lunedì 28 novembre 2022

MODA & MODI

 

Balenciaga: bambine, orsetti fetish, scandali e vendite 

 

 


 

 Gli orsetti fetish hanno invaso la rete e anche chi non ha mai seguito le ripetute provocazioni di Balenciaga sotto la guida del creativo Demna (Demna Gvasalia, ma il cognome ultimamente ha deciso di cassarlo così chiunque scrive di lui si sente quasi obbligato a precisarne l’identità completa, suo malgrado) non può non essersi imbattuto nella tenera bimbetta dai capelli dorati imbragata nello zainetto “Plush Bear” con le cinghie da bondage.

La griffe si cosparge il capo di cenere dopo la sollevazione del web e con un messaggio surreale, una sorta di spiegone a lettere cubitali in luttuoso campo nero, rassicura tutti i navigatori che ai bambini ci tiene molto e mai vorrebbe accostarli a messaggi costrittivi e violenti, quindi di aver rimosso la campagna pubblicitaria da tutte le sue piattaforme. Con una puntualizzazione ancora più esilarante: agirà legalmente contro chi ha incluso accessori “mai approvati” nel set promozionale della linea Objects, di oggetti di design per la casa. 

Come se l’autore delle immagini, il fotografo Gabriele Galimberti (premio World Press Photo 2021), avesse personalmente deciso che cosa utilizzare per la pubblicità di un brand così spasmodicamente legato alle immagini, e quindi al loro controllo, come Balenciaga. Fa sorridere pensare alla catena di comunicatori, su su fino a Demna, che avrà guardato la bimba con l’orso legato, prefigurando l’esplosione pubblicitaria post indignazione. Così, mentre Balenciaga fa la presunta marcia indietro, le immagini continuano a correre ovunque e i suoi oggetti, sadomaso o meno (per chi gradisse tra le idee Natale della collezione ci sono statue a forma di sneaker dorata, portacandele come lattine, una ciotola per cani a forma di collare con punte, il brucia incenso con le sembianze di un orso molto più innocuo del cuginetto-zaino) sono sotto gli occhi del mondo ed entrano nei desideri di una platea potenzialmente senza limiti.


Le reazioni di pancia dei social sono un formidabile alleato di qualsiasi brand. Nel caso degli orsetti con le cinghie e il top a rete alcuni gridano a una sottile pedo-pornografia, altri, i commentatori più estremi, parlano di lavaggi del cervello gender-fluid. La bufera ha comunque determinato le scuse di Balenciaga e la pena capitale mediatica dei teneri plantigradi. Oggi, 28 novembre 2022, l'annuncio di una presa di distanza eccellente. Kim Kardashian, ambasciatrice del brand, pure lei sotto la pressione dei fan, ha dichiarato: "Sto riconsiderando la mia collaborazione con il brand".


Nel 2017 era la borsa copiata dalla Frakta dell’Ikea, rivisitata in pelle da Balenciaga e venduta a 1700 euro contro i sessanta centesimi dell’originale. Pochi mesi fa le “Paris sneakers”, scarpe da ginnastica logore e macchiate, che col sigillo Balenciaga svettano a 1450 euro. La rete reagisce: s’indigna o celebra il genio di Demna, che prende in giro chi può spendere migliaia di euro per oggetti apparentemente senza valore, ma rivisitati in chiave glamour.


Un cortocircuito rodato fino alla noia. Provocazione, reazione, celebrazione del brand, tante vendite di oggetti dove il messaggio supera la sostanza. Fanno quasi simpatia quegli orsetti con le cinghie. In mano alle due bambine sono stati collocati oggetti di poca o nessuna funzionalità, scarsa fantasia, pesantemente brandizzati. Senza scomodare il bondage, anche questa è pornografia.

IL PERSONAGGIO

 

Addio allo stilista triestino Renato Balestra

"L'Ausonia, la lirica, le mie radici mitteleuropee"

 

Renato Balestra, nacque a Trieste il 3 maggio 1924

 

Si rammaricava di non aver potuto portare a Miramare la sua mostra “Celeblueation”, che era stata ospitata nel maggio 2019 alla Certosa e Museo di San Martino di Napoli, con 250 bozzetti, disegni e abiti scelti personalmente da lui. Era un piccolo cruccio per Renato Balestra, lo stilista triestino morto sabato 26 novembre 2022 a Roma a 98 anni, che la pandemia avesse cancellato quell’appuntamento, «un’occasione - confessava al telefono nell’ultima intervista al Piccolo, il 3 aprile scorso - per tornare nella mia città, a cui penso con nostalgia, e per approfondire la storia del castello, di cui ho un’idea romantica, legata a Massimiliano d’Asburgo e alla sua partenza per il Messico».


Lucidissimo, forbito, mai un’incrinatura nella voce e nei ricordi. Il suo racconto era un fluire costante di aneddoti, di luoghi, di occasioni, di amicizie legate a Trieste e alla sua giovinezza. Parlava della madre di origine dalmata, Maria Gladich, detta Mary, del padre Renato, architetto, nel cui albero genealogico c’è un pittore di una certa fama, Angelo Balestra, conservato nelle raccolte triestine. Genitori amatissimi, la cui scomparsa gli aveva dato un dolore così profondo da portarlo a rompere il cordone ombelicale con la città dove era nato e dove, casualmente, si era scoperto stilista, disegnando il primo abito per la sua ragazza dell’epoca, «la più elegante della scuola».


Bagno Ausonia e il gruppo di amici che lo spinge ad abbozzare un figurino - lui, studente di ingegneria civile all’Università di Trieste, dopo il diploma al liceo Oberdan, molto versato nel disegno - per l’incontentabile signorina, che non aveva trovato nei negozi niente di suo gradimento, salvo una stoffa celeste a pois blu scuro. Quel primo modello, approdato a sua insaputa al Centro italiano della Moda di Milano, avrebbe aperto al giovane Balestra le porte di una carriera internazionale straordinaria, iniziata con l’apprendistato nell’atelier di Jole Veneziani, poi a Roma dalle mitiche Sorelle Fontana ed Emilio Schuberth.


Il blu che porta il suo nome, Blu Balestra, aveva vestito il Museo Revoltella nel dicembre 1998, in una mostra omaggio curata da Raffaella Sgubin con la direzione di Maria Masau Dan. Abiti e 126 bozzetti in esposizione, tra cui il primo disegno realizzato come griffe “Renato Balestra” per una mise da cocktail. «Ci sono particolarmente legato - diceva ancora nell’ultima intervista - è un vestito corto, di raso blu naturalmente, con una specie di drappeggio davanti, che ho fatto e rifatto anche in altre collezioni». 

 

La moda di Balestra al Museo Revoltella nel 1998

 

Nell’occasione della mostra aveva ricevuto il sigillo trecentesco della città dal vice sindaco Roberto Damiani e, in serata, aveva assistito alla prima de “Il corsaro” al Verdi, quel teatro che da ragazzo, come appassionato di lirica e pianista talentuoso, con ambizioni da concertista, aveva tanto amato e frequentato. Quell’incursione al Verdi non era stata peregrina: l’anno dopo Balestra disegnò i costumi per “Il cavaliere della rosa” di Strauss, titolo di apertura della stagione. Alla fine della rappresentazione uscì a ricevere gli applausi della sua città: «Ricordatevi che il mio cuore è là - disse al pubblico dal palcoscenico, con commozione - ho passato tanti anni con voi, in loggione e in galleria».


Il 1999 fu un anno speciale, rinsaldò il suo legame con Trieste. Il 3 maggio vi festeggiò il compleanno, insieme alle figlie Fabiana e Federica, invitato per una sfilata benefica al Verdi, promossa da Rossana Illy in favore dell’Associazione sclerosi multipla: in passerella un centinaio di abiti della collezione primavera estate, appena svelata a Roma, dal titolo evocativo, “Inseguendo il sole”.


La prima casa, quella dov’era nato, in via Udine bassa, di cui diceva di avere a memoria ogni dettaglio. Poi il trasferimento in Viale, «ultima casa sotto la scalinata», le passeggiate con gli amici all’Acquedotto, il gelato da Zampolli, di cui ancora sentiva il sapore, i tuffi al bagno, le file di ore per un posto al Verdi, anche in piedi. Il grande amore per la musica, che s’inventava, appena imparato a leggere le lettere, a sei anni, seguendo i testi dei libretti d’opera di uno zio. Ai ricordi triestini si mescolavano gli incontri di una vita e di una carriera lunghissime, accanto alle donne più belle del mondo, alle signore di sangue blu: Farah Diba “regale”, Noor di Giordania, a cui disegna l’abito da sposa, la regina di Thailandia Sirikit, Imelda Marcos e le sue scarpe, Claudia Cardinale “equilibrata e coerente”, Liz Taylor e Lauren Bacall “piene di grazia”, Julia Roberts “quintessenza della modernità”. «Noi siamo quello che siamo stati - diceva - non solo quello che siamo diventati. Portiamo dentro di noi le nostre radici. Io porto dentro di me la cultura mitteleuropea, se posso essere presuntuoso, una certa eleganza, non fisica ma interiore, un’innata armonia».


Una sola volta, nel 2003, sempre in dialogo col Piccolo in occasione del suo celebre siparietto “Casa Balestra” nel programma “Chiambretti c’è” su Rai 2, si lasciò sorprendere da un filo di amarezza: «Non ho mai avuto grandi riconoscimenti da Trieste e dalle istituzioni, nemmeno il San Giusto d’oro».


Con Renato Balestra se ne va uno degli ultimi signori, dei grandi vecchi della moda (anche se il termine “vecchio” lo farebbe inorridire, col Piccolo protestò per aver puntualizzato nel titolo dell’intervista il bel traguardo dei 98 anni...). Un protagonista del made in Italy, accanto a Ottavio Missoni, Mila Schön, Raffaella Curiel, i quattro che hanno portato nel mondo il nome di quest’angolo remoto a Nordest, così estraneo e disinteressato ai vestiti. Chissà allora che nel calendario delle mostre dell’amministrazione ci sia posto per un’ampia antologica su Balestra, un tributo dovuto. Nel segno del suo Blu, tinta, questa sì, felicemente e naturalmente “immersiva”.

 

lunedì 14 novembre 2022

MODA & MODI

 

Velate o coprenti?  Il muro è caduto

 

 Rieccoci al dilemma di ogni inverno: velate o coprenti? Eterna questione divisiva, che oppone le pasionarie della gamba coperta a chi sostiene l’irrinunciabilità della trasparenza. Dietro si agita anche una sottile lettura ideologica: lo “spessore” suggerisce praticità e comodità, scarpe piatte e trottate urbane, la “velatura” ama la vertigine del tacco, le estremità guantate su cui far correre sguardi. 

Quest’anno la faccenda si complica, su entrambi i fronti. Primo: irrompe il colore. Come sempre nei periodi di crisi, l’accessorio si fa forte, diventa protagonista, è la blanda compensazione a fronte di rinunce più pesanti. Una volta si parlava di lipstick-index, l’indicatore rossetto, inventato dal chairman di Estée Lauder, Leonard Lauder, negli anni Duemila gravati dalla recessione, numeri alla mano: le vendite del cosmetico si impennavano nei periodi bui, durante la depressione degli anni Venti, dopo le Torri Gemelle, dopo il fallimento della Lehman Brothers. Il rossetto intenso e consolatorio, quando l’incertezza e la crisi impediscono gratificazioni più costose.


Oggi la teoria è in aggiornamento con l’indice calza. Gialli, viola, rosa barbie, blu elettrici e verdi si affiancano al nero o al grigio di ordinanza per le grammature spesse e protettive. Anche le trasparenze si colorano. Non più solo il nero o il carne, ma un’intera palette di toni e tinte buca le vetrine e invita a comprare l’accessorio più modico con cui reinventare o trasformare un vestito. L’effetto “blocking” non spaventa, le gambe diventano imperative, i colori un tempo inaccostabili per il temuto effetto carioca - rossi e aranci, blu e verdi, gialli e fucsia - si mescolano a tutte le ore del giorno.
A sfumare i confini tra il vedo e non vedo, tra i collant opachi e i fumée, ecco le calze velatissime ricoprirsi di scritte, di rombi, quadri, grafismi, strisce bicolori. Sulla gamba ci si sbizzarrisce, si comunica, si piazzano insistentemente i propri loghi per indirizzarsi a un mercato giovane, abituato alle collaborazioni tra marchi, che non avverte l’imbarazzo di brandizzarsi, anzi più insegne riconoscibili si mette addosso meglio è.


Ma la diatriba tra velate e coprenti? La Generazione Z se ne disinteressa. Le calze colorate e trasparenti si infilano nelle scarpe da ginnastica, negli anfibi, negli stivali, si issano sui plateau o rimangono rasoterra nelle ballerine. Anche se ricamate, decorate con fiori e fiocchi, glitterate, punteggiate di perline o di strass, le vediamo transitare allegramente dentro Dr. Martens o stivali texani, in un mix spiazzante di aggressività e grazia. È saltata la regola non scritta che accostava la velatura al tacco sottile e svettante, anzi, più la scarpa è “chunky”, ingombrante e robusta, più le calze si fanno sottili. Non c’è brivido nemmeno se portate con le microgonne o gli shorts di lana: basta coprirle con un paio di calzettoni al ginocchio, in un gioco di sovrapposizioni cromatiche e di spessori. E le irriducibili delle coprenti? Non le accostano più solo alla scarpa piatta o alla gonna a pieghe, al twin set di lana e ai mocassini, ma le smorzano su abitini corti, lucidi, con stampe colorate, effetti sottoveste.


L’index ci dice che c’è voglia di contaminare e mescolare consistenze e colori, col gusto di azzardare senza esagerazioni. Almeno sul fronte calze un altro muro è caduto.

domenica 6 novembre 2022

IL LIBRO

 Irene Festa: da serafino a dolcevita, così il cinema ha dettato le parole della moda nel mondo

 

Irene Festa

 


Gli italiani la chiamano “Serafino”, i francesi “Serafinò”, per una volta prendendo a prestito un termine gergale della moda dal belpaese. Per gli americani invece è la “Wallace” e per gli inglesi la “Henley”. Di che cosa si tratta? Nient’altro che della maglietta della salute delle generazioni negli anta inoltrati, la cui denominazione da noi deriva da quella indossata da Celentano nell’omonimo film del 1968. Wallace era invece Wallace Beery, l’attore che la portava da protagonista di uno dei primi film carcerari, “The Big House” del 1930, vincitore di due Oscar, mentre “Henley” fa riferimento alla maglia della tradizionale uniforme della squadra di canottaggio della città di Henley-on-Thames.

 

"Serafino" con Adriano Celentano, 1968

 


Dal grande schermo derivano molti altri termini normalmente utilizzati per definire capi di abbigliamento, prima fra tutti la “dolcevita”, che in Italia si richiama alla maglia a collo alto indossata dal personaggio di Pierone nell’omonimo film di Fellini. Per gli inglesi è la “polo neck”, perchè parte dell’uniforme dei giocatori di polo fin dal 1860, per gli americani la “turtle neck”, simile al collo di una tartaruga, e per gli australiani la “skivvy”, ovvero l’uniforme della classe operaia maschile per decenni e, prima ancora, la parola usata per definire una donna che faceva lavori pesanti di tutti i tipi.
“Zhivago”, dal celeberrimo film del 1965 per gli inglesi identifica due capi molto diversi: la camicia maschile con la fila di bottoni a sinistra, portata da Omar Sharif, e il cappotto con alamari e il collo di pelliccia di Julie Christie. Molto più difficile capire perchè in inglese quella che noi chiamiamo “camicia da medico con bottoni asimmetrici”, in inglese americano sia la “Ben Casey shirt”. Tutto si deve a quella indossata dal giovane chirurgo protagonista dell’omonima serie medica, andata in onda sulla rete ABC dal 1961 al 1966 e ambientata al County General Hospital di Los Angeles.

 

Vince Edward è il dottor Ben Casey nella serie della rete ABC dal 1961 al '66

 


Insomma, raccapezzarsi nel linguaggio della moda non è facile nè intuitivo. Ogni lingua ha termini specifici, legati alla propria cultura visiva, alle tradizioni, allo sport, ai codici degli atelier e passare da una all’altra, in ambienti sempre più globali e connessi, può diventare un’impresa. Ne sa qualcosa la duinese Irene Festa che, approdata a Parigi dopo la formazione all’Istituto Marangoni di Milano, per lavorare come “trend forecaster”, previsore di tendenze, si mise a cercare invano un dizionario plurilingue. Ritornata a Milano nel 2015 per insegnare nella stessa scuola dove si è formata, con studenti oggi in larga parte provenienti dall’estero, Irene ha rispolverato la sua passione per la terminologia della moda e ha cominciato a postare online brevi vocabolarietti illustrati diventati subito virali.


Il lockdown ha fatto il resto. Durante la pandemia i post si sono trasformati in un vero e proprio dizionario, “Moda illustrata. Il linguaggio dell’abbigliamento” (Hoepli, pagg. 365, euro 44,90), un manuale con più di duemila termini in italiano, inglese e francese - le lingue delle tre principali Fashion Week, ma sotto ogni scheda c’è lo spazio perchè i lettori aggiungano altre definizioni, nella loro lingua - e millecinquecento disegni eseguiti dalla stessa autrice, che al Marangoni, oltre a coordinare i programmi didattici, è docente di disegno tecnico.
Dai cappotti ai pigiami, dalle gonne ai costumi da bagno, dall’intimo all’abbigliamento per bambini, per approdare ai dettagli condivisi della parte finale, in cui c’è da perdere la testa nelle varianti di colli, risvolti, maniche, tasche, orli, allacciature, pieghe, arricciature e qualcosa come trentasei polsini diversi da camicia. Compreso quello doppio con bottoni, definito, con un inedito derby nord-sud, sia “Milanese” sia “Napoletano”, ma anche James Bond, perchè Terence Young, regista di “Dalla Russia con amore” e “Thunderball”, fece vestire Sean Connery a sua immagine, portandolo dal suo sarto, Anthony Sinclair e dal suo camiciaio di fiducia, Turnbull & Asser, esperto nel doppio polsino con gemelli.

 

"Dalla Russia con amore", regia di Terence Young

 


«Oggi c’è bisogno di definire correttamente le cose e scendere nel dettaglio - spiega Festa -. Le fonti ufficiali che ho usato risalgono agli anni Ottanta, ma sono riuscita a reperire molti testi introvabili anche anteriori, tra cui il Piccolo Dizionario Tessile in 5 lingue del 1956 e il Four Languages Dictionary del 1989 in edizione giapponese. Le sartorie spesso usano parole diverse, Google traduttore è fuorviante, insomma, sentivo il bisogno di chiarezza. Io stessa ho scoperto molti termini che non conoscevo. Per i miei studenti, poi, è uno stimolo alla creatività: se sai che esiste una serie di colli diversi non ti ritrovi a disegnare sempre lo stesso. Ho inserito nel libro anche una parte di abiti dal mondo, per evitare uno sguardo troppo occidentale e aprire un po’ la mente. Ho tralasciato invece termini legati alla storia del costume, mentre ho recuperato quelli di tendenze tornate in auge. Per esempio la “Gibson girl blouse”, la camicia della perfetta ragazza americana disegnata da questo celebre illustratore, o i capi di una serie di grande successo come Bridgerton».


Il libro è uno strumento di lavoro per studenti, addetti del settore, appassionati, con gustosi aneddoti sciovinistici, considerata la tradizionale rivalità modaiola tra Italia e Francia. Un esempio? Il collo classico della camicia dagli italiani è chiamato “all’italiana”, dai francesi alla francese, mentre quello con le punte allargate, che permette di mettere una cravatta ampia, evidentemente detestato da entrambi i paesi, dai francesi viene chiamato “all’italiana” e viceversa.


Tra i “falsi amici” c’è lo smoking, per gli italiani giacca da sera, per gli inglesi giacca trapuntata che copre quella da sera per evitare che si impregni di fumo, mentre la giacca corta detta “Spencer” deve il suo nome al lord che a metà ’700 ne bruciò le code vicino al fuoco. Nella sezione degli abiti da cerimonia si fa chiarezza su “black tie”, “white tie” e sul completo più elegante, il “morning dress”, in italiano familiarmente “tait”, che contempla tight con garofano all’occhiello, pantaloni a righe grigie e nere, cilindro, ombrello, ed è il vestito maschile obbligatorio per entrare nel Royal Enclosure ad Ascot, la parte riservata ai reali alle corse dei cavalli.

 

Re Carlo, allora "solo" principe Charles, nel morning dress

 


E da “trend forecaster” cosa prevede Irene Festa per il nostro futuro guardaroba? «La prossima estate - dice - torneremo alla gonna a ruota, sulla scia del film “Elvis” di Baz Luhrmann, che ha avuto un grande successo. Quando lo stesso regista girò “Il grande Gatsby”, la moda anni Venti ha resistito per un paio di stagioni. Per individuare le tendenze - spiega - si parte dalla strada, dai cosiddetti “segnali deboli”, cercando di individuare il primo che si veste in un modo diverso. Di solito funziona così: quando abbiamo colto lo “spirito dei tempi” ci vogliono circa due anni per vederlo tradotto in moda. Nel 2025 avremo un’epoca felice, come i brillanti Ottanta dopo il punk e il gothic dei Settanta. E forse ci vestiremo davvero in modo più sostenibile».