venerdì 28 giugno 2019

IL PERSONAGGIO

Gianfranco Pagliaro, nel suo ricordo rivive
la "casina di luce"


Gianfranco Pagliaro, grafico, pittore, designer


L’11 settembre 2019 Gianfranco Pagliaro avrebbe compiuto sessant’anni e i suoi amici triestini vogliono ricordarlo riaccendendo idealmente una delle sue creazioni più ispirate, quella “casina di luce”, da cui, in una trascinante scia gialla, si sprigionava tutto il suo amore per il cinema, che sarebbe diventata il logo del Teatro Miela di Trieste, ancor oggi riconoscibilissimo. Sarà una serata per rendergli omaggio, per ascoltare i dischi che amava e conoscere i suoi lavori inediti, quindici. Ma nel segno del futuro, guardando avanti, come sarebbe piaciuto a lui, che già negli anni Ottanta si avventurava a “ibridare” i linguaggi artistici, sperimentare la computer grafica, incrociare disegno, moda, collage, industrial design, video, fotografia, cinema. Un anticipatore, lo definisce la moglie Lella Varesano, anima del progetto della “casina di luce”, intorno al quale sta raccogliendo le energie e i contributi di quanti conobbero e apprezzarono questo giovane e creativamente irrequieto grafico pubblicitario, morto a poco più di trent’anni, nel ’91.




Il ricordo di Gianfranco, Gianfry per gli amici, sarà dunque un ponte fra generazioni. Subito dopo la serata-tributo, il 13 settembre, verrà presentato al pubblico da Giuliana Carbi, anche in diretta Facebook, il “Cloud Project”, parte della digitalizzazione in corso del suo archivio di circa quattrocento lavori, realizzati nell’arco di dieci anni, a cui sta lavorando lo studio triestino Azimut di Massimo Gardone, un altro amico. Un archivio che, negli obiettivi della “casina”, dovrebbe essere aperto progressivamente agli artisti contemporanei, italiani e stranieri.


Per concretizzare e finanziare queste iniziative, i promotori dell’omaggio ripartono dal bel catalogo della mostra di Pagliaro, allestita nel ’93, a due anni dalla scomparsa, alla Galleria comunale d’arte di Trieste, dove furono esposti i disegni, e al Miela, che ospitò grafiche e video. Dalle pagine prende vita il mondo colorato dell’artista, impastato di glamour e spregiudicatezza, ma anche di equilibrio e rigore: a partire dai loghi disegnati non solo per il Miela, la famosa “casina di luce”, ma, tra l’88 e il ’91, per il Festival Teatro Ragazzi di Muggia, per il Teatro Verdi di Trieste, per l’Ert Teatro Scuola, per la neonata manifestazione Alpe Adria Cinema e per l’intera campagna pubblicitaria della Cooperativa Bonawentura.






C’è anche un invito alla presentazione della nuova stagione del cinema Alcione, che Pagliaro acquistò, nell’89, intrecciando due sue passioni. E poi la galleria dei ritratti, che oggi ci appaiono modernissimi con la loro sessualità liquida, e altre opere su cui si esercitava con tecniche diverse, dalla matita grassa al pennarello, all’acquerello, ai pantoni, alle aniline.






Il catalogo, insieme al Livre de Dessin, la riproduzione del libro di disegno che Pagliaro acquistò a Parigi nell’87 e che trasformò nel suo diario visivo, fatto pubblicare dalla moglie in edizione limitata per la mostra del ’93, sono ora in vendita, singolarmente o insieme, in un “pacchetto” che comprende l’invito numerato per la serata dell’11 settembre. Sulla pagina Facebook attivata per l’evento - www.facebook.com/casinadiluce/ - si può accedere all’acquisto o al crowdfunding. Per contribuire a supportare le iniziative si è pensato anche a un calendario di incontri estivi, coordinati da Maila Zarattini e dedicati alle passioni di Gianfranco, moda e cinema (con Tiziana Finzi), video e arte digitale (con Roberto Canziani). E poi all’asta di una sua opera, a un aperitivo benefico sul mare, a incontri “al fresco dei portoni”, nei palazzi storici del centro. I fondi serviranno inoltre a pubblicare un libro con le opere inedite e a dar vita a un “oggetto curioso” da distribuire agli invitati alla serata.


Veneziano di nascita, trasferitosi definitivamente con la famiglia a Trieste a tredici anni, autodidatta, Pagliaro aveva iniziato nell’83 come grafico e nell’84 aveva aperto un suo laboratorio di moda e design, Elettrakrom, dove creava abiti, t-shirt e cravatte dipinte a mano, che ebbero subito un certo successo. Di lì, i suoi interessi e le sue sperimentazioni si allargarono, attraversando molti campi, sul filo di un coerente ma anche stravagante percorso artistico, fino alla multimedialità.





Morì il 29 luglio 1991, in un incidente stradale, mentre andava ad assistere alla prima edizione di Mittelfest a Cividale. Al termine del ricordo dell’11 settembre, l’originale del Livre de Dessin sarà affidato al figlio del nipote, già appassionato di disegno, e le opere agli amici, perchè ne custodiscano e mantengano viva la memoria. 

@boria_a

mercoledì 19 giugno 2019

L'INTERVISTA

Slovenka, il primo giornale femminista a Trieste
Marta Verginella racconta "la stanza delle donne"



Fu il primo giornale femminile sloveno e il primo triestino scritto da donne per altre donne. Si intitolava Slovenka, La Slovena, e in un’avventura editoriale pionieristica durata cinque anni, tra il 1897 e il 1902, offrì uno spazio prezioso alle donne per raccontarsi e rappresentarsi, ma trattò anche della loro partecipazione attiva alla crescita sociale, di istruzione, lavoro, retribuzione, ruolo nella famiglia.

«Slovenka - sottolinea la storica Marta Verginella - nacque come giornale, anzi supplemento, letterario dell'Edinost, ma ben presto iniziò ad affrontare tematiche legate alla questione femminile e alla parità dei diritti delle donne. Intanto perché era diretto dalla scrittrice e traduttrice triestina Marica Nadlišek, favorevole all'attivismo femminile. Fece molto scalpore nel 1893 la sua polemica con il teologo Anton Mahnič, insegnante al seminario di Gorizia, su posizioni estremamente conservatrici e acerrimo nemico di ogni emancipazione femminile. Marica non aveva nessun timore di polemizzare con il futuro vescovo di Veglia. Per lei non vi era progresso senza l'istruzione e un ruolo più attivo delle donne nella società».


La storica triestina Marta Verginella


La storia della rivista e delle sue collaboratrici è diventata un libro con più contributi, “Slovenka. Il primo giornale femminile sloveno”, curato da Verginella ed edito dalla triestina Vita Activa (pagg. 175, euro 15), che verrà presentato venerdì 21 giugno 2019, alle 18, alla Libreria Minerva di Trieste, dall’autrice con la storica Tullia Catalan, la storica letteraria Tatjana Rojc e la giornalista Lisa Corva.



La collaboratrice di Slovenka Zofka Kveder


Professoressa Verginella, chi erano le collaboratrici di Slovenka? «La rivista ne aveva una rete vasta, come si capisce dalla corrispondenza di Marica depositata nella biblioteca nazionale di Lubiana e dagli articoli e testi. Erano soprattutto maestre e donne istruite che scrivevano testi di prosa e poesie. Tra di loro alcune erano anche femministe, come Elvira Dolinar, che nonostante vivesse dopo il matrimonio in una località sperduta della Carniola, era informatissima sulle lotte femministe nell'Impero e il movimento suffragista in Europa e negli Usa. Tra le collaboratrici fu lei ad assumere le posizioni più radicali riguardo ai diritti politici delle donne e alla loro sessualità. Va detto che Slovenka nasce come giornale triestino nel 1897, ma ha già nel primo anno ha 508 abbonati in tutta l'area slovena, alcuni anche a Graz, Vienna, Praga, Zagabria. Trieste diventa di fatto la culla del femminismo sloveno».






Come furono accolti questi argomenti? «L'obiettivo del giornale era rivolgersi alle donne in una società tradizionalista, assai poco favorevole all'emancipazione. Per questo le richieste inizialmente furono molto moderate e sopratutto ribadivano l'importanza della militanza femminile a favore della nazione slovena. Di numero in numero cresceva però la consapevolezza di far parte di un movimento emancipazionista transnazionale e la convinzione che l'indipendenza e l'istruzione della donna non potevano che giovare all'intera società. Soprattutto dopo l'arrivo di Ivanka Anžič alla guida del periodico, l'orientamento divenne sempre più femminista. Oltre al diritto allo studio universitario si richiedeva il diritto al divorzio e a una equa retribuzione. Quest'ultimo tema era molto sentito soprattutto dalle maestre che erano costrette al nubilato e venivano pagate meno dei loro colleghi». 



Marica Nadlišek con la sorella Antonija e la madre Marija Ipavec




Non erano temi troppo spregiudicati per le lettrici del giornale?
«Per le donne che non erano favorevoli all'emancipazione femminile, e queste erano in maggioranza non solo tra la popolazione contadina ma anche in quella borghese, la linea editoriale di Slovenka era senz'altro spregiudicata. Non così per le lettrici più istruite e organizzate, ad esempio le maestre che raggiungevano Trieste per vivere e lavorare in un ambiente più liberale e favorevole all'emancipazione delle donne».


C’erano temi tabù? «La sessualità femminile, almeno in parte. Singoli articoli affrontarono la tematica della prostituzione e la questione dell'amore libero, inteso come diritto di scegliere un partner senza coercizioni sociali o parentali e soprattutto coerentemente con i propri affetti. Richieste che oggi ci fanno sorridere, ma che allora erano prerogative di un'esigua elite femminile».



 
La direttrice Ivanka Anžič


Parlò di moda? «In termini politici. Le redattrici di Slovenka e alcune collaboratrici erano contrarie al corsetto e agli indumenti che ostacolavano il movimento. Alcune tra di loro, come ad esempio Marica, andavano in bicicletta. La scrittice Zofka Kveder, molto audace nei costumi e cosmopolita, vestiva i pantaloni e osò il taglio corto. Era proprio lei a sostenere che la Slovenka avrebbe dovuto parlare più di moda per accattivarsi un pubblico più vasto». 


Slovenka ebbe anche collaboratori maschi…«Il giornale godette del sostegno dell'intellighenzia liberale slovena, presente a Trieste e nelle diverse capitali dell'Impero. Fu il circuito più panslavo, liberale e socialdemocratico a sostenere l'emancipazione femminile e la necessità di seguire l'esempio boemo e russo, dove oramai il numero di donne laureate era tra i più alti in Europa. Per gli intellettuali sloveni che collaboravano con la rivista, spesso in maniera anonima o con iniziali, la lotta per l'emancipazione della donna era una questione di civiltà e modernità».


Come mai durò così poco?«Cinque anni sono molti se valutiamo la scarsità dei mezzi e soprattutto la radicalità della linea editoriale di Ivanka, poco accattivante per il mondo borghese femmnile. Probabilmente la permanenza di Marica Nadlišek a capo della direzione avrebbe prolungato la vita di Slovenka. Marica, aveva una personalità forte e seppure triestina era stimata anche nei circuiti lubianesi e stiriani, era un'autrice e traduttrice apprezzata e riusciva a mettere in comunicazione cerchie intellettuali molto diverse tra di loro. Si sentiva cittadina del mondo letterario, profondamente slovena ma anche cosmopolita». 

120 anni: non è un anniversario passato sotto silenzio?«Questa rivista era nata a Trieste, fino al 1918 parte dell'Impero, dopo dell'Italia. Quindi fuori dai confini sloveni e dai circuiti ufficiali della storicizzazione slovena. Ma poiché era un periodico sloveno, rimase anche fuori dal canone della storia politica e letteraria della Trieste italiana. Il classico cono d'ombra in un area di confine multietnica e multilinguistica». 


Slovenka ha lasciato qualcosa negli anni successivi? «Ivanka è diventata la prima giornalista professionista slovena, Marica dopo il matrimonio lasciò la redazione anche per le incompresioni dimostrate dal marito nei confronti del suo impegno professionale e ne soffrì per tutta la vita. Molte delle collaboratrici, soprattutto poetesse, non pubblicarono più. Dopo il 1918 uscirono altri giornali femminili con lo stesso nome, ma fu in sostanza il Ženski svet sempre edito a Trieste dal ’23, a riprendere la missione femminista, oramai in una situazione di ostilità nei confronti della stampa slovena e di ogni attivismo femminile al di fuori degli ambienti fascisti».

@boria_a

domenica 16 giugno 2019

IL LIBRO


Monica Sabolo: quell'estate in cui Summer sparì, bambola di una famiglia da pubbicità 







Nel suo romanzo d’esordio, “Tutta questa storia non ha niente a che vedere con me”, uscito nel 2015 per Mondadori, Monica Sabolo, giornalista milanese trasferitasi in Francia, registrava, in un diario spietato e autoironico, leggero e affilato, la quotidianità di un’ossessione amorosa non ricambiata, la progressione di un obnubilamento destinato alla catastrofe.

A quattro anni di distanza, arruolata da La nave di Teseo, Sabolo torna in libreria con “Summer” (pagg. 236, euro 19) una storia completamente diversa ma giocata ancora una volta su un’ossessione, un thriller psicologico che ha al centro la necessità, l’ineluttabilità di trovare risposte a una sparizione, a uno strappo familiare mai ricomposto.





Sono passati ventiquattro anni, nove mesi e otto giorni da quando Summer Wassner, diciannovenne bionda e luminosa, gambe elastiche e sorriso da romanzo rosa americano, è scomparsa durante un picnic con le amiche al lago Lemano, al quale partecipava anche il fratello più piccolo, Benjamin, all’epoca quattordicenne. Davanti al dottor Traub, psicanalista, quasi un quarto di secolo dopo, Benjamin cerca risposte, annaspa tra spezzoni di ricordi: è diventato un uomo tormentato, depresso, che abusa di alcol e pillole, un uomo visitato di notte e di giorno dal fantasma di quella sorella congelata nella memoria del bambino, «negli occhi una luce impercettibile che fa pensare alla sofferenza o al mare».


Suicidio? Rapimento? Magari caduta nell’acqua, i capelli come sottili filamenti che fluttuano, imprigionata tra le felci, sotto la superficie, senza che il lago ne abbia mai restituito il corpo? Perchè Summer, per Benjamin, è sempre legata all’acqua, elemento di mobilità e libertà, l’acqua della piscina dove si tuffava con l’amichetto Franck, come lui non ha mai avuto il coraggio di fare, l’acqua dell’acquario di casa, con le specie rare di pesci, che piccolissima restava a osservare per ore, di prima mattina, seduta accanto a papà.


«Sa, il cervello umano ha una formidabile capacità di stoccaggio. Registra tutto, non cancella niente» dice Traub a Benjamin. E dai file danneggiati della memoria, ecco riemergere le istantanee di una famiglia da pubblicità. Il padre seduttore e sanguigno, avvocato di successo di evasori e qualche malavitoso, la mamma algida e stupenda, sempre un po’ distante, quasi una sorella maggiore di Summer. Loro tre complici, ognuno a suo modo perfetto, così diversi da Benjamin, soffocato dal senso di inadeguatezza, di sfasatura in un quadro senza sbavature. E ancora le risate, le feste in giardino, con coppie di amici altrettanto ricchi e vincenti, donne che ammiccano alle battute di papà, uomini catturati dalla padrona di casa, eterea e frastornata, forse un po’ troppo.


Poi Summer cresce, ingrassa e dimagrisce, è bulimica anche nel sesso. “Non mi piace cosa sei diventata” le dice la madre, gelida come davanti a un’antagonista. Quando il padre la sorprende nuda sopra Franck, gli occhi di Benjamin ne registrano la reazione: fotogrammi della sua furia di animale, il gesto con cui strappa la sorella dal ragazzo, l’incollarsi dei corpi, l’arrossarsi della pelle bianca.


I flash tornano in superficie, ancora illeggibili. Dopo la sparizione di Summer, nell’estate in cui compiva diciannove anni, le ricerche di volontari e investigatori, il padre in giro in macchina a vuoto, le amiche che fumano in giardino, poi l’allontanarsi di tutti e il suo crescere solo, isolato nella disperazione, incapace di lasciarsi amare quanto di ricostruire il buco dentro di sè. Con l’ultima immagine della sorella piantata nella testa, la mano alzata quasi in un commiato, il sorriso rassicurante.


Quelli che spariscono finiamo per trovarli, dice a Benjamin il detective Alvaro Aebischer, ma nessuno sembrava davvero interessato a ritrovare Summer. Possibile? Che i suoi genitori si fossero rassegnati a lasciar andare la loro bambolina dorata? Che lui stesso, Benjamin, mascherandosi dietro i tic e la disfunzionalità, non abbia scavato abbastanza?


Con una scrittura tersa e spietata, che invischia e cattura, Monica Sabolo ci sprofonda nell’inconscio del narratore, in un mondo liquido e limaccioso, da dove risaliamo con un senso di angoscia e inquietudine, man mano che le acque restituiscono la verità sulla famiglia Wassner.

@boria_a

mercoledì 5 giugno 2019

MODA & MODI

Scandalo al sole

Costumi coprenti, copricostume, completi da mare con top e calzoncini. È “Scandalo al sole”, ma il film di sessant’anni fa di Delmer Daves. L’estate 2019 inverte la tendenza. Discrezione sostituisce esibizione. Al mare si va vestite e ci si spoglia con grazia. Come faceva Sandra Dee.


 

Senza scomodare le categorie dell’in e dell’out, è fuori tempo e non solo fuori gusto mettere all’aria il sedere in triangolini sfuggenti o lasciarsi tentare dall’upside down bikini, apparizione del 2018 propalata da Instagram, che suggeriva di allacciare davanti il top in modo da esporre il seno il più possibile, con una sorta di push up rovesciato, appunto. Gli esperti lo dicono da tempo: l’abbronzatura selvaggia e integrale è l’esatto opposto di salute e benessere. 

Altrettanto vale per equilibrio ed eleganza. I costumi dì quest’anno sono dunque parte di un codice da mare più modesto, senza per questo essere castigante. Gli interi, a fascia, con scollature a V o arrotondate fin sotto il collo, con un paio di pantaloni leggeri o una gonna pareo si riconvertono in top per lasciare la sdraio e camminare fuori il perimetro della spiaggia in perfetta “urbanità”. Lo stesso vale per gli interi monospalla, spesso con volant sull’unica spallina per offrire un dettaglio all’utilizzo multi-occasione. L’unica concessione alle stravaganze, sono gli anelli e i lacci laterali, sconsigliati se il busto non è asciutto e senza rotoletti inopportuni.

I bikini più nuovi? Hanno un sapore retrò, culotte a vita alta con cintura, anni Cinquanta, e reggiseni bustier, che i materiali tecnici rendono morbidi e non costringenti. Lasciano a vista solo il punto vita e il rischio è quello: se non c’è, l’effetto insaccato è sicuro.


Misura è la parola magica della moda mare 2019. Questione di centimetri: meno scoperti, più, eventualmente, da scoprire. 

@boria_a