lunedì 2 aprile 2018

LA MOSTRA

Manfredi in tv col maglione Missoni, che rivoluzione 


























Sintitola “Italiana”, sostantivo, non aggettivo. Per affermare con forza un’identità e un ruolo. È la moda che si sviluppa dal 1971 al 2001: due date fondamentali, la prima che marca la nascita del prêt-à-porter, la seconda il passaggio fra due secoli e la trasformazione del made in Italy in un fenomeno globale. “Italiana, l’Italia vista dalla moda” è un progetto complesso, articolato in una mostra e un libro, curati da Maria Luisa Frisa, critico e direttore del corso di laurea in Design della moda e Arti multimediali allo Iuav di Venezia, e Stefano Tonchi, direttore di W Magazine.






La mostra, aperta a Palazzo Reale di Milano fino al 6 maggio, in nove stanze che approfondiscono altrettanti temi, rivendica l’originalità, la forza creativa, la diffusa capacità produttiva, l’alta qualità della moda italiana, in dialogo con arte, fotografia, architettura, design del trentennio di fine Millennio. «Noi non abbiamo mai costruito una mitologia della moda italiana - sintetizza Frisa - e invece bisogna farlo. La mostra nasce da questo: la necessità di raccontare un momento seminale, quando la nostra moda incide a livello globale e diventa protagonista, alla pari di quella francese e inglese». L’imponente catalogo (Marsilio, pagg. 402, euro 55) raccoglie una serie di contributi critici inediti che ampliano e precisano gli scenari, un’antologia della letteratura sulla moda di quegli anni e un ricco apparato di immagini. 



Maria Luisa Frisa, Giorgio Armani, Pier Paolo Piccioli e Stefano Tonchi


1971-2001: trentennio seminale. Maria Luisa Frisa, che cosa significa?
«In questo momento nascono il prêt-à-porter e la figura dello stilista, che è prettamente italiana, intraducibile nelle altre lingue. Nasce la moda “democratica”, l’utopia del cambiamento nel modo di vestire, il bello e la qualità per tutti. E il tema dell’identità viene svolto in Italia in maniera completa e contemporanea. Così si spiega il grande successo di Giorgio Armani: sta succedendo qualcosa di nuovo nella società e lui è capace di intercettare le necessità dell’uomo e della donna della fine del ’900».


Il prêt-à-porter accompagna cambiamenti sociali...
«Intanto il femminismo, anzi l’affermazione del ruolo della donna. Il ’71 è l’anno in cui a Milano sfila la “collezione unica” di Walter Albini ed è l’anno di nascita del movimento di liberazione della donna. L’uomo esce dalle secche di una sessualità da vivere obbligatoriamente in maniera unica, c’è la liberazione sessuale in tutti i sensi».


Quali i temi che definiscono il periodo? «Quello dell’identità è uno degli snodi più potenti della moda italiana. Penso al “lui e lei” di Albini, alla donna di Armani, che non è l’androgina con lo smoking di Yves Saint Laurent, che risente di un’immagine degli anni Venti, non è Marlene Dietrich col frac, ma una donna che cerca un modo di vestire frutto di una serie di cambiamenti. Dopo le battaglie femministe, la donna non è solo segretaria o assistente, ma siede nei consigli di amministrazione, senza per questo vestirsi da uomo. Armani fa una giacca adattissima al corpo femminile, molto sexy, sotto la quale c’è una bellissima camicia di seta, o trasparente, che si porta con pantaloni morbidi...»


Un’identità che investe l’uomo... «Per l’uomo Armani usa tessuti femminili, lo ammorbidisce, destruttura la giacca, la fa stretta in vita. L’uomo moda è un’invenzione totalmente italiana, è l’uomo che accetta l’omosessualità, che la dichiara. E poi ci sono i temi del glocal, della post-produzione, che registrano atteggiamenti che la nostra moda svolge con un punto di vista molto interessante e indipendente. Pensiamo al tema del viaggio. La collezione Samurai di Armani venne accolta malissimo dalla critica, ma se la riprendiamo in mano oggi ci accorgiamo che è strepitosa. Non è l’orientalismo decorativo di Saint Laurent, ma un uso originale degli elementi costitutivi di un mondo e di una cultura. Questo è l’obiettivo della mostra: far vedere quanto l’Italia e i suoi autori fossero capaci di interpretare in modo autoriale le sollecitazioni che vivevano tutti. Questa qualità e autorevolezza vanno rivendicate».


Una delle immagini portanti della mostra è il servizio fotografico di Oliviero Toscani per Vogue che s’intitola “Unilook”...
«Non si tratta di una lei vestita come lui e viceversa, non è un giocare coi generi. Uomini e donne sono vestiti alla stessa maniera e visti in maniera paritaria. Adesso sembra assodato, ma siamo nel dicembre ’71 e la donna deve essere ancora accettata in certi luoghi. La prima dirigente è stata Marisa Bellisario, ma molto dopo, alla fine del decennio. Oggi parliamo di “genderless”: la moda italiana l’ha fatto in tempi non sospetti, siamo stati molto anticipatori».





 
"Unilook" di Oliviero Toscani (Vogue, dicembre 1971), courtesy Archivio Condè Nast






Missoni ha giocato un ruolo importante in questo cambiamento...
«Direi fondamentale. In mostra c’è il cardigan portato con il maglione sotto e il pantalone morbido. Adesso ci fa sorridere, ma è stata un rivoluzione. Nino Manfredi che andava in televisione col maglione di Missoni invece che in giacca, è nella scia di questa rivendicazione di morbidezza e sensualità per l’uomo, un qualcosa che prima non sarebbe stato mai accettato».





Voi trattate il tema della moda italiana in modo corale...
«Ci sono i grandi, Armani, Versace, Ferrè, ma una parte importantissima la giocano le aziende proprio nell’atto creativo. Pensiamo a Zamasport che, agli inizi, chiama Versace e Romeo Gigli, e alle aziende che diventano palestre creative per gli autori e negli autori credono, investono, li affiancano nel loro lavoro e loro lì, in azienda, si fanno le ossa. Blumarine, quando decide di produrre il tessuto e non solo la maglieria, chiama Albini e poi Moschino. La nostra moda è fatta da tantissimi autori, in maniera diffusa, accanto ai distretti italiani. E tutti compongono un bellissimo affresco di tanti modi di essere creativi e intelligenti».


E tutt’intorno alla moda? «Gli anni ’80 per l’Italia non sono solo lustrini e paillettes. Abbiamo gli architetti più importanti e la Transavanguardia in campo artistico. E anche la nostra moda esplode nel mondo e i nostri autori hanno grandissima visibilità. Gli anni ’90 sono quelli dell’internazionalizzazione e forse lì si rompe qualcosa. Ma è ancora un marchio italiano, Gucci, con l’allora direttore creativo Tom Ford, a definire l’immagine della donna in maniera indelebile, con la camicia stretta e i pantaloni, che si portano tutt’oggi». 


Nel mondo globale possiamo ancora parlare di moda italiana? «Certo, perchè noi abbiamo un sistema produttivo unico al mondo. Quando i colossi del lusso si comprano Loro Piana lo fanno perchè così si assicurano non solo un’etichetta del cachemire ma una realtà produttiva in quel settore che non c’è da nessun’altra parte. Gucci è francese, ma tutte le borse sono prodotte in Toscana. E anche chi produce fuori, realizza i prototipi in Italia, perchè da noi nessuna azienda o artigiano dirà mai che qualcosa non si può fare...».


Perchè non è nato un polo del lusso italiano? «I registi, come Bernard Arnault per Lvmh, e Pinault per Kering, non hanno un loro marchio, ma sono menti, manager con una visione superiore, globale, in grado di superare i gli interessi dei singoli. Da noi il tentativo era stato fatto da Prada, ma Bertelli ha la sua azienda da curare...».


Coma mai in Italia non esiste un museo nazionale della moda? «Perchè la moda non è vista come un sistema che produce cultura. Non dico che ci debba essere un museo nazionale, ma è grave che nei musei nazionali, o al Maxxi, che è il museo delle arti del XXI secolo, non ci sia un dipartimento della moda. Manca una volontà politica precisa, che sarebbe in grado di attrarre finanzimenti e superare i particolarismi».

@boria_a

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