sabato 28 aprile 2018

IL LIBRO

 L'ultima volta che vidi mia madre





Una pausa dallo studio per concedersi un gelato, in un pomeriggio assolato di luglio a Mondello, tra lo scritto e l’orale della maturità, quando, come in quell’estate del ’78, tra una prova e l’altra dell’esame, passava un tempo variabile, determinato dall’estrazione di una lettera. Roberto percorre qualche metro della stradina dove si trova la sua casa delle vacanze, gli amici lo lasciano andare avanti, mettono distanza tra lui e loro per concedergli uno spazio di discrezione, perchè seduta sul marciapiede c’è una donna che lo aspetta: sua madre Elena.

Come possiamo sapere quando prenderemo commiato, per sempre, da una persona? Quando sarà l’ultima volta di un contatto, uno sguardo, due parole? Il distacco da suo padre Vittorio, per Roberto adulto, durerà dieci anni, il tempo lungo del dilagare della malattia, da un primo ictus alla morte. Un commiato sempre sul punto di accadere, come il muoversi lento di un treno, quando l’addio si prolunga e alla fine non vedi l’ora che parta per fermare l’altalena dei sentimenti.
Come vanno gli studi? E la data dell’esame?, gli chiede Elena, la madre quarantaduenne che da due anni non vive più in famiglia. Lei si ripara gli occhi dal sole con la mano a paletta, lui sente lo sguardo dei compagni incollato alla schiena, entrambi, per ragioni diverse, bloccati. L’ultima volta. Come poteva saperlo, quel ragazzino che prepara la maturità?


È un’indagine intensa, toccante, quella in cui ci coinvolge Roberto Alajmo, giornalista e scrittore, ne “L’estate del ’78” (Sellerio, pagg. 173, euro 15,00), la ricostruzione di quanto accadde a sua madre prima di quell’inconsapevole congedo a Mondello e, procedendo per indizi, nei tre mesi successivi. I ricordi del bambino, poi dell’adolescente, l’oggi dell’uomo adulto, a sua volta padre di Arturo, le foto di famiglia sulla copertina e nel libro: un racconto così personale, sincero, scoperto che potrebbe sembrare impudico, se l’autore non lo governasse col registro della delicatezza, con tratti di humour un po’ nero. 



Roberto Alajmo, giornalista e scrittore


Estate 1968, alle falde del Monte Gallo, un’escursione con i figli Roberto e Marcello. Vittorio, seduto, cinge col braccio la gamba della moglie Elena, in piedi. Lui guarda altrove, lei non sorride, sembra si siano messi in posa, vicini eppure già divergenti. È lì che comincia la fine di una storia? Di quell’amore che quindici anni prima viaggiava tra Palermo e Casale Monferrato, dove Vittorio era militare, in lettere che restituiscono la tenerezza dei vezzeggiativi - Pilipicca, Pilipicco - delle allusioni al sesso - fare zigt-zigt - l’ansia del ricongiungersi. «Il ritratto di un amore - scrive Roberto - dal quale fa un bell’effetto essere stati concepiti».


Un farmaco, lo Spasmo Oberon, appanna il sorriso di Elena. Lo prende per combattere acuti mal di testa, ma ne diventa schiava. Il barbiturico sarà bandito dal mercato per decreto solo nel 1986, dopo aver popolato le case italiane degli anni Settanta di «madri di famiglia rincoglionite e tossicodipendenti, e nessuno lo sa».
L’effetto che ha sulla giovane donna si fissa nelle immagini. La madre tenera, che gioca con i figli sul letto nelle sere del Rischiatutto, la maestra “alternativa” che segue don Milani, la pittrice con qualche velleità espositiva, indurisce i lineamenti, gli occhi si velano, finirà col mettere parrucche per non tingersi più i capelli. Cominciano le discussioni notturne, le porte sbattute, gli sciacquoni tirati per far scomparire i blister delle pastiglie, che restano in superficie, ostinatamente, come la “psiconevrosi” che le hanno diagnosticato. Ricoveri ogni sei mesi, poi l’elettroshock, in pratica l’equivalente del calcio alla lavatrice rotta: o riparte o si sfascia del tutto. 


A sfasciarsi è lei, col matrimonio. Figli affidati al padre, un’annotazione agghiacciante nel diario del più piccolo, Marcello, allora quindicenne: la soddisfazione per la legge che proibisce di comprare farmaci senza ricetta. Elena lascia la casa, ma la dipendenza tracima nel lavoro: prima le assenze prolungate, poi l’abbandono della classe e la furia della direttrice compressa tra le righe dei richiami formali. “Resto ancora perchè Roberto mi vuole e Marcello è un cucciolo”, scrive Elena in un biglietto. E per “resto”, intende al mondo.


Il 31 ottobre 1978, mentre è con la sua ragazza nella casa di Mondello, Roberto è attraversato da una folata, si affloscia. Un altro congedo, l’ennesimo? Pochi giorni dopo sua madre viene ritrovata. Sul comodino un messaggio indecifrabile, pasticciato col rossetto: se è un addio nessuno lo comprende. In una lettera precedente, da aprirsi, secondo le sue istruzioni, solo dopo la sua morte, aveva scritto: “voglio che tutti sappiano CHE HO SCELTO IO IL MOMENTO. È l’ultima verità di pavesiana memoria. Roberto mi capirà”.
A quarant’anni da quel lascito ingombrante, Alajmo dice di non sapere se, nello scrivere, ha trovato la catarsi che cercava. Ma col lettore ha condiviso un racconto familiare indimenticabile e una donna che, in quello stampatello, forse chiedeva di essere ricordata.

@boria_a

martedì 24 aprile 2018

MODA & MODI

 Il logo, hashtag per riconoscersi





Il gigantesco aquilotto stampato su felpe e maglioni negli anni Ottanta era probabilmente il pezzo più economico che si potesse acquistare per segnalare agli altri di possedere un capo di Armani, fosse anche emporio, la linea cheap. E quindi di far parte della cerchia consapevole dei “logati”. Chi invece poteva permettersi una griffe ugualmente esibita ma più costosa - “la” Vuitton, status symbol per eccellenza - o, per esempio, i bauletti monogrammati di Dior, tutte borse rigorosamente col lucchetto firmato e dorato (all’epoca difficile e costoso da imitare, a garanzia quasi assoluta di unicità), considerava i volatili di Armani roba da parvenue, tanto più grandi quanto lo era il “vorrei ma non posso” dell’interessato. Dimensioni a parte, il logo a vista, aveva un connotato identificativo: paradossalmente, pubblicizzare un brand, “uniformarsi”, rendeva distinguibili da quanti ignoravano o snobbavano i codici della moda.

Poi vennero gli anni Novanta e il minimalismo che soffiava dal Giappone spazzò via la marca esibita. In un capo di Yamamoto a vista c’erano solo le cuciture, quasi fosse ancora da finire, e, per riconoscerlo al primo sguardo, bisognava avere un colpo d’occhio da iniziati. L’invisibilità era esclusività. Agli inizi del Duemila, la bibbia “No logo” della scrittrice Naomi Klein inchiodava lo strapotere delle multinazionali, più concentrate sulla diffusione del marchio, che sul prodotto in sè. Vestirsi brandizzato era ordinario, ostentazione volgare, e la diffusione di imitazioni sempre più perfette rendeva arduo distinguere l’autentico dal falso. Le griffe superlusso riducevano l’esposizione.


E oggi? Il brand risorge, macroscopico. Che la griffe abbia o meno una lunga storia alle spalle, punta sul suo nome, intero o monogramma, arrivando a ricoprire di loghi tutta la superficie a disposizione. Dal lusso allo sportwear, da Balenciaga a Louis Vuitton, passando per Dolce Gabbana, Fendi, Versace, Max Mara, fino ad Adidas e Nike, è tutto un citarsi scopertamente e citare anche le proprie imitazioni (Guccy) o i marchi di altri (la maglia del Dhl fatta da Vetements), per inglobare nel logo chi se ne appropria storpiandolo o per inglobare quello di altri, in una sorta di upgrade, rendendolo oggetto di desiderio.


Nel mondo degli Instagramers i loghi sono hashtag, richiami immediati e sintetici. Il meccanismo è simile a quello originario: indicatori non di censo ma di appartenenza a una comunità, che, attraverso il logo si riconosce, gioca o esclude.
@boria_a

lunedì 9 aprile 2018

MODA & MODI

Vestirsi da corriere, ma senza ironia


 

 Nel 2016 una t-shirt col logo del Dhl ha fatto impazzire il mondo della moda. L’ha mandata in passerella a Parigi Demna Gvasalia, designer georgiano allora pressoché sconosciuto, firmandola col nome del suo brand, Vetements. La maglietta era la copia identica di quella dei dipendenti del corriere tedesco, con una piccola differenza: costava 250 dollari (contro i sei del negozio online della società).

Il prezzo, non altro, ne ha fatto subito un oggetto iniziatico, insieme al numero limitato dei pezzi a disposizione e quindi al tempo da perderci per entrarne in possesso. Liste d’attesa come per la Birkin di Hermès, un mercato parallelo in rete a cifre da capogiro, molte star dello spettacolo, da Kanye West a Céline Dion, griffate Vetements in prima fila alle sue sfilate. Da allora nessun giornale ha smesso di interrogarsi: presa in giro o nuovo orizzonte creativo? Ironia o business spregiudicato?

Nemmeno i tedeschi hanno protestato, anzi, hanno sfruttato la febbre mediatica, con l’amministratore delegato Dhl in t-shirt Vetements. Nè si sono sollevate le polemiche che, nel 2014, avevano censurato la collezione di Moschino, firmata Jeremy Scott, e ispirata alle divise di McDonald’s (un tailleur come il grembiule indossato da un dipendente del fast food che in un mese non guadagna nemmeno la cifra per comprarne una parte? Vergogna). Gvasalia, intanto, è diventato direttore creativo di Balenciaga e l’innamoramento per lui non si è incrinato.

Finora. Perchè il sito Highsnobiety, un bibbia mondiale dello streetwear, citando buyer, ex dipendenti, consulenti del lusso, tutti rimasti anonimi, ha diffuso un quadro funesto: Vetements non sarebbe più un oggetto del desiderio, aumentano gli invenduti e gli sconti sui capi toccano anche il 90%. Gvasalia, dicono, ha continuato a giocare sul sicuro, con poca fantasia, ma la costante dei prezzi alle stelle (una felpa con il logo dell’Unione Europea a 750 dollari, una t-shirt con il rapper Snoop dogg a 924...).


E Gvasalia? Pare che l’ironia l’abbia esaurita: il giornalismo che ora lo dà in crisi (Highsnobiety era uno dei suoi fan) è naturalmente “wannabe”, “opportunista” e basato su pettegolezzi e bugie, perchè la moda “riguarda gli abiti, non l’hype e il gossip inutile”. Hype e gossip, peraltro, che hanno lanciato il suo giovane brand, aprendogli la strada verso Balenciaga, griffe da svecchiare ma con storia, archivio, tradizione di qualità ben consolidati. Vetements non li ha (forse per questo, se i numeri lo confermeranno, arranca?), non può ispirarsi al passato togliendogli la polvere con un guizzo di underground, e gli serve qualcosa di più del gioco, ripetitivo, della copia per fidelizzare i compratori.


L’ultima parola passa al mercato: saranno i compratori a decidere se sotto la t-shirt non c’è più niente.
@boria_a

sabato 7 aprile 2018

IL LIBRO

 Quant'è dura la vita del libraio





Centomila volumi distribuiti su un chilometro e mezzo di scaffali. Libri e libri usati che riempiono fino all’inverosimile un labirinto di stanze e stanzette, dove si possono trovare testi come “Manuale per la determinazione del sesso nei pulcini di un giorno” o “Oro liquido. Scienza e sapienza del far crescere le piante con l’urina”. Non importa se piove dal tetto, se gli scatoloni si accumulano piuttosto che svuotarsi e se, in qualche giornata particolarmente nera, la conta dei clienti non supera la decina e gli incassi sono poche sterline: una libreria può essere il centro di un mondo meraviglioso, pieno di avventure e di grandi incontri. E il libraio uno straordinario catalogatore e conoscitore dell’animo umano.



Non fatevi ingannare dalla frequente citazione dei “Ricordi di libreria”, il breve saggio in cui George Orwell racconta la sua esperienza part-time, dal ’34 al ’36, al Booklover’s Corner, nel quartiere londinese di Hampstead. Nonostante concordi con lo scrittore soprattutto su un punto («molti dei nostri acquirenti appartenevano a quella categoria di persone che, pur essendo capaci di rendersi insopportabili ovunque, riescono a farlo particolarmente bene in una libreria»), Shaun Bythell, gestore del Book Shop tra le mille anime del villaggio scozzese di Wigtown, nel Galloway, è ben deciso a non dargliela vinta alle grandi catene o a cedere all’aggressività di Amazon.


Il kindle impallinato che campeggia nel negozio come un trofeo, la dice lunga sulla sua filosofia: i libri di carta sono un viaggio affascinante, anche se hanno la prerogativa di produrre polvere e attrarre mosconi moribondi. E i posti che si ostinano a venderli sono insostituibili, con buona pace di Orwell secondo cui calamitano «un sacco di pazzi non ufficialmente accertati che vagano per le strade e tendono a gravitare intorno alle librerie, rari posti in cui si può perdere tempo e ciondolare senza spendere un quattrino». La tipologia è cambiata, precisa Bythell, forse per il miglioramento del servizio sanitario: ora chi si aggira nella sua libreria senza uno scopo apparente, di solito aspetta che il meccanico o il farmacista lì vicino concludano una revisione o evadano la ricetta.

È un delizioso, ironico, agrodolce diario di bordo “Una vita da libraio” (Einaudi, pagg. 378, euro 19,00, con la poetica copertina disegnata da Jon McNaught), il resoconto quotidiano, dal 2014 al 2016, che Bythell scrive della vita nella sua rigatteria, registrando gli acquisti, le scoperte, le richieste stravaganti e disegnando un bestiario umano umanissimo. Bythell è anche uno degli organizzatori del Wigtown Book Festival, che richiama nel piccolo centro nel sud-ovest della Scozia migliaia di persone ogni anno, nonchè il fondatore del Random book club, il suo circolo del “libro a caso”, inventato in un momento di magra, ai cui membri, dietro modico abbonamento, invia mensilmente un volume a sua scelta. Insomma, dell’articolo che tratta, è innamorato profondamente, quasi “tattilmente”. Ciò non toglie che, quando nel suo primo mese da proprietario, nel novembre 2001, un anziano disperso nel reparto di storia marittima, lo apostrofò con un “Allora, quand’è che accende il falò? Mai vista tanta robaccia tutta insieme», la sua fiducia nel potere del libro, e nella sua scelta professionale, abbia fortemente vacillato.





Ci sono però le periodiche telefonate di Mrs Phillips, novantatreenne cieca, che continua a ordinare al negozio la serie di Babar per la pronipote, ignorando l’e-commerce. C’è il cliente abituale, Mr.Deacon, con le idee chiare e la buona abitudine di pagare all’acquisto. O il candido vecchietto che se ne esce con un «sto cercando un libro, ma non so il titolo. So com’è fatto, però. È molto vecchio». E poi il brivido della scoperta, davanti a ogni scatolone da aprire: un testo con la dedica di Florence Nightingale, un centinaio di lettere di condoglianze sciorinate dalle pagine, qualche raro gioiello, come una prima edizione di Ian Fleming con la sovraccoperta intatta. Storie piccole e grandi, come quel Decamerone ormai malconcio, l’ultima memoria di un immigrato italiano, che in altre mani troverà una nuova vita.


Un libro usato, ci dice Bythell, per chi lo vende e per chi lo compra, è come entrare nella vita degli altri. È un incontro con i gusti, le ossessioni, le debolezze e i desideri di uno sconosciuto, è condividerne sogni e percorsi. Anche i commenti a margine di una pagina, che Amazon demonizza, sono aggiunte affascinanti, sguardi nella mente di chi ha letto le stesse pagine. E quando capita di sgombrare le biblioteche di persone senza figli, il libraio sa di portarsi via quanto di più vicino ci possa essere a un’eredità genetica.


Con l’anticipo sull’edizione italiana del suo “diario”, intanto, Shaun ha riparato il tetto del negozio. E, a dispetto dei pochi soldi e dei tanti clienti petulanti o imbroglioni, abbiamo l’impressione che non voglia smettere. Lo prevedeva anche il disincantato Orwell: i colossi hanno schiacciato lattaio e droghiere, ma con il libraio indipendente non l’avranno vinta. In rete si naviga, un libro ci tiene ancorati per sempre.

@boria_a

lunedì 2 aprile 2018

LA MOSTRA

Manfredi in tv col maglione Missoni, che rivoluzione 


























Sintitola “Italiana”, sostantivo, non aggettivo. Per affermare con forza un’identità e un ruolo. È la moda che si sviluppa dal 1971 al 2001: due date fondamentali, la prima che marca la nascita del prêt-à-porter, la seconda il passaggio fra due secoli e la trasformazione del made in Italy in un fenomeno globale. “Italiana, l’Italia vista dalla moda” è un progetto complesso, articolato in una mostra e un libro, curati da Maria Luisa Frisa, critico e direttore del corso di laurea in Design della moda e Arti multimediali allo Iuav di Venezia, e Stefano Tonchi, direttore di W Magazine.






La mostra, aperta a Palazzo Reale di Milano fino al 6 maggio, in nove stanze che approfondiscono altrettanti temi, rivendica l’originalità, la forza creativa, la diffusa capacità produttiva, l’alta qualità della moda italiana, in dialogo con arte, fotografia, architettura, design del trentennio di fine Millennio. «Noi non abbiamo mai costruito una mitologia della moda italiana - sintetizza Frisa - e invece bisogna farlo. La mostra nasce da questo: la necessità di raccontare un momento seminale, quando la nostra moda incide a livello globale e diventa protagonista, alla pari di quella francese e inglese». L’imponente catalogo (Marsilio, pagg. 402, euro 55) raccoglie una serie di contributi critici inediti che ampliano e precisano gli scenari, un’antologia della letteratura sulla moda di quegli anni e un ricco apparato di immagini. 



Maria Luisa Frisa, Giorgio Armani, Pier Paolo Piccioli e Stefano Tonchi


1971-2001: trentennio seminale. Maria Luisa Frisa, che cosa significa?
«In questo momento nascono il prêt-à-porter e la figura dello stilista, che è prettamente italiana, intraducibile nelle altre lingue. Nasce la moda “democratica”, l’utopia del cambiamento nel modo di vestire, il bello e la qualità per tutti. E il tema dell’identità viene svolto in Italia in maniera completa e contemporanea. Così si spiega il grande successo di Giorgio Armani: sta succedendo qualcosa di nuovo nella società e lui è capace di intercettare le necessità dell’uomo e della donna della fine del ’900».


Il prêt-à-porter accompagna cambiamenti sociali...
«Intanto il femminismo, anzi l’affermazione del ruolo della donna. Il ’71 è l’anno in cui a Milano sfila la “collezione unica” di Walter Albini ed è l’anno di nascita del movimento di liberazione della donna. L’uomo esce dalle secche di una sessualità da vivere obbligatoriamente in maniera unica, c’è la liberazione sessuale in tutti i sensi».


Quali i temi che definiscono il periodo? «Quello dell’identità è uno degli snodi più potenti della moda italiana. Penso al “lui e lei” di Albini, alla donna di Armani, che non è l’androgina con lo smoking di Yves Saint Laurent, che risente di un’immagine degli anni Venti, non è Marlene Dietrich col frac, ma una donna che cerca un modo di vestire frutto di una serie di cambiamenti. Dopo le battaglie femministe, la donna non è solo segretaria o assistente, ma siede nei consigli di amministrazione, senza per questo vestirsi da uomo. Armani fa una giacca adattissima al corpo femminile, molto sexy, sotto la quale c’è una bellissima camicia di seta, o trasparente, che si porta con pantaloni morbidi...»


Un’identità che investe l’uomo... «Per l’uomo Armani usa tessuti femminili, lo ammorbidisce, destruttura la giacca, la fa stretta in vita. L’uomo moda è un’invenzione totalmente italiana, è l’uomo che accetta l’omosessualità, che la dichiara. E poi ci sono i temi del glocal, della post-produzione, che registrano atteggiamenti che la nostra moda svolge con un punto di vista molto interessante e indipendente. Pensiamo al tema del viaggio. La collezione Samurai di Armani venne accolta malissimo dalla critica, ma se la riprendiamo in mano oggi ci accorgiamo che è strepitosa. Non è l’orientalismo decorativo di Saint Laurent, ma un uso originale degli elementi costitutivi di un mondo e di una cultura. Questo è l’obiettivo della mostra: far vedere quanto l’Italia e i suoi autori fossero capaci di interpretare in modo autoriale le sollecitazioni che vivevano tutti. Questa qualità e autorevolezza vanno rivendicate».


Una delle immagini portanti della mostra è il servizio fotografico di Oliviero Toscani per Vogue che s’intitola “Unilook”...
«Non si tratta di una lei vestita come lui e viceversa, non è un giocare coi generi. Uomini e donne sono vestiti alla stessa maniera e visti in maniera paritaria. Adesso sembra assodato, ma siamo nel dicembre ’71 e la donna deve essere ancora accettata in certi luoghi. La prima dirigente è stata Marisa Bellisario, ma molto dopo, alla fine del decennio. Oggi parliamo di “genderless”: la moda italiana l’ha fatto in tempi non sospetti, siamo stati molto anticipatori».





 
"Unilook" di Oliviero Toscani (Vogue, dicembre 1971), courtesy Archivio Condè Nast






Missoni ha giocato un ruolo importante in questo cambiamento...
«Direi fondamentale. In mostra c’è il cardigan portato con il maglione sotto e il pantalone morbido. Adesso ci fa sorridere, ma è stata un rivoluzione. Nino Manfredi che andava in televisione col maglione di Missoni invece che in giacca, è nella scia di questa rivendicazione di morbidezza e sensualità per l’uomo, un qualcosa che prima non sarebbe stato mai accettato».





Voi trattate il tema della moda italiana in modo corale...
«Ci sono i grandi, Armani, Versace, Ferrè, ma una parte importantissima la giocano le aziende proprio nell’atto creativo. Pensiamo a Zamasport che, agli inizi, chiama Versace e Romeo Gigli, e alle aziende che diventano palestre creative per gli autori e negli autori credono, investono, li affiancano nel loro lavoro e loro lì, in azienda, si fanno le ossa. Blumarine, quando decide di produrre il tessuto e non solo la maglieria, chiama Albini e poi Moschino. La nostra moda è fatta da tantissimi autori, in maniera diffusa, accanto ai distretti italiani. E tutti compongono un bellissimo affresco di tanti modi di essere creativi e intelligenti».


E tutt’intorno alla moda? «Gli anni ’80 per l’Italia non sono solo lustrini e paillettes. Abbiamo gli architetti più importanti e la Transavanguardia in campo artistico. E anche la nostra moda esplode nel mondo e i nostri autori hanno grandissima visibilità. Gli anni ’90 sono quelli dell’internazionalizzazione e forse lì si rompe qualcosa. Ma è ancora un marchio italiano, Gucci, con l’allora direttore creativo Tom Ford, a definire l’immagine della donna in maniera indelebile, con la camicia stretta e i pantaloni, che si portano tutt’oggi». 


Nel mondo globale possiamo ancora parlare di moda italiana? «Certo, perchè noi abbiamo un sistema produttivo unico al mondo. Quando i colossi del lusso si comprano Loro Piana lo fanno perchè così si assicurano non solo un’etichetta del cachemire ma una realtà produttiva in quel settore che non c’è da nessun’altra parte. Gucci è francese, ma tutte le borse sono prodotte in Toscana. E anche chi produce fuori, realizza i prototipi in Italia, perchè da noi nessuna azienda o artigiano dirà mai che qualcosa non si può fare...».


Perchè non è nato un polo del lusso italiano? «I registi, come Bernard Arnault per Lvmh, e Pinault per Kering, non hanno un loro marchio, ma sono menti, manager con una visione superiore, globale, in grado di superare i gli interessi dei singoli. Da noi il tentativo era stato fatto da Prada, ma Bertelli ha la sua azienda da curare...».


Coma mai in Italia non esiste un museo nazionale della moda? «Perchè la moda non è vista come un sistema che produce cultura. Non dico che ci debba essere un museo nazionale, ma è grave che nei musei nazionali, o al Maxxi, che è il museo delle arti del XXI secolo, non ci sia un dipartimento della moda. Manca una volontà politica precisa, che sarebbe in grado di attrarre finanzimenti e superare i particolarismi».

@boria_a