IL LIBRO
Richard Roper e l'addetto alle morti solitarie
che impara ad aprirsi di nuovo all'amore
In chiesa lo chiamano "il servizio delle nove”. È il funerale di chi muore da solo, che si tiene a un’ora prestabilita, senza il rischio che un ingorgo di traffico o il ritardo di un treno blocchi inesistenti parenti o amici. Ai “funerali di povertà” o “di igiene pubblica”, o “sociali”, o di “welfare”, e via fantasiosamente perifrasando, non va mai nessuno. Eccetto Andrew, il funzionario quarantenne dell’amministrazione pubblica di Londra che ha l’incarico di compiere la perlustrazione nella casa del morto e verificare l’esistenza almeno dei soldi necessari a pagare le esequie. Quando si era ritrovato addetto al mesto incarico, Andrew, il protagonista del primo romanzo di Richard Roper, “Qualcosa per cui vivere” (Einaudi) aveva pensato che l’espressione “servizio delle nove” avesse una sua dolcezza evocativa, quasi dickensiana, salvo poi scoprire che la procedura era piuttosto asettica e deprimente: un odore nauseabondo, bollette non pagate da mesi, corpi rinvenuti nelle situazioni più strane, dalla vasca da bagno all’autoerotismo, l’imbragamento e la rapida perquisizione alla ricerca di qualcosa di valore che evitasse alla “vecchia Betty Windsor”, sua maestà, di farsi carico del defunto. A procedura conclusa, Andrew è l’unico, col prete, a dare l’addio a perfetti sconosciuti, senza esservi tenuto per contratto, semplicemente perchè avverte l’obbligo morale di riscattare con un gesto di vicinanza la morte di persone allontanate dalla vita.
Cosa lo lega a loro? Niente, nella sua bella casa lo attendono una moglie perfetta, Diane, e due bambini, così almeno ha detto al colloquio di assunzione. Invece, una volta girata la chiave dell’appartamentino in uno squallido edificio di Old Kent Road, tra pareti dilaniate dagli scarabocchi e puzza di muffa, lo aspettano solo i dischi di Ella Fitzgerald - di qui il titolo originale del libro, dal doppio album “Something to live for” del ’99 - la collezione di trenini e un forum di patiti di modellismo ferroviario, con cui divide le sue solitarie serate. Andrew si è costruito intorno una ragnatela di bugie così perfetta che con un foglio di calcolo ha previsto tutte le possibili domande degli estranei, dal primo incontro con Diane alle malattie dei figli. Nessuno può entrare nel mondo finto dove si è ritirato da vent’anni, finché un paio di gambe fasciate di calze verde scuro, per sbaglio spuntate da sotto la sua scrivania, comincia a soffiare di nuovo la vita in un uomo a perdere. È Peggy, la nuova collega dell’ufficio, destinata ad affiancarlo nell’ultima visita alle case dei tanti John, Eric, Terry, prossimi inquilini dell’angolo piu negletto del cimitero.
Perché le note di Blue Moon dell’amata Ella paralizzano Andrew? Per assurdo sarà la morte a riportarlo in vita. Quando un lutto personale scuote la sua quotidianità, quando lo strappo non ha il volto di uno sconosciuto ma di una persona allontanata da sè per una serie di fraintendimenti, l’uomo comincia a tradire la sua famiglia immaginaria, a sentire il castello di bugie come un peso non più come una protezione dal dolore. E a pensare di non essere per forza condannato anche lui a “diventare un mucchietto di carbonio dentro una bara disadorna”, ma di avere il diritto di amare ed essere ricambiato.
L’hanno definita Up-lit, letteratura che tira su. E non è una contraddizione se il lettore si ritrova in interni pieni di solitudine, in cimiteri, tra morti dimenticati. Perché in ognuna di queste storie - antesignana del genere Eleanor Oliphant sta benissimo di Gail Honeyman - quello che prevale è la solidarietà, l’attaccamento alla vita, l’insopprimibile capacità di tornare ad aprirsi all’amore e agli altri. Con circospezione, perché in nessuna di queste storie c’è mai un “e vissero felici” conclamato, ma con l’aspettativa di chi esce, ancora a tentoni, da un lungo periodo di confinamento, fisico e dei sentimenti. Letteratura che cura, per questi tempi.
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