domenica 27 settembre 2020

IL LIBRO

Richard Roper e l'addetto alle morti solitarie

che impara ad aprirsi di nuovo all'amore

 



 
In chiesa lo chiamano "il servizio delle nove”. È il funerale di chi muore da solo, che si tiene a un’ora prestabilita, senza il rischio che un ingorgo di traffico o il ritardo di un treno blocchi inesistenti parenti o amici. Ai “funerali di povertà” o “di igiene pubblica”, o “sociali”, o di “welfare”, e via fantasiosamente perifrasando, non va mai nessuno. Eccetto Andrew, il funzionario quarantenne dell’amministrazione pubblica di Londra che ha l’incarico di compiere la perlustrazione nella casa del morto e verificare l’esistenza almeno dei soldi necessari a pagare le esequie. Quando si era ritrovato addetto al mesto incarico, Andrew, il protagonista del primo romanzo di Richard Roper, “Qualcosa per cui vivere” (Einaudi) aveva pensato che l’espressione “servizio delle nove” avesse una sua dolcezza evocativa, quasi dickensiana, salvo poi scoprire che la procedura era piuttosto asettica e deprimente: un odore nauseabondo, bollette non pagate da mesi, corpi rinvenuti nelle situazioni più strane, dalla vasca da bagno all’autoerotismo, l’imbragamento e la rapida perquisizione alla ricerca di qualcosa di valore che evitasse alla “vecchia Betty Windsor”, sua maestà, di farsi carico del defunto. A procedura conclusa, Andrew è l’unico, col prete, a dare l’addio a perfetti sconosciuti, senza esservi tenuto per contratto, semplicemente perchè avverte l’obbligo morale di riscattare con un gesto di vicinanza la morte di persone allontanate dalla vita.


Cosa lo lega a loro? Niente, nella sua bella casa lo attendono una moglie perfetta, Diane, e due bambini, così almeno ha detto al colloquio di assunzione. Invece, una volta girata la chiave dell’appartamentino in uno squallido edificio di Old Kent Road, tra pareti dilaniate dagli scarabocchi e puzza di muffa, lo aspettano solo i dischi di Ella Fitzgerald - di qui il titolo originale del libro, dal doppio album “Something to live for” del ’99 - la collezione di trenini e un forum di patiti di modellismo ferroviario, con cui divide le sue solitarie serate. Andrew si è costruito intorno una ragnatela di bugie così perfetta che con un foglio di calcolo ha previsto tutte le possibili domande degli estranei, dal primo incontro con Diane alle malattie dei figli. Nessuno può entrare nel mondo finto dove si è ritirato da vent’anni, finché un paio di gambe fasciate di calze verde scuro, per sbaglio spuntate da sotto la sua scrivania, comincia a soffiare di nuovo la vita in un uomo a perdere. È Peggy, la nuova collega dell’ufficio, destinata ad affiancarlo nell’ultima visita alle case dei tanti John, Eric, Terry, prossimi inquilini dell’angolo piu negletto del cimitero.

 

 

È possibile immaginare un’altra vita davanti a un corpo decomposto? Sì, ci dice Roper, editor trentenne di Londra, che ha pensato alla trama dopo aver letto un articolo sugli addetti alla sepoltura di chi muore solo, percentuale in crescita nel Regno Unito. Ma il libro non ha niente di macabro o di morboso, nè distrae immediatamente il lettore con la prevedibile melassa del lieto fine. Andrew, seppure molto meno complesso della Violette di Cambiare l’acqua ai fiori, bestseller di Valérie Perrin, condivide con lei l’empatia verso gli altri, l’intelligenza, la grazia dei modi, un velo di umorismo macabro che è un’ancora di sopravvivenza. E un trauma sepolto nel passato.


Perché le note di Blue Moon dell’amata Ella paralizzano Andrew? Per assurdo sarà la morte a riportarlo in vita. Quando un lutto personale scuote la sua quotidianità, quando lo strappo non ha il volto di uno sconosciuto ma di una persona allontanata da sè per una serie di fraintendimenti, l’uomo comincia a tradire la sua famiglia immaginaria, a sentire il castello di bugie come un peso non più come una protezione dal dolore. E a pensare di non essere per forza condannato anche lui a “diventare un mucchietto di carbonio dentro una bara disadorna”, ma di avere il diritto di amare ed essere ricambiato.


L’hanno definita Up-lit, letteratura che tira su. E non è una contraddizione se il lettore si ritrova in interni pieni di solitudine, in cimiteri, tra morti dimenticati. Perché in ognuna di queste storie - antesignana del genere Eleanor Oliphant sta benissimo di Gail Honeyman - quello che prevale è la solidarietà, l’attaccamento alla vita, l’insopprimibile capacità di tornare ad aprirsi all’amore e agli altri. Con circospezione, perché in nessuna di queste storie c’è mai un “e vissero felici” conclamato, ma con l’aspettativa di chi esce, ancora a tentoni, da un lungo periodo di confinamento, fisico e dei sentimenti. Letteratura che cura, per questi tempi.

martedì 22 settembre 2020

MODA & MODI

 

L'antidemocratica passerella con Armani finisce in televisione

 

La settimana della moda di Milano che comincia oggi segna una rivoluzione. Lo scorso febbraio, alla vigilia del lockdown, le avvisaglie del cambiamento: defezioni tra gli stilisti, passerelle disertate a vantaggio di video sulle nuove collezioni, un interrogarsi frenetico sui modi più efficaci di comunicare il prodotto in un momento di globale confinamento.

Armani, per primo, aveva deciso di sfilare a porte chiuse, nel rispetto della salute dei suoi collaboratori e del pubblico. Sei mesi dopo è ancora Armani a segnare il nuovo corso con una decisione clamorosa: sabato 26 settembre, alle 21, su La7, la sua collezione primavera-estate 2021 verrà presentata in diretta televisiva e lo stesso designer racconterà al pubblico se stesso e il suo lavoro. È una scelta spiazzante, che segna un punto di non ritorno rispetto a una delle prerogative più esclusivamente custodite delle sfilate: l’elitarietà.

 

La pandemia ha reso ridicole immagini che ci erano familiari: code davanti alle location dei designer più concupiti, celebrità in prima fila, il racconto estasiato di chi riceveva l’invito e si considerava parte di un club iniziatico, l’ordine assegnato agli spettatori nelle file, secondo un criterio di rigida utilità pubblicitaria ed economica. E il senso di una mancanza, che solo oggi ci appare chiara: il destinatario finale, l’acquirente, il pubblico, a queste sfilate non solo non c’era, ma non veniva neppure considerato, se non come bersaglio di un gigantesco spot, da guardare da lontano.


La moda sta ripensando tempi di produzione, luoghi di manifestazione, parole per esprimersi. I creativi che si presenteranno da oggi a Milano lo faranno con eventi in parte digitali in parte “in presenza”, ma in centro saranno posizionati maxi schermi dove mostrare in diretta streaming le collezioni. Si parla di sfilate “inclusive”, aggettivo finora accuratamente bandito da un sistema che ha sempre curato l’esclusività e l’esclusione della massa dai suoi eventi.

 

Armani ha trovato la sintesi giusta per esprimere il nuovo corso: c’è bisogno di riallacciare il rapporto diretto col pubblico. La moda, da sempre perfidamente antidemocratica, scopre di aver bisogno di democrazia per raddrizzare i conti, per conquistare nuove generazioni e futuri mercati. È il momento di raccontarsi, a tanti, di condividere storie senza intermediari, anche col mezzo più popolare e meno glamour di comunicazione.

boria_a


giovedì 10 settembre 2020

IL LIBRO

 

Federica Manzon: da Trieste a Sarajevo, il bosco delle scoperte è tornato a riempirsi di confini invisibili 




 

 

“Di là”, si diceva una volta a Trieste. “Di là“ per intendere quel mondo che si apriva oltre il confine, una scorciatoia avverbiale a indicare qualcosa di minaccioso e sconosciuto, un pericolo incombente ma indefinito, pronto a rovesciarsi con le sue bandiere rosse sulla pigra città marina. “Di là” aveva un senso diverso a casa di Schatzi, abituata fin da piccola a varcare il confine insieme al padre per lunghe camminate nei boschi di Tarnova, alla ricerca di funghi, sulle tracce di una lepre o di un cerbiatto, fino ad autunno inoltrato, quando la tavolozza della natura dall’arancio vira al bordeaux e la terra si fa dura sotto i piedi.


“Nel bosco non esistono confini” ripeteva il padre ai suoi due figli, come una formula da mandare a memoria, il cui senso sarebbe stato chiaro negli anni a venire. E non importa se un giorno il ragazzino (il più riottoso, che avrebbe presto abbandonato le escursioni per i tuffi), dopo una notte alcolica in Val Rosandra, aveva attraversato il bosco per andare a pisciare “di là” e si era ritrovato un kalashnikov piantato tra le costole e una stella rossa all’altezza degli occhi. Un incidente “irrilevante”, aveva minimizzato papà, attaccando la lezione che avrebbe ripetuto negli anni, a dispetto degli eventi: per camminare nel bosco si impara ad accordare il respiro ai passi, in un ritmo che è il tuo proprio e induce alla riflessione, è l’esercizio del vagabondare non del competere. Nel bosco non ci importa della meta nè di chi incrociamo, viandanti o fuggitivi, irrequieti e oziosi, ci si saluta nella lingua dell’altro con un sorriso e si cede il passo, perché il bosco non si divide in nazionalità come una carta geografica e nessuno può impedire a una betulla di piegare i rami in un’altra direzione.


“Di là”, impara Schatzi, è un semplice bordo, il punto in cui si incrociano due tessuti. Può riservare delusioni e sorprese, come l’incontro con un gruppo di soldati i cui paracadute si gonfiano al borino, anemoni tropicali sbocciati tra gli alberi.
Anno 1979, Trieste, confine con la Repubblica socialista federale di Jugoslavia. Comincia da qui la lunga camminata di Schatzi, voce narrante del nuovo libro di Federica Manzon “Il bosco del confine”, che esce per Aboca (pagg. 176, euro 14). Una riflessione storica, ma prima ancora poetica e personale sull’identità dei popoli e delle persone, su quel “di là“ che la protagonista, educata da genitori internazionalisti e poco convenzionali a considerare spazio di libertà e curiosità, vede incrinarsi, minato dalle differenze, poi annientarsi nella furia degli uomini.


Lei, Schatzi, mandata a studiare in una classe slovena sul Carso, abituata a destreggiarsi tra le lingue (il triestino degli amici, l’italiano di mamma, il serbo del padre incrociato con tanti altri idiomi del suo peregrinare), alle acrobazie dell’integrazione, Schatzi che dall’estate all’autunno si infila calzettoni e scarponcini di prima mattina mentre i compagni si rosolano al sole o bordeggiano tra via Dante e via Mazzini all’inizio delle lezioni, o che scia d’inverno “di là”, dove la neve cade prima.
1984, Repubblica socialista federale di Jugoslavia, Sarajevo. Le Olimpiadi invernali sono il regalo del padre alla ragazza per i suoi sedici anni, i Giochi voluti da Tito che sono diventati l’orgoglio dei sarajeviti per quella pista di bob sul Trebevi„ che è la più veloce del mondo, per i 1410 atleti presenti da 49 Paesi, compresi gli americani, che a Mosca non c’erano.


A dirglielo con fierezza e a farle da guida in città e sul monte è Luka, nato a Dubrovnik e orfano di un padre ammazzato come traditore nel lager del Maresciallo, ora accolto con la madre dallo zio di Sarajevo che nel magnifico sistema della federativa crede ancora. Luka “acceleratore di intimità” tra Schatzi e la città che in quei giorni, sotto gli occhi del mondo, vive l’ultimo grande sogno della convivenza cosmopolita, la Sarajevo dei poeti(che si riveleranno anche aguzzini), e delle tante lingue, dove per le strade si mescolano camerieri dalmati, guide belgradesi, spalatori dalla Krajina. Il luogo a cui finalmente sente di appartenere, degna figlia di un padre che non crede nei confini, nè nel bosco nè fuori, convinto che l’Europa debba nascere lì, in quel “di là” che è un tessuto di tante etnie.
E quando nevica finalmente, nel febbraio insolitamente asciutto, arrivano in migliaia da tutto il paese a battere le piste di notte, al fianco dei soldati dell’Armata federale, per rendere impeccabile la pista dove Jure Franko conquisterà l’argento nello slalom, prima medaglia olimpica jugoslava, festeggiata issando icone di Tito tra grandi bevute, e la pista di bob dove nove anni dopo si annideranno i cecchini dell’esercito serbo-bosniaco e i primi civili inermi cadranno come pupazzi sul ponte Vrbanja.


2015, Federazione di Bosnia e Erzegovina. Schatzi non è più tornata a Sarajevo dai giorni delle Olimpiadi, è andata verso ovest, ha coltivato amicizie intellettuali e salotti mondani, mettendo distanza tra sè e le camminate dell’infanzia, l’eredità del padre, la città che aveva eletto a luogo dell’anima, in cui riconoscersi. Dell’assedio del 1993 ha saputo dagli appunti di Luka, arrivati nella casa di Trieste, un contatto cercato da lei per prima: le file per il pane centrate dai colpi di mortaio, gli zotici del Montenegro che sparano senza tregua dai buchi delle giunture della pista di bob, i giornalisti stanziali nelle hall dell’Holiday Inn che pagano qualcuno per riprenderlo mentre scappa tra i palazzi sventrati (salvo il giornalista triestino che si è fermato qui per l’amore di una donna, o forse si è innamorato per restare). La neve che finalmente cade, come nella notte olimpica, e questa volta ammansisce i cecchini e concede ai bambini sulle slitte un momento di tregua. E il Trebević, tagliato fuori dalla città, luogo ormai “loro”, il “di là” vietato, pietre e macerie, il Trebević che aveva accolto i cittadini di tutto il mondo quando era ancora il mondo era diviso.


Cercare Luka, l’alibi di Schatzi per tornare a Sarajevo. L’ultima tappa del War Tour è la pista di bob, ma nel bosco non si può andare: “Qui è Republika Srpska” dice la guida perdendo affabilità e mostra sul cellulare i tronchi d’abeti dove sono attaccati i fogli con il profilo di Mladić, il generale dell’assedio.
Lassù, nell’ultimo giorno a Sarajevo, l’incontro con Dragan, l’amico musicista di Luka, padre serbo, madre bosniaca e lui che si sente “niente”, figlio di un paese che non esiste più e di una città cambiata, dove pure è tornato, perchè qui si placa quell’inspiegabile inquietudine da sradicamento che Shatzi si sente addosso fin da bambina. Conosce gli sminatori, Dragan, sa dove è possibile camminare senza finire nel nuovo “di là”. E Schatzi lo segue nel bosco, pieno di confini invisibili. 

@boria_a

martedì 8 settembre 2020

MODA & MODI

 Riappropriarsi del corpo, un segno di fiducia

Mantelle, ampi cappotti avvolgenti, pantaloni fluidi, tailleur monocolore, una nuova interpretazione del trench. La moda non è finita e l’autunno, con le tante incognite della ripartenza, nelle prime vetrine post-saldi ci suggerisce capi solidi, strutturati, ben tagliati, materiali di qualità e appena qualche vezzo serenamente trascurabile (frange, catene, pezzi in vinile o argento stagnola). Come dopo ogni bufera, c’è voglia e bisogno di riemergere all’insegna della creatività, che quest’anno più che mai si lega alla grazia, alla discrezione, al senso di un capo che dura nel tempo, che rispetta l’ambiente e il lavoro di chi l’ha prodotto, soprattutto che esprime un’idea per definirci.

Dopo le tute, le felpe informi, i calzoncini sportivi, dopo che per mesi, attraverso uno schermo, abbiamo reso visibile di noi solo volto e busto, vogliamo riappropriarci del perimetro intero del corpo. “Questa non è la fine della moda” ha scritto Vanessa Friedman, firma di eccellenza del New York Times, per mettere un punto fermo a mesi di sfilate online, di video, di tutta la virtualità possibile e restituirci l’entusiasmo di vedere dal vivo capi che si muovono su corpi, anche sui nostri, senza l’intermediazione di uno schermo.


L’incertezza è una spinta al cambiamento, lo dimostra la storia della moda. Le epidemie medievali sollecitavano nuove regole nell’abbigliarsi. Finita la Prima guerra mondiale sbocciò l’era “ruggente”della liberazione del corpo, dopo la seconda nacque il New look di Dior, all’insegna della fiducia nel futuro, e Gucci lanciò la Bamboo bag, ancora oggi oggetto di desiderio. L’austerity petrolifera degli anni ‘70 rimbalzò contro i colori e la ricercatezza della collezione dedicata ai Balletti russi di Yves Saint Laurent, all’indomani di un’altra recessione, nel 2008, esplose ovunque la logomania.


La moda guarda avanti, oggi più rispettosa, più attenta all’ambiente e alle persone, meno affannata a rincorrere se stessa con la catena di montaggio delle collezioni, senza frustrare le idee. Nelle vetrine cominciano a comparire capi come beni rifugio, sartoriali e confortevoli, capi da tenere, da riutilizzare, da rimettere in circolo (l’ha fatto anche Cate Blanchett sul tappeto rosso della Mostra del cinema di Venezia). Fiducia e maturità. È un bel segnale.

martedì 1 settembre 2020

L'INTERVISTA


Abir Mukherjee: "La Brexit è il nostro populismo, ma l'Inghilterra resta un paese tollerante"






Proprio in questi giorni in Gran Bretagna è scoppiata la polemica sul passato colonialista del paese, con la Bbc accusata di aver cassato i canti patriottici “Rule, Britannia” e “Land of Hope and Glory” dalla notte di chiusura dei “Proms”, grande evento concertistico del 12 settembre 2020 alla Royal Albert Hall di Londra. I giornali filo-conservatori si sono scatenati, accusando la Bbc di resa ai movimenti contro razzismo e schiavismo sulla scia del Black Lives Matter, mentre il premier Boris Johnson ha sentenziato: “È tempo di smetterla di imbarazzarci della nostra storia".

Un lancio di stretta attualità, dunque, per il nuovo romanzo storico dello scrittore anglo-indiano Abir Mukherjee, da giovedì 3 settembre 2020 in libreria con “Fumo e cenere” (Sem). È il terzo tradotto in italiano (mentre in Gran Bretagna è già uscito il quarto) della serie che ha al centro le investigazioni ambientate a Calcutta, al tempo del British Raj, di una strana coppia di detective, il capitano britannico Wyndham, veterano della Grande guerra, e il poliziotto indiano, educato a Cambridge, Surrender-not (semplificazione dell’impronunciabile nome originale, Banerjee).


Il crimine - questa volta una serie di omicidi e mutilazioni - è un pretesto per approfondire un periodo storico, quello dell’impero coloniale inglese in India, da cui l’autore è affascinato e incuriosito e che restituisce al lettore in storie fresche, ritmate e percorse da un inconfondibile humour britannico. In questa terza crime story siamo nel 1921, in una Calcutta dove il movimento non violento di Gandhi dilaga.

Abir Mukherjee (foto Nick Tucker)


Abir Mukherjee, lei ha una doppia identità, come i suoi personaggi, dove caratteristiche, buone e meno buone, dell’una e dell’altra si mescolano. Essere figlio di immigrati indiani l’ha abituata a questo sguardo duplice? «Assolutamente. Quando sei figlio di immigrati, cresci con due culture differenti e questo ti dà una prospettiva diversa sulle cose. Fin da piccolo impari a interrogarti su tutto quello che ti viene detto e che gli altri accettano come un dato di fatto. Vedi la verità e l’ipocrisia da entrambi i lati».


Perchè il periodo coloniale è ancora studiato così poco nelle scuole britanniche? «Credo che ci piaccia sempre vedere il meglio di noi. Il mito britannico è basato su una narrazione piuttosto eroica: costruire un impero, contrastare il fascismo mentre il resto dell’Europa ci soccombe. Nessuno ama affrontare la cruda verità che la propria narrazione nazionale possa essere una bugia. E a differenza di Italia, Germania o anche Francia, la Gran Bretagna non è stata mai costretta a esaminare veramente i torti del suo passato. Parliamo di un paese che non ha subito un’invasione in mille anni, che non ha perso una guerra in oltre cento. Questo favorisce lo sviluppo di una certa mentalità, che non si fa mettere in discussione da fatti esterni. Ma qualcosa sta cambiando. La storia coloniale viene finalmente insegnata, col buono e il cattivo, fino a un certo punto nelle scuole britanniche».


Cos’è rimasto dell’impero in India e in Gran Bretagna?
«Credo che l’eredità dell’impero sia stata più forte in India che in Gran Bretagna. Per almeno cinquant’anni dopo che gli inglesi se ne erano andati, molti indiani hanno continuato a patire un senso di inferiorità, un colonialismo della mente. Solo negli ultimi vent’anni, con la crescita di una generazione senza ricordi dell’impero e con lo sviluppo dell’India come potenza economica, queste catene sono finalmente state spezzate».


Oggi l’Inghilterra vive la delicata fase della Brexit. La società multiculturale nata dopo la guerra è in crisi. C’è nostalgia di una supremazia britannica sul mondo? «Bella domanda. Credo che la Brexit sia la manifestazione “inglese” (non britannica, perchè nè la Scozia nè l’Irlanda del Nord la volevano) del populismo che sta spazzando il mondo. E questo è dovuto al fatto che molta gente è stata lasciata indietro dal capitalismo globale neo-liberale. Sentono di non ricavare niente dalla società dal punto di vista economico e se la prendono con facili capri espiatori, stranieri e immigrati. Ma c’è anche un altro aspetto. Credo che l’Inghilterra sia la più tollerante e integrata grande nazione nel mondo. Il Covid ha ricordato al paese quanto abbiamo bisogno delle nostre minoranze etniche, dei nostri dottori e infermieri indiani, caraibici, africani. Al tempo stesso, dopo il Primo ministro, le due più importanti cariche governative, quelle di Cancelliere dello scacchiere e di segretario di Stato per gli Affari interni, sono ricoperte da inglesi che, come me, hanno radici indiane. Il cancelliere, Rishi Sunak, è probabilmente il politico più popolare nel governo in questo momento, e il segretario di Stato, Priti Patel, sembra essere più ostile agli immigranti di molti di quelli che hanno avuto il suo stesso incarico. Posso essere in disaccordo con le loro politiche, ma sono fiero di un paese dove perfino il partito conservatore di destra ha minoranze etniche in ruoli così alti dello stato. L’Inghilterra non è perfetta, tutt’altro, ma penso che sia un paese molto più tollerante rispetto alla maggioranza degli altri. Non credo invece ci sia nostalgia per una supremazia britannica. Pochi ricordano l’impero. Il nazionalismo che vediamo oggi deriva dalla paura. La gente vuole solo più controllo sulla sua vita. Credono nello slogan “Riprendere il controllo”. Il problema è che sono parole vuote».


L’India è un gigante economico che ha ancora terribili sacche di povertà e oggi ha a che fare anche con l’assalto del nazionalismo. Che cosa ne pensa? «Non soltanto sacche di povertà, ma anche enormi disparità di ricchezza tra ricchi e poveri. Il Covid sta mettendo il paese a dura prova e sono i poveri a pagare il prezzo più alto. È vero, nazionalismo e populismo stanno crescendo, come in molte altre parti nel mondo. In India, hanno le sembianze del fondamentalismo indù. Questo mi preoccupa molto. L’India sembra tradire i principi di secolarismo e tolleranza ispirati da Gandhi, su cui si è fondato il paese. Ma spero che questa ondata di intolleranza finisca. L’India è una democrazia e la stragrande maggioranza della popolazione è giusta, tollerante, buona. Voglio sperare che, sul lungo periodo, sia questa a trionfare sulla mentalità ristretta di populisti e nazionalisti».


Perchè Wyndham e Surrender-not piacciono tanto ai lettori? «Onestamente non lo so. Forse ha qualcosa a che fare con il fatto che nessuno dei due è perfetto. In realtà entrambi sembrano due persone oneste, perse in un mondo che fanno fatica a capire. Hanno bisogno l’uno dell’altro per venirne a capo».





Nel libro lei parla di esperimenti con gas tossici condotti dagli inglesi nel British Raj. Quali sono le sue fonti storiche? «C’è una documentazione storica molto scarsa su questi test (che vennero effettuati negli anni Trenta), ma la mia ricerca si basa su rapporti scoperti da giornalisti, in particolare Rob Evans, che scrive per il Guardian».


La storia si svolge nel 1921, l’anno in cui Gandhi incitava alla resistenza non violenta e il Principe di Galles, Edward, era mandato in visita ufficiale in India. Una coincidenza cruciale... «Non una concidenza, una tattica, ancor oggi molto praticata dalla diplomazia britannica. Mandare membri della famiglia reale in viaggi all’estero è una parte importante del soft power britannico. Il tour in India del Principe di Galles era considerato un mezzo per rafforzare il patriottismo e i sentimenti di calore in ogni parte dell’impero. Inoltre il governo voleva allontanarlo dalla sua amante di allora e pensava che con un viaggio in India avrebbe preso due piccioni con una fava. Ma Edward odiava gli indiani, che lo accolsero con sommosse a Bombay. Passò buona parte del viaggio cacciando e sparando in lungo e in largo per il Paese, arrivando a Calcutta in giorno di Natale».


L’impero britannico in India termina nel 1947. Quanto dureranno le investigazioni dei suoi personaggi? «Speriamo che siano ancora in giro al momento dell’indipendenza, ma questo significa vent’anni ancora di libri. Mi auguro di vivere abbastanza a lungo per scriverli tutti. Ma la storia che davvero voglio raccontare è quella della carestia in Bengala del 1943. Nello stesso anno in cui tre milioni di ebrei venivano uccisi col gas in Europa, tre milioni di indiani morivano per una carestia indotta dall’uomo, per la quale Winston Churchill ha una grande responsabilità morale. La carestia avrebbe potuto essere evitata, ma Churchill non riteneva che le vite degli indiani valessero quanto quelle dei bianchi. Questa carestia è stata cancellata dalla storia britannica e io vorrei ricordarla alla gente».




Ci dia un’anticipazione: Wyndham si libererà dalla dipendenza all’oppio? «Per questo bisogna leggere il quarto libro...».


Ed entrambi, Wyndham e Surrender-not, troveranno l’amore? «Nessuno dei due è particolarmente bravo con le donne. Wyndham è troppo rigido e inglese, e Surrender-not è un'imbranato quando si tratta del sesso opposto, che se ne accorge subito. Forse se fossero italiani le cose andrebbero diversamente. Non lo so se troveranno l’amore, ma non vedo l’ora di scoprirlo».

@boria_a