martedì 22 maggio 2018

MODA & MODI

 Erbari come gioielli























Fiori, foglie, vetro, colore. La natura imprigionata in una teca o tra due dischi di vetro diventa un gioiello. Delicato, rarefatto, dal gusto un po’ retrò, anche se, a guardarle con attenzione, le minuscole composizioni incorniciate in una spilla o un orecchino disegnano geometrie contemporanee. I pezzi firmati Lamerti ricordano le atmosfere de “Il filo nascosto”, il film di Paul Thomas Anderson dove il dettaglio che non si coglie al primo sguardo, o che proprio non si vede, racconta molto della personalità del designer. Lamerti viene dal soprannome con cui gli amici di infanzia chiamavano Martina Angius. Che è nata a Cagliari trentadue anni fa, ma ha scelto Parigi come città dove vivere e produrre le sue piccole collezioni di accessori. All’inizio l’idea era diventare stilista e i primi passi sono stati da apprendista in sartorie romane e poi sul set delle fiction come sarta di scena. I ritmi della macchina televisiva, però, non fanno per lei, mentre l’incontro con un maestro di vetrate, che casualmente possiede un grande giardino, le rivela una vocazione: lavorare il vetro, materiale povero ma ostico, e presentare la natura come un oggetto raro da mettere in bacheca. Trasformare petali, foglie, pistilli in erbari in miniatura da portare al collo, alle orecchie, da appuntare su un abito.

Così, sei anni fa, da una serie di circostanze fortuite, nasce Lamerti. Muove i primi passi a Roma, poi il laboratorio si trasferisce a Parigi, dove i giardini urbani esplodono di colori. Se prima l’interesse di Martina per le piante era superficiale, con l’avvio del marchio comincia ad approfondire nozioni di botanica e a coltivare qualche pianta. I petali diventano tele infinitesimali da dipingere e poi da comporre in motivi sempre più astratti.


Ogni gioiello Lamerti è completamente creato dalla designer, che taglia il vetro, fa la molatura, essica i fiori e fissa il colore naturale prima che la disidratazione sia completata. Poi passa alla creazione del motivo, alla chiusura e alla saldatura, utilizzando argento e di recente anche oro. Del 2017 le collezioni “Matisse” e “Riflessioni sul colore e la materia”. Ora “Noir”, capsule di 50 tra spille, collane e ciondoli, solo in bianco e nero, come espressione di un momento personale di transizione e riflessione sull’identità dell’artista. “Noir” è in mostra, per tutta la settimana, da Giada a Trieste (via Roma 18, www.giadatrieste.com). www.lamerti.com
a@boria_a

domenica 20 maggio 2018

IL LIBRO

Lo stupro che macchia il sogno di Miden




Essere ordinati, non rumorosi, solidali. Far parte delle varie commissioni in cui si articola la vita sociale, dagli amanti del té ai fitofarmaci naturali. Ricorrere ai mediatori per comporre qualsiasi conflitto, siano battibecchi tra amici, bisticci familiari, incomprensioni culturali. Vestirsi con colori accesi, per allontanare la tristezza. Non importare niente dal mondo esterno che non sia stato vagliato e approvato. Indossare zoccoli di legno o sandali di cuoio prodotti a chilometro zero, perchè oltre a quello c’è l’ignoto. Essere felici.

“Miden”, la comunità ideale che dà il titolo al terzo libro di Veronica Raimo (Mondadori) ricorda da vicino la serie televisiva americana Wayward Pines, andata in onda in due stagioni tra il 2015 e il 2016. «Non parlare del passato. Non parlare della tua vita precedente. Lavora sodo. Goditi la vita»: regole che, scoprirà il protagonista Matt Dillon, trasformano la località dell’Idaho in cui è capitato per caso in un lager all’apparenza ameno e inclusivo, dove tutto è orwellianamente sorvegliato e da dove è impossibile fuggire.





Da Miden, invece, si viene accolti in numero contingentato e si può andar via. O essere espulsi per un comportamento che possa intaccare l’ordine. Che metta a rischio il dogma della felicità. A raccontarlo è una delle due voci narranti della storia, “il compagno”, professore di filosofia nell’Accademia della comunità, che a Miden è approdato fuggendo dal suo paese, ormai in pieno tracollo economico. Nella nuova società ha incontrato “la compagna”, prima arrivata lì per una vacanza, poi diventata residente, che ora attende un figlio da lui. Perchè se nel vecchio paese si muore di depressione e di paura e dilaga l’incapacità di procreare, Miden è piena di bambini: «lo sguardo ebete sotto il cielo stellato - sintetizza “la compagna” - contemplava anche la creazione di nuovi esseri viventi». Un giorno, però, alla casa della coppia bussa una ragazza: «Sono stata violentata dal professore», dice alla donna. È successo due anni prima, quando ancora il docente non conosceva la sua partner. L’ex studentessa non ha mai denunciato l’uomo, ma ora vuole che sia punito: «Perchè allora non lo sapevo, ora lo so. Che ho subito una violenza». A Miden è registrato come “Trauma n. 251”.


Tra loro, all’epoca, si dicevano “ti amo”, lei si faceva calpestare, sodomizzare, legare in un’aula di studio. Si lasciava fotografare nuda per un progetto artistico della scuola, che il professore le aveva suggerito di chiamare “Gioco e Controllo”. Ora, nel dossier dove anche quelle immagini sono finite come prova di un comportamento manipolatorio, i due vengono definiti il Perpetratore e la Subente. I loro feticistici modi di eccitarsi sono diventati un elenco di “pratiche”, su cui si esprimerà la commissione atta a giudicare se il professore ha commesso uno stupro sull’allieva, consenziente ma inconsapevole dell’abuso, se nel dna di lui c’è il gene che può corrompere il tessuto sano di Miden. Nel disciplinato svolgimento della vita della comunità, dove al rumore di un trolley sull’asfalto le mamme tappano le orecchie dei piccoli, non sono tollerati disequilibri o perdite del controllo, nè sonori nè altro.


Amici e conoscenti rispondono ai questionari. Testimoniano su comportamenti e possibili scorrettezze del professore. Il suo tutor dice di aver favorito il ricongiungimento alla “compagna” perchè la nostalgia gli infiacchiva lo spirito. La collega insegnante gli imputa l’idealizzazione della sua vita passata, persino la giacca che porta è un’eccentrica stortura, un segno di mancata uniformità estetica. L’istruttrice di nuoto lo giudica “sessista”, pur riconoscendo che l’appartenenza a una cultura che subordina la donna all’uomo sia difficile da sradicare. E l’anamnesi investe la coppia. La “compagna” porta il grigio, il colore della terra di nessuno, dell’indifferenza, che soffoca il nascituro sotto una coltre di coercizione. Gli scrive anche il padre della ragazza: da genitore prova odio, ma sul sangue prevale il suo essere tra i fondatori del Sogno di Miden, che non ha bisogno di martiri, ma di individui fiduciosi e fedeli al patto di essere felici.


Con le voci del “compagno” e della “compagna”, Veronica Raimo registra l’inarrestabile disgregarsi della coppia, in una società glaciale che dissangua ogni istinto, ogni individualità, ogni passione non vigilata. L’esito non potrà che essere un rigetto.
È forte la tentazione di leggere questo romanzo alla luce dello scandalo molestie e del #metoo, del disequilibrio tra le forze in campo, tra perpetratori e subenti delle cronache odierne (anche loro coscienti dell’abuso addirittura decine di anni dopo...). L’inquietudine che percorre il libro ci porta però in un’altra direzione e a un’altra domanda: il controllo paranazista fuori e dentro di noi, ci preserverà dal crollo?

@boria_a

lunedì 14 maggio 2018

IL VOCABOLARIO

Queste parole non passano di moda





L’idea di indossare uno slip dress vi fa arrossire? Non riuscite a darvi pace per la scomparsa della pochette? Vi consigliano una scarpa peep-toe e non sapete in che cosa state per infilarvi? Le parole della moda sono spesso oscure e gli esperti del settore le utilizzano come un gergo iniziatico, per pochi eletti che ne sanno di cose glam. Aprite una rivista, anche non di settore, e vi imbattete in cortocircuiti linguistici del tipo: il “mood” di quest’anno? Skinny-legged jeans con Beatles boots e clutch color block. Sarebbe molto più semplice e comprensibile, ma infinitamente meno posh - ops, chic - dire che nell’aria quest’anno ci sono jeans a sigaretta, stivaletti alla caviglia con tacco e una borsa bustina dai colori forti.

 Ma si sa: il fascino perverso della moda è anche la sua terminologia, che non è affatto materia di poco conto, ma una lingua specialistica, con un alto tasso di tecnicismi, infarcita di parole straniere e tanta necessità di compattezza e sinteticità. E come se non bastasse, se la moda passa in fretta di moda, lo stesso avviene per le sue parole, anche se non altrettanto rapidamente. Il francese, per esempio, che per due secoli ha monopolizzato il gergo dell’eleganza, fin dalla nascita delle riviste di moda negli anni ’80 del Settecento, ora ha perso terreno in favore dell’inglese: per questo clutch e leggings hanno spazzato via pochette e fuseaux.

E poi è facile cadere nei trabocchetti, o farsi sedurre da falsi amici: slip dress, per esempio, non ha niente a che fare con le mutande, ma significa abito sottoveste. O i “neologismi semantici”, cioè gli anglicismi con significati aggiuntivi: golf, per esempio, detto a un inglese, lo farebbe pensare a un green per praticarci l’omonimo sport, non certo a un cardigan, così come il suggerimento di indossare uno smoking per una prima teatrale lo confonderebbe, perchè nel suo guardaroba per queste occasioni ha tuxedo o dinner jacket.

L’Italia, poi, se ha un primato internazionalmente riconosciuto nel design, non altrettanto può vantare per la sua lingua, colonizzata dai “forestierismi”, che vengono giudicati più seducenti per descrivere un settore così effervescente e mutevole. A parte dolcevita e ballerina, pochi nostri termini riescono a infilarsi nella corazzata degli anglismi, tralasciando quei cotta e zucchetto che raramente possono servire per trattare il trend più hot del momento.
Come risolvere il problema? Cominciando proprio dallo strumento basic (per restare nel linguaggio modaiolo) per conoscere le parole, il vocabolario, che Zanichelli ha appena mandato in libreria. Il “Dizionario della moda”, di Mariella Lorusso, in doppia versione inglese-italiano e italiano-inglese (pagg. 640, euro 24,50), con qualcosa come 30mila lemmi e oltre 300 illustrazioni di stili, capi, accessori e tecniche, 170 falsi amici, oltre 2mila frasi ed esempi e, in appendice, una tabella di misure e taglie.


Un'opera naturalmente indirizzata agli studenti della moda, ma anche ai professionisti che, in diversi campi - giornalisti, traduttori, studiosi, costumisti, operatori di tutta la complessa filiera dell’abbigliamento e dell’accessorio - hanno a che fare con la terminologia della moda. Un vocabolario - spiega Lorusso - che ha richiesto una certa dose di “creatività” metodologica, per mettere ordine nei processi di formazione dei vocaboli, nei prestiti da altre lingue, nelle abbreviazioni (bra non è nient’altro che un reggiseno, “troncato” da brassiere), nelle modificazioni semantiche (pensiamo a tight, stretto, che al plurale, tights indica i collant...) e nei neologismi. Non mancano gli eponimi, ovvero i nomi comuni derivanti da personaggi famosi.

E se le borse Kelly e Birkin sono entrate nell’immaginario collettivo, it-bag con interminabili liste d’attesa, meno battuti sono i “Lennon specs”, gli occhiali alla Lennon, o la “scollatura sabrina”, che richiama la Hepburn dell’omonimo film, il “bogie look” ispirato al trench e al cappello di Humphrey Bogart o la “serafina”, maglietta girocollo con tre bottoni che indossava il bucolico Celentano sullo schermo.






Audrey Hepburn in "Sabrina"

Un vocabolario resta soprattutto uno strumento di lavoro, ma nella consultazione spuntano curiosità su cui riflettere. Pensiamo al suffisso “kini”, che si moltiplica in costumi da bagno come il trikini, il tankini e il pubikini, sulle cui dimensioni, soprattutto in quest’ultimo, non c’è molto da far correre l’immaginazione, ma, all’estremo opposto della scala vestimentaria, recupera tutti i centimetri persi in spiaggia e lascia visibili solo gli occhi sotto un burkini. 

@boria_a

martedì 8 maggio 2018

MODA & MODI

I disoccupati non si mettono in felpa 



 

Attenzione alla scritta su felpe e magliette. Nel bicentenario della nascita di Marx, il proletariato è intoccabile, almeno per la moda. Lui, il filosofo autore del Capitale, è diventato icona pop come il Che, ma guai a ironizzare sulle classi operaie. Il grande fratello della Rete è insorto contro gli slogan “unemployed”, “broke”, “working class” - disoccupato, squattrinato, proletario - e su qualsiasi riferimento alla parola “povero” stampata su capi d’abbigliamento. “Too poor for Dior”, recita una t-shirt. E un brand ha varato la linea per “council estate princess”, principesse delle case popolari: niente da fare, anche dove la dissacrazione è palese e l’ironia leggera, gli internauti hanno storto il naso. Su questi temi non si scherza.

Alcuni dei brand o delle catene chiamati in causa si sono affrettati a fare ammenda e a togliere dalla produzione i capi incriminati, primo fra tutti H&M e la sua felpa del disoccupato, di un bell’arancione segnaletico da cantiere stradale. Il prezzo popolare, in questo caso, ha infastidito ancora di più gli internauti, come se la scritta fosse una presa in giro, un doppio tradimento da parte di una catena di fast fashion nei confronti di chi può permettersi solo i suoi vestiti: “lavoro ma non ho i soldi per comprare la tua felpa del disoccupato”, ha chiuso la vicenda un utente di Twitter.


Anche la Rete, però, ha pesi e misure. E la stessa levata di scudi non ha investito un brand modaiolo come Vetements, che, dopo aver ipnotizzato tutti con la presa in giro della maglietta identica (prezzo a parte) a quella dei corrieri Dhl, a chi aspira a sentirsi proletario vende - per parecchie centinaia di euro - pantaloni di cotone da disadattato urbano, “chav lounge pants”. Ipocrisia? In fondo anche Maria Grazia Chiuri, direttore artistico di Dior, ha mandato in passerella t-shirt bianche con la scritta “dovremmo tutti essere femministi”: uno straccetto da attivista glam al prezzo di 550 euro, accolta da molti consensi per l’impegno. Donne discriminate, disoccupati e poveri: tutti sul mercato. Con un'unica differenza: prezzo e griffe.


I più lungimiranti, a questo punto, sono i clienti H&M che si sono accaparrati la tuta “unemployed” prima della censura. Se sono disoccupati o mal occupati davvero, ora si ritrovano per le mani una limited edition. Non risolverà i loro problemi, ma almeno potranno levarsi qualche sfizio.

@boria_a

giovedì 3 maggio 2018

L'INTERVISTA

Ecco la libertà totalitaria di Francesco Magris




«Libertà totalitaria»: un ossimoro? S'intitola così l’ultimo libro di Francesco Magris e appena uscito per La nave di Teseo (pagg. 320, euro 20). «In effetti - risponde l’economista - potrebbe sembrarlo, un ossimoro, come anche un paradosso, ma non lo è necessariamente. Oggi si assiste alla rimozione di una serie di tutele sociali ed economiche dei lavoratori in nome della libertà - o meglio delle libertà - come quelle che garantiscono alle imprese una maggiore flessibilità nelle politiche di assunzione e di licenziamento. Il riferimento alla libertà assume dunque un tono quasi ricattatorio: viene privata del suo reale e originale significato per mettersi invece al servizio di politiche economiche di fatto regressive e conservatrici; una libertà dunque totalitaria». 

Articolato, corposo, e insieme ricco di citazioni e rimandi a letteratura e filosofia, che rendono la lettura accattivante, il saggio di Magris offre strumenti per orientarsi in una realtà complessa, in cui l’individualismo, sposandosi con il capitalismo amorale, ha disgregato la società, trasformando la libertà in una sorta di puntello ideologico per poter superare ogni limitazione.


Professore ordinario all’Università François Rabelais di Tours, l’autore si addentra nelle contraddizioni di un sistema dove l’economia regna sovrana, c’è un prezzo per tutto e tutto si classifica in base a indici numerici, eppure la matematica - ed eccolo, il paradosso - è una materia pressoché ignorata. È qui che nascono nuovi populismi, particolarismi ottusi che, attraverso la rivendicazione dei diritti, servono ad alzare steccati. E, dall’altra parte, c’è un impulso crescente a svincolarsi dai doveri, ad allontanarsi dall’etica della coerenza e della responsabilità. Il narcisismo prevale sull’uomo pubblico. 


 
Francesco Magris


 

Professor Magris, alle radici del nostro presente ci sono la rivoluzione francese e l’Illuminismo. Lei è critico sulla situazione attuale: ritiene che quei principi abbiano fallito?
«Quei principi più che fallire hanno subito un pesante condizionamento ideologico. Oggi regna una grossa confusione. In nome dei principi illuministi, non si invoca più la necessità di un Universale comune e condiviso. La sinistra tende a promuovere la proliferazione della diversità e delle singole esperienze identitarie. Ciò è dovuto alla falsa credenza che al centro della politica non debba più collocarsi l’individuo in quanto “animale sociale”, bensì un soggetto isolato, di cui si deve promuovere una sovranità acquisitiva priva di limiti». 


Alcuni imputano lo smarrimento dell’individuo alla perdita della sua componente spirituale. È pensabile un suo recupero? «Questo sembra essere vero in occidente, ma non in altre zone del pianeta dove si assiste semmai a un revival della religione, fino al punto di dar vita a pericolosi fondamentalismi. Nei nostri paesi, invece, domina una progressiva affermazione di frettolosi quanto semplificatori sincretismi, all’interno dei quali si cercano risposte facili a domande che rimangono invece complesse. Il Cristianesimo perde il suo appeal, proprio in virtù della complessità che lo connota. Forse per questo Papa Francesco cerca di riconferirgli slancio con l’accento posto sulla “misericordia”».


Lei afferma che il presente è una “paradossale, illiberale consociazione di un pensiero unico convinto che l’attuale sistema politico-economico sia l’unico possibile e una crescente proliferazione di differenze, ognuna delle quali rivendica la dignità di minoranza”. È una strada senza ritorno? «Credo che l’unica soluzione sia quella di ritrovare degli elementi che accomunano gli uomini, non invece quelli che li separano. L’esaltazione esacerbata delle diverse identità è pericolosa e da combattere perché crea necessariamente segmentazione e segregazione invece che una condivisione di destini». 


La democrazia esiste ancora in una società divisa tra la rete, la televisione e la piazza? «A prima vista sembrerebbe il compimento della democrazia perfetta, nella quale ciascuno ha diritto di intervenire, di partecipare, di dire la sua senza l’intermediazione di organi quali i partiti o i sindacati. Credo invece che la partecipazione alla vita politica guadagni in qualità e democrazia all’interno di specifiche forme organizzate che permettono di aggregare le singole esigenze individuali e di conferire loro maggiore voce».


Diritti civili e diritti sociali, la tutela dei primi si allarga, i secondi non riescono a essere soddisfatti. È giusto dire che è più facile parlare di transgender che di homeless? «Non voglio certamente attribuire una priorità alla tutela dei diritti sociali rispetto a quelli civili. I primi si basano e si nutrono dei secondi e pure il viceversa è vero. Ma mi sembra che la celebrazione mediatica dei diritti civili sia pure usata per soffocare quelle voci che rivendicano l’esigenza di tutela dei diritti sociali, oggi invece sempre più negati e rimossi».


Le forze politiche progressiste si occupano tanto di diritti civili, meno di lavoro. Un calcolo elettoralistico che punta sull'obiettivo più facile da raggiungere? «Le forze progressiste da una parte sono anch’esse vittime inconsapevoli del processo della globalizzazione. L’ideologia neoliberale che rimuove quanti più limiti possibili politici e morali alla manifestazione delle brame acquisitive è subdola poiché influenza le modalità di rivendicazione dei diritti civili. Inoltre, è pure certamente vero che la sinistra, nell’errata convinzione che la classe operaia si sia oramai estinta e che la rimozione dei diritti sia una fatalità storica, ricerca nei vari gruppi identitari nuovi bacini elettorali. I partiti della sinistra, sotto questo punto di vista, si sono trasformati in partiti radicali di massa».
 

Sono i populisti che, promettendo di restaurare lo stato sociale, contro globalizzazione e immigrazione, intercettano il consenso degli operai? «Questo è vero. Basta analizzare la provenienza sociale dei consensi andati a Trump, a Le Pen o in Italia alla Lega. Queste forze politiche si oppongono ferocemente all’austerity, promettono un maggior interventismo statale, fino ad annunciare una pluralità di ricette economiche populiste come ad esempio il protezionismo o la lotta all’immigrazione».

Da economista come vede lo stallo italiano? «L’Italia si sta timidamente riprendendo dalla crisi anche se più lentamente dei suoi partner europei. I conti pubblici migliorano, l’attività industriale è in ripresa, ma l’occupazione, specialmente quella giovanile, stagna. Credo che quello che manca sia una ondata di ottimismo, la sola che può far ripartire l’investimento e le assunzioni. Si sa bene come molte profezie in economia si convertono in realtà, anche se l’attuale stallo politico certamente non giova».

@boria_a