lunedì 27 giugno 2022

MODA & MODI

 Shein fa outing per tre giorni a Milano

 


 

 

Shein si materializza. Da oggi, martedì 28 giugno, a giovedì 30, in piazza Gae Aulenti a Milano, il colosso cinese dell’abbigliamento femminile online, apre un negozio a tempo. Centocinquanta metri dove le fan potranno per tre giorni toccare finalmente con mano i capi e gli accessori e fotografarsi nella postazione “social friendly”, perpetuando quella che è una delle chiavi del successo di questo gigante dell’ultra fast fashion: trasformare tutte in testimonial del brand, far correre nella rete le immagini e i video delle shopaholic impegnate in frenetiche maratone di prova e di acquisto, entusiasticamente autoprodotti sotto l’hashtag #Sheinhaul. Cinque miliardi e duecento milioni di visualizzazioni su Tik Tok sono i numeri che danno la misura di questa gigantesca e geniale campagna di promozione dell’e-store, valutato cento miliardi di dollari.


Preparatevi alle file, avvertono siti e giornali. Le fan della Generazione Z non perderanno certo l’occasione di correre a strapparsi di mano fisicamente vestiti da otto euro in giù e, con i saldi già avviati, pezzi a partire da 1,99 euro. Ma sarebbe ingenuo pensare che siano solo ragazzine con pochi soldi e il desiderio di un guardaroba illimitato e in continuo rinnovamento, ad alimentare la crescita costante di Shein. La discrezione delle Rete permette anche a mature signore di dare un’occhiata alle proposte, rinnovate al ritmo di settemila pezzi al giorno. Il clic riempie il carrellino virtuale e libera altrettanto rapidamente la coscienza da qualsiasi preoccupazione sulla salvezza del pianeta e lo sfruttamento del genere umano. Il passaparola digitale, e non solo, fa il resto.

Nessun rischio di essere pizzicate magari dall’amica a rovistare tra gli espositori di un qualsiasi grande magazzino di fast fashion, nessun imbarazzo nel dover chiedere alla commessa un’escalation di taglie curvy. Con Shein un algoritmo seleziona, screma, anticipa i desideri, con autorevolezza propone. Bastano pochi acquisti e ogni giorno un algido software riempie la nostra personalissima vetrina di quanto potrebbe piacerci, frutto di incroci matematici: abiti lunghi, larghi, da scolaretta o da panterata. Una continua lusinga all’acquisto compulsivo, vario e a prezzi stracciati.


E allora, che fine fanno i crucci sulla sostenibilità? Shein è la cartina di tornasole della nostra cattiva coscienza. La generazione dei Fridays for Future è la stessa che ha creato la spaventosa fortuna del gigante cinese, nato e cresciuto tra i consumatori, sedotti, vampirizzati e risputati sul mercato planetario come influencer della porta accanto.

a i numeri e la crescita del brand ci dicono che la sua penetrazione è trasversale, che anche le generazioni negli anta, con stipendi ed ecoconsapevolezze strutturati, acquista senza problemi prodotti spazzatura, che inquinano, intasano, sfruttano, depredano ambiente e diritti. Non si metteranno in fila a Milano nei tre giorni di outing del brand, ma esistono e continuano, nelle domestiche stanze, segretamente a cliccare.

martedì 14 giugno 2022

MODA & MODI

La perversa attrazione

per il vero uncinetto

 


 

 

I lavori all’uncinetto sulle bancarelle sono diventati pezzi di tendenza. Chi li guardava con sufficienza, come passatempo da terza età, adatti perlopiù al mercatino domenicale degli hobbisti (lo ammetto: io), scopre di esserne perversamente attratto. Quegli assemblaggi di colori snobbati perchè un po’ kitsch, che accettavamo con un sorrisetto di circostanza se regalati da nonne e prozie, oggi sono la sintesi più genuina, colorata, divertente di quei valori su cui la moda di questi tempi discute parecchio, facendone spesso solo uno slogan: manualità, risparmio, sostenibilità. Ritorniamo agli anni Settanta e ne recuperiamo lo spirito e la leggerezza, quando il capo all’uncinetto spopolava nel guardaroba hippy, simbolo del bisogno di autenticità, della voglia di valorizzare e trasmettere un patrimonio antico di lavorazioni tradizionali. 


Nel gergo modaiolo si preferisce definirlo crochet, perché francesizzando, l’uncinetto esce dalla dimensione domestica e viene promosso a oggetto del desiderio, che caratterizza una stagione. Ci sembra di vederlo dappertutto perchè griffe del lusso e fast fashion l’hanno equamente vampirizzato, piazzando i loro loghi sui punti a catenella delle canotte o sulle borse “granny square”, fatte dei quadratini della nonna.


Dal berretto al bikini, dalla giacca all’abito, dalla borsa alle scarpe: oggi di uncinettato non c’è che l’imbarazzo della scelta, in qualsiasi foggia e colore. Celebrità e influencer di passaggio si fotografano in vestitucci a maglie larghe, giurando di maneggiare regolarmente il ferretto per rilassarsi. La serialità industriale spersonalizza e mette al riparo anche dal più impercettibile, umanissimo, difettuccio di lavorazione. Se poi il crochet è griffato, come il famoso maglione di Harry Styles che ha fatto impennare le ricerche online, ecco che il prezzo schizza alle stelle, quasi si trattasse davvero di capi artigianali e unici. Prendete un modello di borsa celebre e riconoscibile, proponetela in versione crochet ed è pronta la circolarità deluxe per le vetrine Instagram. Dall’uncinetto alla macchina industriale, però, l’obiettivo si è perso di vista.


DIY, do it yourself, fattelo tu. L’idea viene da lontano, ma oggi ha una nuova forza. Senza pretendere di salvare il pianeta, confezionare qualcosa con le proprie mani, riparare, trasformare, recuperare, ci aiuta a conoscere i materiali, a rispettarne il valore e insieme a valorizzare il nostro tempo. Agucchiare e sferruzzare diverte e rilassa ed è anche un modo di stare insieme e di comunicare. Quello che una volta si imparava in casa, ora si fa in gruppo, o con l’inesauribile offerta di immagini, lezioni, video, tutorial della piazza virtuale. Se poi i risultati sono modesti, basta cedere all’ipnosi cromatica delle perfettissime e caleidoscopiche borse a centrini della bancarella. Tutte diversamente no-logo.

sabato 11 giugno 2022

IL LIBRO

 

Giampaolo Simi e il ritorno

del “nerista” Dario Corbo
nella campagna fiorentina
dove l’arte lascia una scia di morte




 

 

«Ma non aspettatevi un sequel», aveva scritto Giampaolo Simi sul suo blog nei giorni dell’uscita, nel giugno 2018, di “Come una famiglia”, il secondo romanzo - dopo “La ragazza sbagliata” del 2017 - con protagonista Dario Corbo. Invece, l’ex giornalista di nera, finito a lavorare alla Fondazione artistica della donna che molti anni prima con i suoi articoli aveva contribuito a far condannare, è tornato. E il titolo del nuovo noir della serie, “Senza dirci addio” (Sellerio, pagg. 389, euro 16), stuzzica indirettamente i lettori, conferma quello che leggiamo nelle ultime righe: Corbo continuerà a indagare, perché il crimine che è al centro di quest’ultima trama, un traffico di reperti archeologici provenienti da tombe etrusche, è ancora tutto da ricostruire nelle sue ramificazioni, dai depredatori ai destinatari, passando per qualche compiacente guru universitario.

 

 

Giampaolo Simi


A chi non ha detto addio Dario Corbo? Alla sua ex moglie Giulia, travolta da un’auto pirata in una zona collinare dispersa tra Firenze e Prato. Che ci faceva lì, in un - presunto - posto da scambisti, e che fine ha fatto il suo cellulare? L’intreccio prende le mosse da questa morte, ma come sempre nelle storie di Simi sono i paesaggi interiori dei personaggi, con smottamenti e abissi che sembrano sempre trovare una loro corrispondenza con quelli “fisici” dei luoghi, a scandire lo sviluppo degli eventi. 


Dario e il figlio Luca affrontano a modo loro la liturgia del distacco, l’uno, nella delicata posizione di “vedovo mancato”, quasi fosse titolato solo a un dolore minore, reagisce incaponendosi nell’indagine, si muove da nerista qual era. L’altro, ex promessa del calcio finito sotto processo per aver coperto una storiaccia di violenza sessuale dei compagni, si rifugia a dormire nella Smart della madre, tentando di trattenerla, di custodirne il profumo.
Giulia lavorava per una galleria d’arte gestita dalla spregiudicata e ricca Maddalena (Maddajena, per Dario) Currè, intorno alla quale si muove una fauna di strani personaggi: un luminare dell’arte antica, un marito broker con la passione del collezionismo, un padre che ha fatto i soldi col cemento, la nuova toygirl del genitore dal cervello limitato. E un artista misterioso, “Absentium”, i cui quadri sono in mostra nella galleria, incomprensibili croste che trasmettono allo spettatore un senso di ripulsa e che la “jena” riesce comunque a vendere a peso d’oro.


Dove è stata uccisa Giulia? Il luogo, più che equivoco, è sinistro: anni prima un casale della zona, chiamata “Case Marsi”, fu teatro dello sterminio di una famiglia - un maresciallo dei carabinieri, sua moglie ex ballerina di night e la figlioletta - mentre un altro cadavere venne ritrovato all’esterno, in auto, forse un testimone scomodo. “Case Marsi” risveglia l’istinto da cronista di Dario. Di lì a poco emergerà un legame inquietante tra Giulia e il giovane ammazzato: hanno avuto lo stesso docente di tecniche artistiche all’Università.
Impossibile rovinare il gusto di scoprire la trama, tante sono le sterzate, le digressioni temporali, gli incroci imprevedibili tra i personaggi, fino alla conclusione aperta che depone a favore del mantenimento di Corbo in attività. Anche perchè l’indagine sull’ex moglie morta sembra aver scalfito la corazza della sua datrice di lavoro, l’insondabile e sfuggente Nora Beckford, che Dario ama e non ha mai potuto toccare.


Magistralmente Simi tira i fili, in un giallo che rimesta in una palude di affari, avidità, speculazioni, amoralità, ricchezze facili, ipocrisie. Una desertificazione umana che richiama il luogo dove tutto è cominciato, quel “Case Marsi” orfano di un centro commerciale bloccato, a due passi da lottizzazioni suburbane abortite, dove la vita nel cascinale è stata strappata via dalle radici e non è mai ricresciuta.

IL FOTOGRAFO

 

Frank Horvat: "Per favore, non sorridete"

E la vita s'insinua nell'inquadratura glamour

 

Frank Horvat


 
Una fotografia di moda su cui è impossibile non aver fermato lo sguardo, almeno una volta. È stata scattata nel 1958, a Parigi, per la rivista Jardin des Modes: della modella si vedono solo gli occhi scuri tra il cappello bianco di Givenchy, una sorta di pillbox hat, il copricapo portapillole, con una vistosa applicazione di fiori, e l’alto collo bianco del cappotto, che le avvolge il viso come in una spirale. Intorno a lei uomini in cilindro e tight puntano il binocolo verso le corse dei cavalli. Non la guardano e lei non guarda loro. Ignora gli uomini e le gara, i suoi occhi entrano diretti nell’obiettivo, sorpresi da qualcos’altro che non possiamo intuire.

 

 

Parigi, 1958, Les Jardin des Modes, cappello di Givenchy (tutte le immagini sono tratte da Horvatland)

 

Ma è davvero una fotografia di moda? Chi l’ha scattata, Frank Horvat, forse non l’avrebbe ritenuta tale. O non soltanto. Nel 1951, quando con la sua Leica comincia a firmare servizi per le riviste couture, lo fa con il taglio, la sensibilità, l’approccio di un fotoreporter. Con lui la moda scende in strada, si mescola alla gente, racconta non solo abiti ma luoghi e persone, esce dalla fissità e dai canoni dell’immagine da studio. E anche quand’è in posa, c’è sempre un elemento che introduce un altro sguardo: in un’immagine del ’58, a Parigi, per Elle, il suo figlioletto Michel, in piedi su una poltrona damascata, accarezza con una lunga piuma il viso della modella, che pare dissolversi.


Le prime foto di moda di Frank Horvat hanno già in sè questo percorso. 1951, Roma: l’indossatrice in un abito dalla gonna a ruota e il cappello a pagoda, di profilo sotto il sole, gioca con la sua ombra proiettata contro un muro, la mano guantata di bianco. 1951, Parigi: un’altra modella ripresa di schiena, sul marciapiede, appoggiata all’ombrello, guarda il traffico che scorre, e l’occhio di chi osserva cade sul gioco delle scarpe nere che s’incrociano, sul disegno della calza con la riga.


Anche quando immortala le celebrità, Horvat fotografa l’uomo e la donna dietro la maschera, ne coglie la piega più fragile o più spiazzante, entra nella loro vita per restituirne un momento. La fotografia, diceva, è l’arte di trattenere l’attimo prima che la scena si imprima sulla pellicola. Ecco allora Aznavour a Parigi quasi perso tra la folla, Josephine Baker appoggiata a una scala dopo lo spettacolo, lo stilista Jacques Fath che si trucca, Yves Saint Laurent giovanissimo, col sorriso disperato a un ricevimento, Coco Chanel che assiste alla sua sfilata dalla scala, in una trama di linee in bianco e nero, un filo dei suoi stessi tessuti.

 


 


 


 


“Please, don’t smile”, dicevano i fotografi prima dello scatto per scongiurare la serialità espressiva. Le modelle di Horvat, sulle pagine di riviste patinate come Harper’s Bazaar Usa, Vogue Uk, Vogue France, Elle, dai mercati di Les Halles alle strade di New York, dalle trattorie di Roma alle spiagge della Normandia, il sorriso lo accennano appena, a volte lo dimenticano del tutto. Fissano enigmatiche l’interlocutore dai vetri della metropolitana, spuntano tra gruppi di vigili del fuoco, calciatori, bambini di una classe elementare, fumano al tavolino di un caffè perse nei loro sogni, si vestono per un ricevimento dietro la finestra di un appartamento elegante, camminano in abito da sposa “sospese” sopra Montmartre.

 

Coco Chanel guarda dalle scale la sua sfilata

 

Chi si muove intorno a loro, che cosa Horvat ha sottratto all’inquadratura? Vestiti, scarpe, cappelli, gioielli sono un pretesto. La statuaria top-model China Machado è ritratta in piedi, dietro allo scrittore Alberto Moravia, seduto nella sua biblioteca con un persiano bianco in braccio. Lei indossa un tailleur couture dai bottoni gioiello, ma gli occhi di entrambi sono catturati da qualcosa che accade altrove. Chissà cosa vedono - ci chiediamo - chissà perchè il gatto sembra l’unico a non curarsene, i suoi, di occhi, ridotti a fessura. 

Roma, Alberto Moravia e China Machado