di un esercizio da ragioniere che di stile. E l'aspetto più ridicolo di questa tirannia psicologica è che, seguendo l'ormai frenetico ritmo al quale vengono sfornate le collezioni - fino a dieci in un anno, considerando le ridicole "cruise", crociera, e pre-fall, prima dell'autunnale vera e propria - siamo già bombardati da quello che "dovremmo" indossare nella prossima primavera-estate, che da New York, dove si è aperto il calendario delle fashion week, sta rimbalzando a Londra e poi a Milano e Parigi. Ovvero, stiamo già allenando gli occhi su tinte e stampe che, a meno di non essere un miliardario dei paesi Brics dalla fornitura anticipata, troveremo in negozio almeno tra sei mesi, mentre nelle vetrine cominciano a comparire i "must" che abbiamo assorbito sei mesi fa, roba da sdoppiamento della personalità.
Quindi, facciamo scorrere indietro le lancette dell'orologio e ricapitoliamo. Quali sarebbero i "must" dell'inverno? Resettiamo abitucci con le frange, righe, pelle traforata al laser che campeggiano sulle pagine dei giornali di questi giorni, e infiliamoci in una maglia animalier, in una gonnellina di tartan, in un giubbotto di pelle, in un paio di tronchetti borchiati o di cuissardes, in una pelliccia, eco o autentica. Ma come, i "must have" vi sembrano obsoleti? Niente paura, non è solo perché li abbiamo già visti sviscerati e moltiplicati dal web mentre aspettavamo ancora il primo sole primaverile, ma perché effettivamente sono obsoleti. Da almeno tre stagioni c'è poco di nuovo, anche nel campo dei colori dove, accanto al nero, ci sono blu e grigio, entrambi, come da copione, il nuovo-nero. Un'unica consolazione: se, almeno una volta, abbiamo ceduto a una tentazione da fashion victim, ce la ritroviamo nell'armadio quasi nuova. Must, certo, ri-have.


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 Anna Dello Russo con il copricapo a ciliegia di Piers Atkinson

martedì 3 settembre 2013

MODA & MODI

Borchie come zavorra


L'onda metallica continua. E si fa più acuminata, quasi avessimo bisogno di una corazza di aculei per attraversare i rigori dei prossimi mesi. Il punk celebrato nella grande mostra al Metropolitan Museum di New York ha disegnato una perfetta cornice, un "alibi" intellettuale per l'abbondanza di dettagli "heavy" che renderanno l'inverno ferrigno (e pure ferino, con il ritorno alla grande della pelliccia, eco ma anche no). È da un po' di tempo che la moda cosparge ogni superficie utile con una spolverata sbrilluccicante, non si capisce bene se per rianimare capi ripetitivi e banali che, dalle passerelle delle griffe, scendono a cascata fino alle catene cheap (e più i prodotti sono ordinari, più sale la concentrazione di paillettes, glitter, borchie e borchiette), oppure per citare tendenze fashion del passato e adeguarle al tempo presente (che non è arrabbiato come per i punkaioli, ma incerto, e dunque eccede, quasi per compensarci di altre mancanze). Ne fanno ancora le spese le scarpe da ginnastica simil-Converse, ormai infarcite di applicazioni dorate o argentate come uno strudel dell'uvetta, con quel risultato ibrido che gli esperti di moda si arrabattano a definire "urban chic" (per quanto impaillettate restano scarpe da ginnastica, non si possono promuovere in nessun'altra categoria dell'armadio...).
Eccoci all'inverno del nostro scontento, dunque. Che, tra le tante altre confuse tendenze, sarà "metallaro". Niente di bassa lega, assicurano le bibbie, sventolando gli esempi nobili di Valentino con la sua linea Rockstud, o Louboutin e i suoi tacchi inarrivabili irti di spuntoni argentati, o, per risalire indietro nel tempo, Versace e la sua rivisitazione "colta" del punk.
L'accessorio che va per la maggiore sono gli anfibi di pelle borchiati, di rigore in nero. I più cattivi hanno il tacco a carroarmato, ma si trovano anche proposte addomesticate, come gli stivaletti di camoscio con gli strass, o con le cinghie, o con una fantasia di pietre e borchie insieme, stile arma impropria. La febbre da metallo risale fino alla borsa, che si carica di anelli, rivetti, catene. Contagiate anche due icone, che di altro non avevano bisogno: la clutch di Alexander McQueen con la chiusura a teschio, che in questa versione cattiva è di nappa con tanti anelli, e la tracolla di nappa matelassée di Chanel, riveduta e corretta con catene. Completano il look i pantaloni con binari di applicazioni in metallo.
Bello? si chiederebbe uno dei miei blog preferiti, www.againstfashion.wordpress.com. No, soprattutto ripetitivo, già visto, poco versatile. In una parola: pesante.
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giovedì 22 agosto 2013

MODA & MODI

Vintage da Trieste alla conquista dell'America




il "Thrifty Hunter Magazine", rivista quadrimestrale americana per appassionati di vintage, ha "scoperto" la moda d'antan di Trieste. Lei, la modella del servizio fotografico, sembra uscita da una puntata delle serie televisive "Mad Men" o "Pan Am". Con lo chignon, il vestito che strizza la vita e spinge in fuori il seno, l'immancabile filo di perle, potrebbe essere una delle tante e conturbanti segretarie in attesa di carriera negli uffici dei pubblicitari newyorkesi, o una hostess della storica compagnia aerea in un momento di libera uscita, impegnata, tra un volo e l'altro, a far decollare anche la vita sentimentale. Donne che andavano alla guerra dell'emancipazione con un filo di rossetto e le scarpe inesorabilmente abbinate alla borsetta, come racconta Rona Jaffe nello splendido "Il meglio della vita", storia di amicizia al femminile negli anni Cinquanta, molto prima di Sex&TheCity, quando c'era il tacco "kitten", l'antenato dello stiletto.
L'universo maschile considerava le signore dell'epoca, soprattutto, accessori. Ma che accessori. Dal cerchietto in giù, il loro modo di vestire ci piace ancora. Il vintage spopola nei negozi veri e virtuali, con una frenetica attività di re-commerce e una miriade di siti, blog, pubblicazioni specializzate, edite soprattutto all'estero.
Proprio una di queste, il "Thrifty Hunter Magazine", nata da poco ma già conosciuta dagli estimatori del riciclo d'autore, con sede in California e collaborazioni da tutto il mondo, ha pubblicato sull'edizione cartacea e on-line di luglio, un ampio servizio ambientato a Trieste e firmato dalla fotografa di moda Michela Riva, e ne ha commissionato un secondo, già realizzato, che uscirà in autunno.


Vintage style da Trieste (foto Michela Riva)

Le immagini inviate oltreoceano hanno catturato infatti l'attenzione della caporedattrice del magazine, Gabrielle Lewis, che ne ha volute altre, questa volta in esterno e nel centro storico, dirottando in città, a dar man forte alla squadra locale, l'hairstylist Briana Cisneros, una sua diretta collaboratrice che quest'estate si trovava già in Europa per lavoro. «È stata una grande soddisfazione: il nostro servizio, "About a woman", occupa sei pagine, proprio in apertura», racconta Riva. «La rivista è giovane e pubblica look sofisticati realizzati esclusivamente con capi vintage e di seconda mano. Abbiamo avviato un rapporto con loro e le nostre idee sono piaciute molto».
Tutta triestina la squadra di appassionate di stili e atmosfere retrò che ha curato l'ambientazione e preparato la protagonista del servizio: le stylist Alessia Alessio-Vernì e Michela Puzzer, Cecilia Carbonelli per il trucco e Alina Brichese per le acconciature, mentre lo spazio è quello di "Boogaloo", dove la stessa Alessio-Vernì raccoglie abiti, accessori e oggetti d'arredo d'epoca con cui sono state ricreate, con molto gusto e qualche licenza cronologica, le ore di una giovane signora - la modella Martina Klimic - a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, tra bon ton e avvisaglie di flower-power.
Il servizio autunnale si sposta in Cittavecchia, tra l'Arco di Riccardo, Santa Maria Maggiore, le strade che si aprono dietro Cavana, piazza Unità. Cisneros, acconciatrice californiana, ha costruito un'autentica scultura di lacca e cotonatura sulla testa della protagonista del racconto fotografico e non sono stati pochi i passanti, autoctoni e turisti, spiazzati dall'estemporanea visione della modella in soprabito color canarino, stivali e un'imponente "cofana" nella canicola di luglio.
Riva collabora anche con altre testate indipendenti: le immagini di "Dolls", abiti vintage fotografati in una casa privata triestina, sono state pubblicate da una rivista digitale olandese, mentre un altro servizio, realizzato a Villa Revoltella, è stato acquistato in America. Quest'ultimo nasce da una sinergia creativa tutta locale, con i cappellini "Ullalà" di Michela Puzzer, gli abiti di Francesca Palmitessa e gli accessori "CollaneVrosi" disegnati da Lodovica Fusco.
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Martina Klimic posa per il numero di luglio di "Thrifty Hunter Magazine" (foto di Michela Riva)



martedì 20 agosto 2013

MODA & MODI

A Londra si va all'idro-cinema

Una festa notturna o un film d'epoca da gustare in ammollo con perfetti sconosciuti. L'estate delle metropoli abbatte le barriere, soprattutto quelle della privacy. E da Londra si propaga la moda del relax in "altezza". Perchè se i locali dove mangiare e divertirsi all'aperto, soprattutto in centro, sono ridotti e costosi, la novità è sfruttare le terrazze di vecchi edifici, trasformate in aree lounge e cinema open air.
La parola magica da cercare on-line per tenersi aggiornati sulle proposte ad alta quota urbana è "roof". Il tetto, complici ancora una volta finanze e vacanze ridotte, dopo la riconversione in orto da città, oggi si riscopre "social": si sta insieme, mangiucchiando e bevendo molto, con la visione - gratuita - dello skyline. Date un'occhiata a http://dalstonroofpark.co.uk, definito sulla home page una "urban outdoor oasis" per centotrenta ospiti: giardinetto curato da professionisti, sdraio, copertura gonfiabile in caso di pioggia, un calendario che va dalle degustazioni agli incontri a tema, dalle proiezioni ai dj set, con la possibilità di affittare la struttura per eventi privati. Per i cinefili il sito http://www.rooftopfilmclub.com, che propone vecchie pellicole sulle terrazze di quattro edifici diversi, con servizio bar e, a Kensington, anche hamburger, hot dog o uno spuntino vegetariano incluso nel prezzo. Se poi si tratta di un musical, gli spettatori sono invitati a cantare e ballare accompagnando le immagini sullo schermo, così da ottimizzare pure il numero delle sedie a disposizione.
Più estrema e sottilmente inquietante è l'offerta di http://hottubecinema.com, che in questi giorni festeggia un anno di vita. Si sale sul tetto di un edificio di Shoreditch, a est della capitale, per immergersi in jacuzzi gonfiabili e guardare, con i propri compagni di vasca, prima il tramonto poi il film, sorseggiando cocktail alla cifra non propriamente modesta di circa 30 sterline. Se solo l'idea di un pranzo alla cieca vi mette ansia, l'ipotesi di idromassaggiarvi con estranei per un' intera serata, seppure sotto le stelle londinesi, è da scartare senza rimpianti. Sul sito, però, buona parte delle proiezioni sono "sold out" e gli organizzatori annunciano anche un idro-cinema invernale al chiuso. È il drive-in rivisitato: un pacchetto divertimento-benessere a chilometro (e intimità) zero.
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