mercoledì 26 agosto 2020

MODA & MODI

La pandemia e la guerra persa del rossetto


Il lipstick index è un indicatore superato. La mascherina l’ha archiviato come unità di misura della crisi economica e del nostro malessere. L’espressione resisteva dal 2001, l’anno del crollo delle Torri Gemelle, quando Leonard Lauder, figlio della fondatrice del colosso cosmetico, formulò la teoria secondo cui più il Pil globale scende, più le labbra delle signore si accendono. Per la verità nel 2008, nel pieno di un’altra recessione, l’Oreal aveva corretto la formula: non era il rossetto, ma il fondotinta, acquistato soprattutto dalle under-quaranta, a fungere da cosmetico-rifugio contro le incertezze del futuro. Dissertazioni sociologiche, che non cambiano i termini del problema. Nei tempi bui labbra brillanti e pelle setificata sono un conforto alla portata di tutte. Chissà come si aggiornerebbe in tempo di Covid-19 la geniale campagna pubblicitaria lanciata nel 1942 da Tangee, all’epoca il più importante brand americano dei rossetti, dal titolo eloquente, “War women lipstick”? Constance Luft Huhn, presidente della compagnia, si rivolgeva direttamente alle clienti. «Il rossetto non vincerà la guerra - diceva - ma simboleggia una delle ragioni per cui stiamo combattendo: il prezioso diritto di ogni donna di essere bella e femminile in qualsiasi circostanza».

Oggi sotto la maschera niente, tanto per rispolverare un titolo evergreen degli anni in cui si beveva e festeggiava allegramente assembrati. I numeri parlano chiaro: nel lockdown le vendite di rossetti, gloss, lucidalabbra sono crollate del sessanta per cento. Durante il confinamento passarsi il rossetto era un saltuario effetto placebo, ma anche ora che ci spostiamo debitamente protette, sotto la mascherina non esiste prodotto che non si spiaccichi, si liquefaccia o si mescoli al sudore a pochi minuti dall’applicazione. Sul tessuto va ancora peggio, il segno è difficilmente cancellabile, in ogni caso bisogna equipaggiarsi con una scorta di pezzi di ricambio. Le labbra rosse disegnate sulla maschera sono una soluzione, sempre che piaccia l’effetto Jocker.


E allora? In rete i tutorial spiegano come valorizzare l’acconciatura e come truccare gli occhi per puntare tutto sulla porzione di faccia ancora libera. Gli indicatori della crisi “salgono”, sono ombretti, mascara e tinte per capelli a misurare la flessione economica planetaria della pandemia. Il rossetto, signora Constance, questa guerra l’ha persa.
@boria_a

sabato 22 agosto 2020

IL LIBRO

Manuel Vilas in viaggio con Arnold
scopre la gioia, all'improvviso





Viaggia con Arnold lo scrittore Manuel Vilas nel tour di presentazione del suo primo libro, il pluripremiato “Ordesa”, caso editoriale in Spagna nel 2018, poi tradotto in tutto il mondo e uscito in Italia nel 2019 per Guanda con il titolo “In tutto c’è stata bellezza“, nell’intensa traduzione di Bruno Arpaia.

Arnold è il musicista Arnold Schönberg, l’inventore della musica dodecafonica morto nel 1951, un personaggio reale che Vilas sceglie come personificazione del suo disagio psichico, il compagno immaginario che dà un nome alto, nobile, alla sua depressione. Arnold è il morso di quel “lupo sconosciuto sul benessere dei tuoi pensieri, della tua anima, della tua coscienza, del tuo equilibrio” che provò per la prima volta da matricola universitaria in uno studentato a Saragozza, dopo lo strappo dal suo paese, Barbastro, e dagli amatissimi genitori, rinominati Wagner e Bach. Nella mappa affettiva dello scrittore ogni presenza ha un doppio musicale: i figli sono Bra e Valdi, Brahms e Vivaldi, lo zio è Rachma-Rachmaninov, la seconda moglie americana Mo, Mozart. Arnold, l’inventore del “rumore contemporaneo”, è la presenza costante che gli sta acquattata dentro e ogni tanto scatena la fissazione, il disturbo. 


Manuel Vilas


“La gioia, all’improvviso”, il secondo libro di Vilas, ancora una volta uscito in Italia con Guanda e la traduzione di Arpaia, finalista al premio Planeta, il più prestigioso riconoscimento letterario spagnolo, è il taccuino del suo itinerario in Francia, Svizzera, Italia, Portogallo, dei viaggi negli Stati Uniti. Arnold lo accompagna anche nella breve luna di miele con Mo, è lì, in ogni camera d’albergo inadeguata, in ogni rumore fastidioso, in un errore del gps che un giorno, per caso, mentre cerca il cimitero dov’è sepolto il musicista Johnny Cash lo imbottiglia nei centri commerciali della periferia americana. Arnold pronto a trasformare in tragedia le “idiozie del caso”, a ricordargli “il terrore di essere vivo”, il vuoto e il nulla, l’esistenza del fallimento.
La sua presenza impasta ogni pagina di questo taccuino dolente e luminoso insieme, che è consigliabile leggere dopo “In tutto c’è stata bellezza”, di cui è non solo continuazione, ma completamento, pacificazione, risoluzione. 





Nel primo libro la famiglia d’origine, il distacco e il ritorno, il matrimonio e la tenerezza dei figli, il fallimento e l’alcolismo, la ricerca disperata della bellezza che è in ogni atto del vivere, per quanto imperfetto e transitorio, e che spesso ci restituisce solo la memoria, il conforto del dialogo con i nostri morti, che ci ostiniamo a tenere in vita come ponte tra noi e il futuro.
Ora Vilas è una celebrità, osannato, premiato, richiesto, conosciuto nel mondo e non solo nella ristretta cerchia dei poeti. Eppure non cessa di sentirsi orfano, della famiglia di cui è stato figlio, e di quella in cui è stato padre o forse non è riuscito a esserlo. Non smette di vedersi disarmato, e immeritevole, di fronte al successo. Ricorda la dipendenza dell’alcol, l’inferno che si presentava “con gli ornamenti del paradiso”, la distruzione dove pure c’era euforia, “perché ora che ci penso meglio - scrive - in ogni momento della mia vita c’è stata qualche forma di gioia”.


La gioia all’improvviso, appunto. La meraviglia di una scoperta, di un volto che ritorna dal passato alla presentazione del libro, un dialogo insperato con i figli lontani, un piccolo episodio che ci restituisce i contorni del nostro posto nel mondo. Come comprare un paio di scarpe, che fanno pensare ai luoghi che si calpesterà con loro, al domani. O un breve viaggio con Valdi a Chicago, l’avidità di stare con lui, perché la condizione di padre è sempre quella di mendicante d’amore. O scoprire in Bra l’eredità genetica del proprio genitore, il mistero e il conforto dei legami che resistono e si trasmettono. E la saggezza di Mo, la sua presenza equilibratrice e il matrimonio che “è venuto al mondo per salvarci dalla follia di essere uno soltanto e trasformarsi nell’illuminazione di essere due”.
Sono trafitture di luce nei capitoli brevi di questo diario, dove la lingua diventa spesso quella della poesia per restituire al lettore lo stupore e l’incantamento del sentirsi vivo, l’innocenza dello sguardo di un uomo che si riconosce bambino nella fame di amare e di sentirsi amato.


La vita è l’impossibilità di conoscere la vita, ci dice Vilas. Ma attraverso questi squarci, la vita dilaga, all’improvviso, e il viaggio diventa più lieve, qualsiasi sia il nostro compagno.

@boria_a

domenica 16 agosto 2020

MODA & MODI

Quel costume bagnato che rompe il confinamento. E il buon gusto
 

Avvistata signora con vestito bagnato in via San Nicolò a Trieste. Eppure da settimane gli esperti sentenziano: il lockdown ci ha fatto diventare più consapevoli di certi valori. L’estetica, che parlando di moda è mutevole e indefinibile, leopardianamente caduca, non entra nel perimetro di questa riflessione. Ma il buon gusto?

Dopo le settimane ciabattando per casa in pantaloni della tuta, con la benedizione della sacerdotessa Anna Wintour, pure lei folgorata dalla comodità, i freni inibitori sono diventati, per restare in tema, come le spalline di un reggiseno smesso.
 

Ricostruiamo la scena del crimine: centro città, salotto buono. Non contiguo a uno stabilimento balneare nè a una piscina. Nessuna fermata d’autobus in stretta prossimità che rovesci nel ventre urbano i maratoneti della tintarella da marciapiede. Il presunto colpevole: donna, non giovanissima, indossa abito di colore indefinibile, forse tortora, forse grigio, al ginocchio, con balza. Il crimine: all’altezza del reggiseno due enormi, inequivocabili macchie di bagnato. Aggravante: la premeditazione. Per arrivare sulla scena bisogna compiere un consistente tratto urbano dal mare o alcune fermate d’autobus nelle stesse condizioni in cui, dopo l’ammollo, si andrebbe a farsi una birra al chiosco di Barcola. Nessuno tsunami ha costretto a una fuga repentina da sotto la doccia.

Certo, le attenuanti esistono, come per tutte le fattispecie di reati, inclusa la maglietta bagnata in libertà.

Nelle città dove il mare è a portata di mano, i confini tra le attività di relax e di lavoro, sono porosi e insidiosi. L’abbigliamento si mescola, vira sul balneare negli uffici tolleranti, affratella l’intergenerazionale comunità dei bagnanti, disposti a chiudere un occhio sui lacci del bikini che sfuggono da ogni dove, le infradito di gomma, i prendi(troppo)sole indossati per strada e nei negozi, i boxer da bagno riconvertiti in calzoncini da passeggio. Ma il costume bagnato che deambula in centro sposta in alto l’asticella e ci interroga su quanto terreno siamo disposti a sottrarre al decoro nella città della sempiterna vacanza.
Non occorre scomodare quei valori che il lockdown dovrebbe aver disseppellito dalla nostra frenetica e scomposta quotidianità. Tantomeno l’estetica, filosofica o modaiola che sia.
Bastano igiene, rispetto di sè e degli altri. Guarda caso armi vincenti anche contro il virus. 
@boria_a