venerdì 27 novembre 2020

IL CARTEGGIO INEDITO

Cara Linuccia, Cara Anita

le lettere di due amiche-nemiche

 


Linuccia col padre Umberto Saba


 

«Cara Linuccia, penso a te, che sei tutt’uno con la poesia di tuo padre e con Trieste». È il 6 settembre 1957, Umberto Saba è morto da undici giorni a Villa San Giusto di Gorizia, dove era ricoverato da nove mesi. Anita Pittoni, da Trieste, scrive alla figlia del poeta, Linuccia, che vive a Roma. Il passaggio della lettera dà il titolo al volume che raccoglie il carteggio inedito tra le due donne, l’una scrittrice, editrice, designer, l’altra pittrice, pubblicato ora da biblohaus in un’edizione critica a cura di Gabriella Norio. Le lettere appartengono al corposo Fondo Anita Pittoni, acquisito in tempi diversi dal Comune, che ha co-edito il libro con la Drogheria 28 di Simone Volpato. «Giani e io - prosegue la lettera, una delle primissime del volumetto - passiamo le ore leggendo il Canzoniere che è la nostra consolazione... La poesia di Saba è l’acqua fresca di una fonte magicamente lenitrice e forse guaritrice...».

 

 

La corrispondenza tra Anita e Linuccia, in tutto 131 lettere, copre un arco di tempo che va dal 1957 al 1966. Sono scritti per lo più brevi, che si susseguono a distanza ravvicinata nei primi anni, per poi diradarsi e interrompersi bruscamente. Pochi giorni prima del Natale 1965, il giorno 22, Anita scrive a Linuccia lamentando di non sentirla da molti mesi, dispiacendosi per la vita “assai dura”, anzi “cattiva” che conduce a Trieste (“per via di certa gente che mi gioca tiri continui”) e tornando sul tema che, come un fastidioso filo conduttore, una frizione latente e irrisolta tra le due, percorre tutto il carteggio: la mancata concessione di Linucca alla casa editrice di Anita, lo Zibaldone, delle lettere di Saba alla moglie Lina e a lei.

 

Linuccia con la mamma Lina Wolfler nel 1916

 


 


Linuccia, ha già detto il no definitivo, ben sei anni prima, accampando un presunto divieto dell’editore nazionale (“Einaudi mi ha risposto un no categorico”, scritto che ha purtroppo “smarrito”...). Ma nel biglietto datato 1 gennaio 1966, suona quasi tranchant e taglia corto con le lamentazioni di Anita: «Tutte le città dove si vive hanno un lato amaro, non solo Trieste. Trieste che ora a me, quando ci vengo in visita, pare così affettuosa e amichevole. Ti auguro un anno di buon lavoro e di serenità». Sarà l’ultima lettera che si scambiano.


Sono amiche, Anita e Linuccia, quel tanto che può consentirlo due personalità forti, determinate, prepotenti, poco disposte a cedere terreno. Per quanto punteggiate da vicendevoli attestazioni di stima e chiuse da ricordi e abbracci estesi ai rispettivi compagni, Giani Stuparich di Anita, Carlo Levi di Linuccia, con anche il marito di quest’ultima, Lionello Zorn Giorni, le lettere sono attraversate da una sottile tensione, da un filo di intransigenza, almeno per quanto riguarda gli interessi editoriali di entrambe.


A unire le due donne, all’indomani della morte di Saba, è il comune obiettivo di valorizzare l’opera e la figura del poeta, a dividerle inesorabilmente gli strumenti per raggiungerlo. L’unico progetto condiviso che va a buon fine è la pubblicazione con lo Zibaldone del saggio inedito di Saba “Quel che resta da fare ai poeti”, che vede la luce nella primavera del ’57 in 525 copie, in un’edizione lodata dalla critica e apprezzata molto da Linuccia. Altre iniziative editoriali sfumano. Lo Zibaldone sta in piedi a fatica, la Pittoni arranca dietro ai soldi e spesso i suoi progetti finiscono per rimanere annunci nei Bollettini pubblicitari che spedisce un po’ ovunque.

 

 

Anita Pittoni

 


Su un punto, però, Anita si era intestardita. La missive di Umberto a moglie e figlia, da editare in due libretti distinti. Non si contano le lettere in cui la Pittoni cerca di blandire e convincere Linuccia. «Lo Zibaldone è particolarmente adatto a queste pubblicazioni. Pensaci. Ed ha una cerchia scelta di lettori. E la collana triestina resta nella storia: questo te lo garantisco. Certo che Saba non ha bisogno di questo, ma dentro, nella collana triestina, tutto acquista un altro sentimento», le scrive l’1 maggio 1958. Insiste, più volte anche l’anno successivo, è assillante, progetta date, uscite, numero di cartelle e il 23 settembre aggiunge perentoria: «Le nostre edizioni sono limitatissime... Inoltre servono ad affezionare ancor più i lettori a Saba. Tu dici che non c’è bisogno? Ma l’affezione non è mai troppa».


Linuccia tergiversa, ha altri programmi. Sta lavorando a una monumentale raccolta di tutto l’epistolario paterno (si parla di circa 3mila lettere), da cui non vuole scorporare quelle private, che gli editori nazionali avrebbero senz’altro ritenuto le più appetibili per i lettori. E poi non è interessata a divulgare l’aspetto “familiare” del genitore, dell’uomo con le sue debolezze, ma solo a celebrare la fama del poeta. Anzi, si è fatta venire il mal di fegato per l’uscita del libro dell’amica del padre, Nora Baldi, intitolato “Il paradiso di Saba” ed edito nel ’58, prendendosela anche con Mondadori. «Quel libro per me è un dolore», scrive ad Anita. «L’abbondanza dei superlativi, sempre sgradevole, con l’accompagnamento di quei fatti, che raccontati da lei sono o sciocchi o assurdi, è pietoso». E Anita pronta la conforta: «Giani e io siamo rimasti orripilati. Non ci sono parole. Sotto tutte le immaginazioni negative che avevamo!». Nonostante questi tira e molla, nemmeno l’epistolario che Linuccia ha tanto a cuore riesce a essere pubblicato. Troppo imponente il lavoro per la sua salute cagionevole, le riuscirà solo di dare alle stampe l’”Epigrafe” del padre e di cominciare a dedicarsi alle Prose.

 


 


Pochi, nel carteggio, gli scambi più intimi e quasi sempre legati a lutti che toccano entrambe, a cominciare dalla morte di Giotti, il 21 settembre ’57 all’ospedale Maggiore, con la preoccupazione di Anita che la moglie Nina Schekotoff, già un po’ persa, venga sradicata dalla sua casa di via Lamarmora 34, da quelle stanze - scrive - «che hanno dentro il cielo, dove tutto è ordinato e tranquillo». Nel gennaio 1960 muore il fratello di Anita, Bruno. L’anno orribile è però il 1961. Il 7 aprile la malattia si porta via Giani Stuparich, il 13 agosto la pittrice Maria Lupieri, legata d’amicizia a entrambe, mediatrice, trait d’union affettivo tra loro. «Maria mancata oggi ti abbraccio» scrive Linuccia da Roma, dove l’artista era andata a tentare altre cure. La misogina Anita, che definiva Maria «l’unica amica», forse si rammarica che accanto a lei, fino all’ultimo, ci sia Linuccia. 


Ricorrenti sono le annotazioni legate ad acciacchi vari, la nefrite e l’herpes di Linuccia, il cuore “strapazzato” di Anita, che diventa esaurimento nervoso man mano che la situazione dello Zibaldone si complica («se deve morire non mi resta che morire anch’io. Altra strada non ho...»). A farle il sangue cattivo è anche l’ambiente dell’editoria nazionale, i giornalisti “omaggiati” dei preziosi libretti dello Zibaldone che li ignorano, i recensori del Corriere, dove occuparsi della poesia di Saba “purtroppo tocca a Montale o a Cecchi”. O i postulanti come Stelio Mattioni (che raccoglieva materiale per la sua biografia di Saba), “mediocrissimo con grandi ambizioni”, “fascista e matto”, “invadente” “un che se sburta” secondo il tagliente giudizio di Anita, su cui Linuccia concorda: “È di quelli che pensano: noi poveri triestini, che nissun ne iuta a scriver le biografie dei nostri grandi”.


Perchè il romanzo epistolare si interrompe di colpo? Ne parla, nella postfazione al volume, Roberto Benedetti, mettendo in luce, attraverso altre corrispondenze che coinvolgono Maria Lupieri e sua sorella Ena, quanto di “non detto” ci fosse tra le righe delle lettere, quanto la personalità di Anita fosse ingombrante, il suo egocentrismo insopportabile, quanto Linuccia si lamentasse di lei con altri e cercasse di sottrarsi alle sue pressioni. Anche l’amicizia condivisa con Maria, e in seguito la celebrazione postuma della pittrice a Trieste, che non la vide protagonista, fu motivo di gelosia per la Pittoni. Nell’ultima lettera a Linuccia, quel 22 dicembre 1965, Anita, ritornando sulla trita faccenda delle lettere, menziona un nuovo fronte: alcuni inediti di Svevo che vuole pubblicare e il conflitto con la figlia Letizia Fonda Savio che li considera suoi.

 

La pittrice Maria Lupieri (1901-1961)

 

Un copione di cui Linuccia già conosce la fine. Non commenta e si congeda. In un’intervista del 1980, poco prima della morte, parla dell’eccellenza delle donne triestine citando Fiore de Enriquez, Leonor Fini e Maria Lupieri. Per Anita neanche una parola.

martedì 17 novembre 2020

MODA & MODI

Il flower power di Jill versus

il military chic di Melania

 

 

Fiori contro le uniformi, Jill versus Melania. È la sintesi del nuovo corso alla Casa Bianca, che con la signora Biden segna un cambio di passo anche nel guardaroba. Si è visto nei due dibattiti faccia a faccia dei mariti prima del voto, le uniche occasioni in cui le first ladies, una in carica e una ancora aspirante, sono apparse accanto sullo stesso palco.

 

Jill Biden a Cleveland

 

Melania a Cleveland

 

A Cleveland Melania vestiva un tailleur pantalone gessato Dolce&Gabbana, rigido e inespugnabile, da amministratore delegato di una coppia in affari, mentre Jill fluttuava in un abito verde bottiglia con pannello a frange sul davanti. A Nashville, nell’ultimo confronto, dr Jill, come la chiamano i media per le due lauree e il dottorato in educazione, si è gettata al collo del marito in un tubino a maniche corte cosparso di fiori su fondo azzurro, griffe a parti invertite ancora una volta Dolce&Gabbana, mentre Melania era sideralmente distaccata, anche dalla mano di Donald, nel suo Dior blu a braccia nude, issata sul piedistallo delle inconfondibili Louboutin.

 

Il faccia a faccia a Nashville

 

 

 

Melania in un  militare Alexander McQueen parla alla Convention Repubblicana dal giardino della Casa Bianca, agosto 2020

 

 Tramonta il military chic della signora Trump, le cinture strette in vita, i lunghi cappotti come uniformi da parata, la palette mimetica con tanto nero, verde oliva, bottoni dorati. Il suo incedere da ex indossatrice, che accanto a The Donald sembrava la falcata di un corazziere, quasi a sottolineare la muscolarità dell’approccio.

 

 

Jill Biden in Oscar de la Renta

 

Sul palco la nuova Flotus Jill ha portato una spruzzata di flower power, a trasmettere empatia e inclusione, un linguaggio fisico fatto di contatti spontanei piuttosto che di mani unite per circostanza, anch’essi segnali di un’inversione di rotta nella politica. Perchè nessuna scelta delle first ladies è casuale o priva di conseguenze agli occhi degli osservatori. Nel primo discorso di Biden da presidente eletto Jill era al suo fianco vestita in un asimmetrico blu firmato da Oscar de la Renta (i cui direttori creativi, Fernando Garcia e Laura Kim, sono entrambi immigrati negli Stati Uniti), percorso da un ramo di fiori ricamati con gialli e rossi in evidenza.

 

Il cambio di stagione è radicale negli armadi della Casa Bianca. Ma sicuramente i consiglieri della nuova first lady sono già al lavoro per rendere il suo messaggio meno naif. Dopo i colori e i fiori dell’euforia, servono precisione, armonia, dettagli per lasciare il proprio segno nello stile. E in questo la soldatessa Melania non ha sbagliato.

venerdì 13 novembre 2020

L'intervista

Le donne Curiel: Ortensia, Gigliola, Raffaella

Una dinastia nella moda

 

Determinata, creativa, affascinante, in anticipo sui tempi. Una donna moderna, che ha attraversato i capitoli più bui del ‘900 senza mai rinunciare al suo sogno di bambina: disegnare abiti, diventare stilista, aprire un atelier, far splendere le donne. Gigliola Curiel (1919-1969) l’ha realizzato quel sogno, nonostante la guerra, le persecuzioni contro gli ebrei, le fughe rocambolesche, il dolore per la morte del fratello maggiore, Eugenio, illuminato intellettuale antifascista, medaglia d’oro al valor militare, freddato a colpi di pistola in strada a Milano il 24 febbraio 1945.


La griffe Curiel è un capitolo importante della storia della moda italiana, che oggi ci racconta Gaetano Castellini Curiel, figlio della primogenita di Gigliola, Raffaella, anche lei stilista di successo, nel libro appena uscito “Gigliola Curiel. Una vita nella moda” (Le Lettere).

 



Gigliola Curiel a Trieste

 

 Questa dinastia creativa al femminile comincia a Palazzo Smolars, a Trieste, tra via Mazzini e via Dante, agli albori del secolo scorso. Di famiglia triestina, Gigliola respira e assorbe stile e gusto nella sartoria di zia Ortensia, sorella del padre Giulio e prima di otto figli, che, negli anni Venti, dopo aver aiutato a crescere i fratelli, col sostegno del marito Benedetto Pardo apre il suo laboratorio e diventa la sarta più ricercata di Trieste. I suoi modelli piacciono alle nobildonne viennesi, alle signore dell’alta borghesia cittadina, ad attrici e cantanti di grido. Ma quello di Gaetano, nato pochi mesi dopo la morte della nonna, non è solo il racconto di una personalità dirompente, al centro di un’avventura imprenditoriale che ancora continua. È la biografia di una grande famiglia ebrea, i cui componenti testimoniano, nei loro percorsi di vita, gli ideali, gli orrori, le conquiste di un intero secolo.


Gaetano, chi erano i Curiel? Il capofamiglia, Giulio, era un ingegnere navale, di famiglia triestina da generazioni. Aveva sposato Lucia, sorella del filosofo Ludovico Limentani. Vivevano in via Romagna, la sera Lucia si metteva al piano e i ragazzi cantavano. Nel 1929, per la crisi internazionale e per il calo delle commesse navali con il passaggio all’Italia, i Curiel hanno gravi problemi economici. Quando cominciano a risollevarsi, Giulio si ammala e muore. Da buoni triestini i quattro figli lasciano la città e cominciano a viaggiare. Eugenio studia fisica a Firenze e poi a Padova, dove si laurea, studia filosofia, intraprende la carriera accademica, aderisce al Partito comunista. Sergio va nei paesi scandinavi e si occupa di import export di legname. Grazia si sposa a Milano e Gigliola, che ha una grande passione per la moda, a 25 anni decide di seguire la sorella per cercare di realizzare il suo sogno. Comincia mostrando i disegni dei suoi modelli a un sarto di via Durini.

 

La famiglia Curiel: mamma Lucia, Eugenio, Sergio, Grazia e Gigliola

 


E si sposa... Nel ’41, con Carlo Bettinelli, commerciante di pelli. Lui era molto legato al Vaticano e in quei momenti poteva tornare utile essere la moglie di un cattolico. Il marito aveva stabilimenti in Germania e Russia, ma Gigliola non si accontenta di fare la moglie di un uomo abbiente. È decisa, indipendente. Si separa che è incinta di mia mamma Raffaella. La bambina nascerà a Gardone Riviera, in casa di un gerarca fascista. Gigliola era finita lì grazie a una sua amica, la contessa Pletikova, una di quelle persone che aiutavano gli ebrei a scappare, oggi le chiameremmo “fixer”, e che a sua volta era amica del gerarca. Gigliola partorisce da single e quando il lago di Garda diventa il quartier generale delle truppe di Salò decide di scappare. Tramite il colonnello Giuseppe Ghisetti, un suo ammiratore, arriva a Roma.


Dove? All’Hotel Plaza, quartier generale delle SS. “Mi cercheranno dappertutto tranne qua”, diceva. Un bel coraggio, lei, ebrea, con un fratello al confino a Ventotene. Si presenta come cugina di Ghisetti, e, attraverso i contatti di questo con Eugen Dolmann, il capo dei servizi segreti nazisti in Italia, può sistemarsi nell’albergo. A Roma conosce Maria Alzetta, una giovane friulana, che diventa la tata di mia mamma e poi anche di mia zia Gabriella. È rimasta in casa nostra quarant’anni. Aveva lavorato per l’ambasciatore d’Italia a Berlino e quando i nazisti le fermavano lei parlava con loro in tedesco, mentre mia nonna scappava.

 

 

Gigliola con la piccola Raffaella

 


Aveva rinunciato alla moda? Macchè. Si era finta cliente per entrare nell’atelier delle sorelle Fontana con i suoi disegni. Lì incontra Micol, che capisce subito il suo talento. Ne nacque un rapporto di stima reciproca, rimasero in contatto. Intanto mia nonna si spostava, arrivavano notizie che gli americani stavano per sbarcare e lei andava loro incontro. In Umbria, ad Anzio, a Napoli... seminava corteggiatori da tutte le parti. Il marito era sparito, lei era una donna libera.


Anche Sergio ha una brutta avventura... Sergio viene arrestato e portato in via Tasso, nella sede della Gestapo, dove cercano di carpirgli informazioni su Eugenio. Lui prova a corrompere qualcuno ma non ci riesce e, dopo alcune ore in cella, all’alba viene messo sul camion diretto alle Fosse Ardeatine. È allora che finge una rissa, un soldato tedesco lo blocca e lo butta giù dal camion. Lo credono morto e lo lasciano lì. Riuscirà a tornare a Roma seppure con una gamba ferita.


Sua nonna spezzava i cuori, ma si innamorerà ancora? Certo, di Nino Brozzetti, un amico di Sergio, che l’aveva conosciuto in Albania, come lui imprenditore dell’import export. Fu Sergio a fargli incontrare Gigliola, che per uno dei suoi spostamenti si trovava a Todi. Tra i due scoppiò un grande amore, un amore scandaloso, perché Nino era sposato con una maestra del posto. Più tardi, a Milano, nacque la loro figlia Gabriella.


Il 1945 è un anno cruciale... A pochi giorni dalla Liberazione muore Eugenio, l’intellettuale che si scriveva con Einstein, il fratello amatissimo, il punto di riferimento. Per mia nonna è un dolore lacerante. Ho scoperto durante le ricerche per il libro che Berlinguer aveva dichiarato che veniva a Milano solo in due occasioni, per rendere omaggio alla tomba di Eugenio Curiel e per la festa dell’Unità.


E l’atelier? Nonostante il dolore, Gigliola lo apre nello stesso anno, in via Borgogna a Milano, sopra il bar Ginrosa, affacciato su piazza San Babila. Nell’euforia post bellica la gente aveva voglia di rinascere, di uscire, di vestirsi bene. Ha subito successo. Casa sua e di Nino diventa un salotto particolare. E ancora una volta lei rompe gli schemi, mescola le persone: artisti, intellettuali, imprenditori e le sue mannequin, come Maria che sposerà Renato Angiolillo, fondatore e direttore del Tempo, o Marta, la futura contessa Marzotto. 

 



La vita nell'atelier Curiel a Milano, aperto nel '45

 


A Parigi non incontrò Dior ma... Lo scià di Persia, Reza Pahlevi. Si incrociarono nell’atelier di Dior in Avenue Montagne, dove Gigliola era andata a comprare dei disegni. La sera, tornando in albergo, si ritrovò la vasca della stanza da bagno piena di rose cremisi inviate dallo scià. Gliele rimandò indietro. Era una grande seduttrice, non bellissima in senso tradizionale, ma piena di energia. Il suo atelier arrivò a impiegare più di cento lavoranti, a rivaleggiare con Biki, Jole Veneziani, Germana Marucelli, le grandi sarte che vestivano le signore alla Scala, come fece anche lei.

 




 


Gigliola Curiel alla prima della Scala ne l1960

 


È vero che Camilla Cederna definì Gigliola “la mamma degli scemarelli”? Sì, sull’Europeo chiamò i modelli da giorno “scemarelli” o “curiellini”. Mia nonna si inventò uno spin off dell’abito nero di Chanel, tubini che potevi mettere di giorno o di sera solo cambiando un accessorio. Grazie alla lobby ebraica entrò in contatto con Bergdorf Goodman a New York e li vendette subito in America. È stata la prima stilista italiana a esportare negli Usa il Made in Italy. E le americane quando venivano in Italia compravano nel suo atelier.

 

Raffaella Curiel con la madre Gigliola

 


Com’era il rapporto tra Raffaella e sua nonna? Mia madre si sentiva un po’ soffocata. Nei suoi confronti l’educazione era più rigida rispetto a quella della sorella. Quando litigavano per questo, mia nonna le diceva “tua sorella ha un padre”, perché nel frattempo Carlo si era risposato e aveva avuto altri figli. Ci teneva che Raffaella frequentasse l’alta borghesia milanese, che andasse in chiesa, mentre Gabriella era più libera. In generale però la famiglia era di idee molto aperte. Comunque mia mamma dovette minacciare di andare a lavorare alla Rinascente perchè mia nonna le affidasse una collezione.


Oggi l'atelier Curiel? È stato acquisito dal colosso cinese Redstone. L’archivio è ancora a Milano ed è stato completamente digitalizzato, disegno per disegno. Mia madre ha aperto un altro atelier per le sue clienti che cercano l’alta moda e il ready to wear, mentre mia sorella Gigliola è rimasta a lavorare con i nuovi proprietari, che sono più orientati al mercato dei Millennial, al prêt-à-porter.


Sua madre che cosa le ha detto del libro? Si è commossa. Mia zia invece è rimasta colpita da come sia riuscito a far emergere il carattere della nonna pur non avendola conosciuta. In questo periodo più che mai è importante ricostruire la storia delle persone della propria famiglia, andare indietro nel tempo, cercare le loro tracce. Un patrimonio da lasciare per il futuro.

mercoledì 4 novembre 2020

MODA & MODI

 

L'obiettivo di Parks alla Fondazione Bisazza

 




 

 




 




Un meraviglioso spazio tutto da scoprire quello della Fondazione Bisazza a Montecchio Maggiore in provincia di Vicenza. Negli enormi capannoni un tempo dedicati alla produzione industriale di tessere da mosaico, oggi delocalizzata in India, sono stati ricavati circa ottomila metri quadri di gallerie espositive, dedicate all’architettura e al design e affacciate su giardini dal sapore zen. È qui che oggi trovano una collocazione ideale le fotografie di moda firmate da Norman Parkinson e da altri quattro maestri internazionali come gli americani Milton Greene, il ritrattista delle celebrità, tra cui un’intensa Marilyn, e Jerry Schatzberg e gli inglesi Terence Donovan e Terry O’Neill.

 

Nei loro obiettivi fermano e restituiscono ai visitatori i cambiamenti nel ruolo delle donne, le trasformazioni della società, del gusto, del modo di vestire e il nuovo linguaggio con cui la moda comunicava se stessa in un arco di tempo cruciale del secolo scorso. 1948-1968, dalla fame di vita all’indomani della guerra agli anni della liberazione femminile sulle ali dei movimenti giovanili della contestazione. Parkinson, “Parks”, nel percorso studiato dalla curatrice Caterina Carrillo de Albornoz, ci racconta scatto dopo scatto il glamour degli anni ‘50, gli swinging ‘60, lo stile urbano, il guardaroba dei viaggi, la couture postbellica.

 

Cambia il modo di rappresentare le donne nei servizi di moda, non più modelle artificialmente in posa negli studi, ma in movimento nelle metropoli, in spiaggia, donne in viaggio o immortalate in destinazioni esotiche. Nel percorso - in totale per i quattro artisti una settantina di immagini - ci fa idealmente da guida la moglie di Parkinson, la altissima e scolpita modella Wenda (oggi 97 anni), che trasmette la quintessenza di un’eleganza ineffabile. Tra le chicche, una sensuale e giovanissima Carmen Dell’Orefice, mannequin quasi novantenne che ancora sfila, ritratta da Parks in abito da sera, mentre con un braccio nudo nasconde gli occhi e con l’altro afferra la preda maschile. E un modello Capucci nel 1951, fotografato da Milton Greene su una vecchia scala a chiocciola, le enormi volute della gonna a riprendere la curva degli scalini.


Da visitare anche un’interessante collezione permanente di enormi oggetti pop firmati da artisti, architetti e designer - Urquiola, Sottsass, Mendini, Cibic, Paladino, Chia, tra gli altri - e realizzati in tessere di mosaico.

info@fondazionebisazza.it