venerdì 6 dicembre 2013

IL LIBRO

Caselli e Ingroia, confronto a due voci sui vent'anni "contro"

Manifestazione a Palermo in memoria di don Puglisi, settembre 1993 (fonte Shobha/Contrasto)

Antonio Ingroia ricorda il primo incontro con Giovanni Falcone, nel suo ufficio-bunker alla procura di Palermo. Lui, neofita in magistratura, assegnato come uditore giudiziario al giudice blindato, il primo uditore della sua carriera. Non era un estroverso, Falcone. Spesso manifestava i suoi sentimenti solo con un'impercettibile smorfia del viso, con un cambio nel tono della voce. Dopo un mese, improvvisamente, rompe il silenzio e chiede a Ingroia se vuole occuparsi di inchieste di mafia. Il giovane magistrato, sorpreso, si vede consegnare un libro con centinaia e centinaia di verbali istruttori, le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonino Calderone. Di lì alle settimane successive lo leggerà con attenzione, senza mai farlo uscire da quelle quattro mura d'ufficio, che si favoleggia imbottite di metallo, come le porte e le finestre, per salvare la vita al giudice Falcone. «Capita di occuparsi di fatti di mafia un po' per caso, un po' per destino», dice Ingroia. «Da quel momento in poi Falcone instaurò con me un rapporto di maggiore confidenza e mi piace pensare di aver superato positivamente uno dei test più impegnativi della mia vita».
Anche Gian Carlo Caselli ricorda. Giovanni Falcone è stato ucciso da poco, insieme alla moglie Francesca e alla scorta, nella strage di Capaci del 23 maggio 1992. Lui partecipa a un dibattito pubblico, a Milano, quando un ufficiale dei carabinieri gli si avvicina con un sorriso timido e gli sussurra, assicurandosi di non essere sentito: «Il dottor Borsellino le manda a dire che per lei non è ancora arrivato il momento di andare in pensione». Caselli è infastidito, crede che l'osservazione si riferisca al suo lavoro in Corte d'Assise come a una sorta di pre-quiescenza. A quelle parole ripenserà neanche tre mesi dopo, domenica 19 luglio, quando, mentre è impegnato in un dibattito sulla mafia in un piccolo paese del Piemonte, davanti a poca gente, deflagra la notizia della strage di via D'Amelio, dei cento chili di tritolo che hanno dilaniato il giudice Borsellino. E allora, nel momento di sommo strazio, Caselli rileggerà nella mente quella frase, accolta sul momento con irritazione, ma lucidamente profetica.
S'intitola "Caselli-Ingroia. Vent'anni contro. Dall'eredità di Falcone e Borsellino alla trattativa" il libro curato dal giornalista Maurizio De Luca, per oltre dieci anni direttore editoriale dei giornali locali del Gruppo Espresso, che esce per i tipi degli Editori Laterza (pagg. 261, euro 16,00). In occasione di un anniversario sofferto e dibattuto, davanti al crescere delle ombre e della polemica sui rapporti tra lo Stato e gli uomini di Cosa Nostra, i giudici Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia si mettono di nuovo a confronto, come fecero già una dozzina di anni fa, all'epoca dando materiale, con le loro riflessioni protrattesi per molte sere in casa di De Luca, al volume "L'eredità scomoda", edito nel 2001 da Feltrinelli. I due interlocutori, che non hanno più operato nella stessa procura - Caselli dirige quella di Torino, dove tra poco concluderà la sua carriera, Ingroia, rimasto fino a tempi recenti alla procura di Palermo, poi trasferitosi per un breve periodo in Guatemala, quindi prestato a una poca fortunata avventura politica e oggi uscito definitivamente della magistratura - si sono ritrovati "sulle stesse poltrone" di casa De Luca a condividere e mescolare ricordi e giudizi, impegni ed episodi inediti, nel segno di una lotta ancora lontana dalla conclusione. Il libro verrà presentato giovedì 12 dicembre, alle 18, al teatro san Genesio di Roma (via Podgora 1, zona Prati) in un dibattito tra Caselli, Ingroia, Marco Travaglio e Maurizio De Luca, alla presenza dello scrittore Andrea Camilleri.
Il silenzio delle mafie, i nemici di Falcone e Borsellino, Palermo sull'altare (quando nella chiesa di Sariano, paese in provincia di Rovigo, il fondatore del pool Antonino Caponnetto chiese scusa di aver detto pubblicamente che, dopo le stragi, a Palermo la speranza stava morendo, e strappò l'applauso di tanti giovani...), infine le scorte e le coperte. Quattro corposi capitoli racchiudono le lunghe riflessioni dei due magistrati, lucide al punto da sembrare asettiche nel rievocare passaggi particolarmente "sensibili", primo fra tutti quello sulla stagione dei veleni, delle diffidenze e delle invidie tra giudici. Falcone definito con sufficienza "genio e superuomo", accusato di protagonismo per la candidatura alla successione di Caponnetto come capo dell'ufficio istruzione del tribunale di Palermo (che perde). Poi, una volta diventato procuratore aggiunto, ostacolato in ogni modo dai colleghi, al punto da far circolare la voce che il fallito attentato dell'Addaura il 21 giugno 1989 (una borsa con 58 candelotti di tritolo ritrovata nei pressi della villa affittata per le vacanze) se lo fosse inventato di sana pianta per farsi pubblicità, lui che se ne andava in giro dicendo "prima o poi la mafia mi ucciderà". Borsellino, che, nel 1988, lancia pubblicamente ad Antonino Meli - diventato capo dell'ufficio istruzione al posto di Falcone - l'accusa di aver smantellato il pool, ricacciando la lotta alla criminalità indietro di cinquant'anni, e diventa l'oggetto di una guerra di maldicenze e insidie brutta e lunga. Dice Caselli: «Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, osannati da morti, da vivi sono stati pesantemente ostacolati e alla fine umiliati umanamente e professionalmente lapidati».
Caselli arriva a Palermo dopo gli attentati, «quando i corvi volavano ad altezza d'uomo». Gli suggeriscono di emarginare i pm sospettati di aver orchestrato le manovre contro i giudici assassinati, ma il nuovo procuratore capo preferisce lanciare a tutti la sfida di «fare squadra». «Quando viene detto che la Procura di Palermo, dopo le stragi, ha ottenuto risultati eccezionali - ricorda - credo si dica la verità». La complessa macchina si è rimessa in moto, nonostante gli ostacoli, le persistenti manovre sotterranee, i misteriosi incidenti, come la mancata sorveglianza da parte di Ros e Carabinieri della villa di Totò Riina, col risultato che, quando finalmente i magistrati riescono a entrarci, tutto si è volatilizzato.
Nella ricostruzione a due voci di una stagione e di un clima, si aprono anche spazi per ricordi e aneddoti quasi surreali. Dopo la morte di Borsellino, le scorte ai giudici di Palermo vengono rafforzate. Non una novità per Caselli, già abituato alla vita blindata per le sue inchieste sul terrorismo, un drammatico cambiamento di abitudini per Ingroia. Quando Caselli, nel '94, vuole a tutti i costi partecipare a un dibattito sulla legalità a Corleone, nel paese dei boss più potenti, il caposcorta accetta di assecondarlo solo con carta bianca sulle modalità del trasferimento: sdraiarsi sul sedile posteriore di un'auto anonima, che sarebbe stata collocata sul piano più alto di una bisarca, accanto ad altre auto tutte procurate dalla scorta, e rimanere per tutto il tragitto nascosto sotto una coperta. A poca distanza da Corleone, dopo chilometri di strada priva di ripari naturali, Caselli viene fatto scendere e caricato su un'altra macchina che aspetta nell'ombra. Il suo ingresso a Corleone è trionfale, tra gli stupefatti carabinieri del paese, che non riescono a capacitarsi da dove fosse spuntato il giudice.
Ingroia non aveva forse mai riflettuto a fondo su come la sua famiglia vivesse quella prigionia forzata. Lo fa un giorno, attraverso gli occhi del figlio Marco, all'epoca di sei anni. I due stanno per entrare nell'ascensore di casa, ma hanno talmente tanti pacchi e pacchettini, che l'agente di scorta, armato, rinuncia ad accompagnarli fin sulla soglia dell'appartamento, com'è suo obbligo, e decide di farli salire. Marco, guardando il padre nello specchio della cabina, gli lancia un bacio e gli dice con tenerezza: «Qui noi finora non siamo mai stati soli».
twitter@boria_a

Una foto di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone del 21 gennaio 1998

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