giovedì 10 settembre 2020

IL LIBRO

 

Federica Manzon: da Trieste a Sarajevo, il bosco delle scoperte è tornato a riempirsi di confini invisibili 




 

 

“Di là”, si diceva una volta a Trieste. “Di là“ per intendere quel mondo che si apriva oltre il confine, una scorciatoia avverbiale a indicare qualcosa di minaccioso e sconosciuto, un pericolo incombente ma indefinito, pronto a rovesciarsi con le sue bandiere rosse sulla pigra città marina. “Di là” aveva un senso diverso a casa di Schatzi, abituata fin da piccola a varcare il confine insieme al padre per lunghe camminate nei boschi di Tarnova, alla ricerca di funghi, sulle tracce di una lepre o di un cerbiatto, fino ad autunno inoltrato, quando la tavolozza della natura dall’arancio vira al bordeaux e la terra si fa dura sotto i piedi.


“Nel bosco non esistono confini” ripeteva il padre ai suoi due figli, come una formula da mandare a memoria, il cui senso sarebbe stato chiaro negli anni a venire. E non importa se un giorno il ragazzino (il più riottoso, che avrebbe presto abbandonato le escursioni per i tuffi), dopo una notte alcolica in Val Rosandra, aveva attraversato il bosco per andare a pisciare “di là” e si era ritrovato un kalashnikov piantato tra le costole e una stella rossa all’altezza degli occhi. Un incidente “irrilevante”, aveva minimizzato papà, attaccando la lezione che avrebbe ripetuto negli anni, a dispetto degli eventi: per camminare nel bosco si impara ad accordare il respiro ai passi, in un ritmo che è il tuo proprio e induce alla riflessione, è l’esercizio del vagabondare non del competere. Nel bosco non ci importa della meta nè di chi incrociamo, viandanti o fuggitivi, irrequieti e oziosi, ci si saluta nella lingua dell’altro con un sorriso e si cede il passo, perché il bosco non si divide in nazionalità come una carta geografica e nessuno può impedire a una betulla di piegare i rami in un’altra direzione.


“Di là”, impara Schatzi, è un semplice bordo, il punto in cui si incrociano due tessuti. Può riservare delusioni e sorprese, come l’incontro con un gruppo di soldati i cui paracadute si gonfiano al borino, anemoni tropicali sbocciati tra gli alberi.
Anno 1979, Trieste, confine con la Repubblica socialista federale di Jugoslavia. Comincia da qui la lunga camminata di Schatzi, voce narrante del nuovo libro di Federica Manzon “Il bosco del confine”, che esce per Aboca (pagg. 176, euro 14). Una riflessione storica, ma prima ancora poetica e personale sull’identità dei popoli e delle persone, su quel “di là“ che la protagonista, educata da genitori internazionalisti e poco convenzionali a considerare spazio di libertà e curiosità, vede incrinarsi, minato dalle differenze, poi annientarsi nella furia degli uomini.


Lei, Schatzi, mandata a studiare in una classe slovena sul Carso, abituata a destreggiarsi tra le lingue (il triestino degli amici, l’italiano di mamma, il serbo del padre incrociato con tanti altri idiomi del suo peregrinare), alle acrobazie dell’integrazione, Schatzi che dall’estate all’autunno si infila calzettoni e scarponcini di prima mattina mentre i compagni si rosolano al sole o bordeggiano tra via Dante e via Mazzini all’inizio delle lezioni, o che scia d’inverno “di là”, dove la neve cade prima.
1984, Repubblica socialista federale di Jugoslavia, Sarajevo. Le Olimpiadi invernali sono il regalo del padre alla ragazza per i suoi sedici anni, i Giochi voluti da Tito che sono diventati l’orgoglio dei sarajeviti per quella pista di bob sul Trebevi„ che è la più veloce del mondo, per i 1410 atleti presenti da 49 Paesi, compresi gli americani, che a Mosca non c’erano.


A dirglielo con fierezza e a farle da guida in città e sul monte è Luka, nato a Dubrovnik e orfano di un padre ammazzato come traditore nel lager del Maresciallo, ora accolto con la madre dallo zio di Sarajevo che nel magnifico sistema della federativa crede ancora. Luka “acceleratore di intimità” tra Schatzi e la città che in quei giorni, sotto gli occhi del mondo, vive l’ultimo grande sogno della convivenza cosmopolita, la Sarajevo dei poeti(che si riveleranno anche aguzzini), e delle tante lingue, dove per le strade si mescolano camerieri dalmati, guide belgradesi, spalatori dalla Krajina. Il luogo a cui finalmente sente di appartenere, degna figlia di un padre che non crede nei confini, nè nel bosco nè fuori, convinto che l’Europa debba nascere lì, in quel “di là” che è un tessuto di tante etnie.
E quando nevica finalmente, nel febbraio insolitamente asciutto, arrivano in migliaia da tutto il paese a battere le piste di notte, al fianco dei soldati dell’Armata federale, per rendere impeccabile la pista dove Jure Franko conquisterà l’argento nello slalom, prima medaglia olimpica jugoslava, festeggiata issando icone di Tito tra grandi bevute, e la pista di bob dove nove anni dopo si annideranno i cecchini dell’esercito serbo-bosniaco e i primi civili inermi cadranno come pupazzi sul ponte Vrbanja.


2015, Federazione di Bosnia e Erzegovina. Schatzi non è più tornata a Sarajevo dai giorni delle Olimpiadi, è andata verso ovest, ha coltivato amicizie intellettuali e salotti mondani, mettendo distanza tra sè e le camminate dell’infanzia, l’eredità del padre, la città che aveva eletto a luogo dell’anima, in cui riconoscersi. Dell’assedio del 1993 ha saputo dagli appunti di Luka, arrivati nella casa di Trieste, un contatto cercato da lei per prima: le file per il pane centrate dai colpi di mortaio, gli zotici del Montenegro che sparano senza tregua dai buchi delle giunture della pista di bob, i giornalisti stanziali nelle hall dell’Holiday Inn che pagano qualcuno per riprenderlo mentre scappa tra i palazzi sventrati (salvo il giornalista triestino che si è fermato qui per l’amore di una donna, o forse si è innamorato per restare). La neve che finalmente cade, come nella notte olimpica, e questa volta ammansisce i cecchini e concede ai bambini sulle slitte un momento di tregua. E il Trebević, tagliato fuori dalla città, luogo ormai “loro”, il “di là” vietato, pietre e macerie, il Trebević che aveva accolto i cittadini di tutto il mondo quando era ancora il mondo era diviso.


Cercare Luka, l’alibi di Schatzi per tornare a Sarajevo. L’ultima tappa del War Tour è la pista di bob, ma nel bosco non si può andare: “Qui è Republika Srpska” dice la guida perdendo affabilità e mostra sul cellulare i tronchi d’abeti dove sono attaccati i fogli con il profilo di Mladić, il generale dell’assedio.
Lassù, nell’ultimo giorno a Sarajevo, l’incontro con Dragan, l’amico musicista di Luka, padre serbo, madre bosniaca e lui che si sente “niente”, figlio di un paese che non esiste più e di una città cambiata, dove pure è tornato, perchè qui si placa quell’inspiegabile inquietudine da sradicamento che Shatzi si sente addosso fin da bambina. Conosce gli sminatori, Dragan, sa dove è possibile camminare senza finire nel nuovo “di là”. E Schatzi lo segue nel bosco, pieno di confini invisibili. 

@boria_a

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