martedì 26 giugno 2018

L'INTERVISTA

Il tradimento, la quarta sfumatura di Irene Cao



Dov’erano rimasti Elena e Leonardo, lei restauratrice lui chef stellato, inventati nel 2013 da Irene Cao, scrittrice di Caneva (Pordenone), che con la sua trilogia ero-soft - “Io ti guardo”, “Io ti sento”, “Io ti voglio” - senza fruste e ammanicoli, ma con tanto sesso ortodosso, ha venduto oltre 400mila copie? Dopo un percorso accidentato di strappi, riappacificazioni e amplessi, li avevamo lasciati intenti a metter su famiglia, mentre la loro storia, risposta italiana alle “Sfumature” di E.L. James, usciva dai confini nazionali per essere tradotta in dodici lingue, l’ultima il coreano, e ristampata da Rizzoli anche in tre diverse edizioni Bur.


Irene Cao fotografata da Giorgio Mondolfo


Le lettrici, però, si arrovellavano. Resiste la passione al tran tran coniugale? Così, via social e mail, hanno suggerito a Irene Cao, ex insegnante precaria di lettere classiche diventata cinque anni fa un caso editoriale, di inventarsi un seguito. Perchè se dopo la trilogia autoctona Cao ha firmato anche altro - il dittico “Per tutti gli sbagli e “Per tutto l’amore”, poi un romanzo compiuto, “Ogni tuo respiro” - i suoi primi personaggi restano i più amati. Così, in quattro mesi, scrivendo forsennatamente, l’autrice esce oggi in libreria con “Io ti amo”, quarto capitolo della saga (ancora Rizzoli, pagg.278, euro 16,00).


«Nell’ottobre di un anno fa - racconta - mi è venuta l’idea di buttar giù una traccia di continuazione e l’ho condivisa con l’editore, che mi ha spronato ad andare avanti. Dopo un tentativo che non mi convinceva, il 29 gennaio di quest’anno, tornando da Venezia, ho scritto le prime righe del nuovo libro sull’iPhone. Da lì non mi sono più fermata, l’ho consegnato all’inizio di maggio. Ho lavorato giorno e notte. Non è stata un’operazione semplice, è stato un percorso faticoso anche dal punto di vista fisico».




Il sequel di un successo commerciale è una tentazione sempre in agguato. E.L. James ha sfornato due Sfumature dalla parte di lui. Cao, invece, ha deciso di scuotere la sua coppia dalla deriva domestica ed esporla di nuovo alle debolezze della carne. Che qualcosa si sia incrinato nel rapporto è chiaro fin dalle prime pagine, quando Elena, affidato il piccolo Michele, ormai alle elementari, alla madre, esce a incontrare l’«altro» uomo: Dario, di professione scultore. E Leonardo dov’è finito? Parte il lungo flashback, che ci racconta uno chef inquieto a caccia di una terza stella Michelin per il suo “Cenacolo” a Roma e con tante distrazioni, non solo del palato. La verità si intuisce subito, perchè il Nostro è molto più credibile nelle prodezze erotiche che nella parte del premuroso papà. Infatti, cade subito nel più trito degli errori: concedersi un’avventura extraconiugale, mentre la compagna è alle prese con l’apprendistato della maternità.


 La trama si srotola sottile tra tradimenti, veri o sospettati, e la descrizione degli amplessi, adeguata al nuovo status dei protagonisti: le due pagine di ginnastica tra lavello e fornelli che chiudevano il terzo libro, si sono ristrette a una manciata di righe nella reciproca conoscenza coniugale.

Irene Cao, difficile ritornare indietro? «Ho passato le scorse vacanze di Natale a rileggere la Trilogia, cosa che non avevo più fatto dalla pubblicazione. Quei libri sono scritti in prima persona, si trattava di recuperare un modo di pensare e di raccontare. Volevo riprendere la voce di Elena, quindi è stata una rilettura profonda, mi sono calata nella sua mente, cercando di assumere il suo punto di vista, il suo sentire. Certo, non siamo più nel contesto delle Sfumature, quello che conta non è più solo il gusto erotico, com’era in quel momento ben preciso, tra l’estate 2012 e il 2013. Allora ho cercato di capire che cosa potrebbe essere successo nelle vite di due persone che si erano scelte, e scelte così tanto da fare un figlio insieme, che cosa potesse unirle ancora. E se avessero ancora qualcosa da scoprire l’uno dell’altra...».


Ce l’hanno? «Le mie lettrici un po’ se l’immaginavano che non sarebbe stato facile imbrigliare uno spirito libero come Leonardo. Anch’io l’ho odiato in certi momenti, sono entrata in contrasto col personaggio, ne scrivevo e allo stesso tempo lo detestavo, soprattutto nel primo libro, con quel suo fascino demoniaco e il modo di fare da stronzo. Poi, man mano che la storia procede, anche lui subisce un cambiamento. Nel terzo libro sono alla pari, due anime che si incrociano e hanno voglia di andare avanti insieme, di fidarsi reciprocamente. Poi qualcosa succede, come a molte coppie: non si parla più, non ci si ascolta, non ci si fida e si diventa due entità che procedono autonomamente su vite parallele, senza interfacciarsi. Tanti tradimenti nascono da lì, dall’incapacità di comunicare. È una storia abbastanza comune, lo vedo intorno a me».


A Elena che cosa è successo? «Vive un momento difficile, ma trova la forza di scegliere. È molto più protagonista. Prima Leonardo era il maestro, mentre in questa storia il punto di vista è centrato su di lei. Elena è autonoma, è madre, si è presa delle responsabilità che l’hanno resa più forte. Non c’è più l’iniziazione ai sensi e al piacere, è tutto già successo, ma una coppia che si conosce e non si sa se durerà o no».


Lei, Irene, è cambiata? «Sì, anch’io. Sono stati cinque anni intensi e potenti. Elena non mi rispecchia completamente, ma qualcosa di me stessa, almeno a livello caratteriale, lo metto sempre nel suo personaggio. Rispecchia la mia visione del mondo, il mio modo di intendere i sentimenti e la vita. E in lei c’è il mio amore per l’arte, una delle mie scialuppe di salvataggio nei momenti critici».


Ha fatto solo la scrittrice? «Nell’ultimo anno ho provato a cimentarmi con la regia. Sto ultimando il montaggio di un prodotto un po’ innovativo, da far girare sul web, in cui mi muovo tra i mondi della regia, della fotografia, della luce. Per il momento è ancora in stand by perchè ho dato priorità al libro e io nei progetti mi ci tuffo con l’anima e riesco a fare solo una cosa per volta. Questo esperimento si avvicina molto all’idea di un film: sette episodi di cui sono regista e in parte anche attrice, che raccontano il mio viaggio di scrittrice e fanno entrare nell’atmosfera dei miei libri. È un progetto in cui ho investito molto tempo e finanze. Non mi sono sposata, quindi mi sono concessa questo matrimonio con il mondo delle immagini».


Dov’è girato? «A Venezia, a Roma, Milano, in una villa veneta e anche a Trieste, sul Molo Audace, in una scena che mi è rimasta nel cuore. Finiamo sulle mie colline, vicino al mio eremo creativo di Caneva».


E l’amore?«L’ho trovato e l’ho perso. Forse non era ancora arrivato il mio momento. In questi anni, e parlo degli ultimi dieci, sono successe tante cose, mi sono messa al servizio della scrittura. Io, come persona, mi sono fatta da parte, mi sono dimenticata di me per cullare i miei personaggi e i miei progetti. Adesso ho deciso di prendermi una lunga pausa, in cui cercherò di capire dove voglio andare e rivivere alcuni momenti che mi sono persa nel corso del tempo. Sono stati anni di grande sacrificio, che mi hanno dato molto ma anche tolto molto. Alla fine devo ricreare un equilibrio dentro di me».


Dunque lei è tra i fortunati che vivono di scrittura... «Negli ultimi cinque anni sì. E ringrazio i miei lettori, perchè chi ti rende scrittore è chi ti legge. Storie ne ho ancora tante in testa, ma adesso devo alleggerirmi, perchè quando trattieni tanto materiale per tanto tempo l’anima diventa pesante. Vivo la scrittura in modo viscerale».


Cosa le è mancato di più? «Forse non aver avuto abbastanza tempo per le amicizie, che come gli amori vanno coltivate e innaffiate. Non sempre si viene capiti, ascoltati, spesso gli altri non gioiscono delle tue gioie. L’invidia non mi appartiene, ma siamo umani, lo comprendo. È l’altro lato della medaglia».


Il successo l’ha cambiata? «Per niente. La gente pensa che abbia una vita stratosferica, mentro sono qui, nella mia casa, che mi sono tirata su da sola, grattando dalla mattina alla sera, con l’aiuto di mio padre, che faceva questo mestiere. Mi piace lavorare con le mani, anche a Tarvisio ho passato giorni a restaurare la casa dei miei nonni taglialegna, in mezzo ai boschi. Mi sento arricchita dentro, ma al di là del riconoscimento economico, non sono cambiata. Sono gli altri che mi vedono diversa».


L’ha condizionata l’etichetta di scrittrice erotica?
«Tantissimo. Gli uomini ne sono spaventati. Magari non hanno letto neanche una riga dei miei libri, ma si costruiscono un immaginario e quando mi conoscono e capiscono che sono una persona tranquilla, e con certi valori, restano delusi».

@boria_a

sabato 23 giugno 2018

IL LIBRO

 Il bambino che cerca il coma etilico







Le fedeltà invisibili sono lacci che ci legano agli altri, a volte fino a strangolarci. Quelle che un bambino sente verso i genitori separati e che lo spingono a difenderli da loro stessi, a evitare che si sbranino per lui. Quelle che un amico nutre per il suo compagno di banco, di cui intuisce l’abisso di dolore e di smarrimento e lo rispetta col silenzio. Quelle di una donna verso il padre che l’ha maltrattata da bambina, togliendole per sempre una parte di sè. Patti d’amore e di lealtà nei confronti di chi amiamo o abbiamo amato, spinti al limite, fino all’autodistruzione.





È una fedeltà invisibile quella che Théo, dodici anni, prova per i due nemici che lo hanno messo al mondo, da cui vive a settimane alterne. Suo padre è un uomo alla deriva: lasciato dalla nuova compagna, scaricato dalla sua azienda, si lascia morire dentro un pigiama sporco in un appartamento buio e puzzolente, tra i cartoni del cibo. Sua madre è intossicata dal risentimento per l’ex marito e ogni volta che il bambino rientra a casa lo tiene a distanza, evita di guardarlo, tutta concentrata nello sforzo di riammettere nel suo spazio il figlio tornato da un territorio ostile e contaminato, di cui bisogna cancellare ogni traccia.


Come si può smettere di amare i genitori, come si può strapparli dalla propria vita, per quanto fragili, egoisti, anafettivi siano? Théo non ci riesce, fedele a quel patto che gli suggerisce quando tacere, mentire, fare la faccia neutra o recitare per non ferirli, per non offrire argomenti a nuovi scontri e rivendicazioni. Un peso insopportabile, che si può annullare solo stordendosi.
Théo beve superalcolici. A scuola, in un nascondiglio che condivide con il coetaneo Mathis. Ogni giorno il livello della bottiglia scende un po’ di più, ogni giorno bisogna rubacchiare in casa per procurarsi, in un negozio che non fa domande, vodka, rum, whisky. Per Mathis, ammirato e un po’ succube, è solo un gioco clandestino, per Théo un piano lucido, da portare fino in fondo: «Si chiama coma etilico. Gli piacciono queste due parole, il loro suono, la loro promessa: un momento di scomparsa, di eclissi, in cui non devi più niente a nessuno». La madre di Mathis, Cécile, vorrebbe interrompere il legame tra i bambini, che avverte pericoloso, ma la sua attenzione è risucchiata da altro: quel marito che le fa pesare la sua inferiorità sociale, ha una seconda vita in Internet, profili multipli dietro cui scarica la sua aggressività.


È un’altra solitudine a intuire da subito quella di Théo. Hélène, l’insegnante di scienze, non si fa ingannare dalla lentezza dei movimenti, dallo sguardo che sfugge quello degli altri, dallo sforzo di rendersi trasparente. Riesce a vedere le ferite del bambino sotto i vestiti, anche se l’infermiera della scuola ha detto che sul corpo non ha un graffio. «Non c’era nulla. Peccato che io le botte le ho prese e non mi fregano». Hélène non può avere figli perchè suo padre da bambina l’ha presa a calci fino a provocarle un’infezione, ma anche lei non ha parlato nè chiesto aiuto, proprio come Théo. «So che i figli proteggono i loro genitori e so quale patto di silenzio li porti a volte fino alla morte». Ma l’insegnante è isolata, i colleghi minimizzano, come se la sua sia solo un’ossessione malsana per l’alunno.


“Le fedeltà invisibili” di Delphine de Vigan - quinto romanzo della scrittrice francese e primo pubblicato da Einaudi, pagg. 134, euro 17,00 - stringe lo stomaco in una morsa. Lucido e teso fino all’ultima riga, scarnifica il lettore. Bambini che coprono i cedimenti dei genitori, determinati a difenderli, ad assumere su di sè i loro problemi, a costo di uccidersi. Adulti che annaspano dietro un paravento di normalità. O che sentono di dover restituire qualcosa alla loro infanzia violata, come Hélène che ha deciso che la “fedeltà invisibile” non debba più annientare nessuno. «A volte penso che diventare adulti non serva a nient’altro che a questo: riparare le perdite e i danni originari. E mantenere le promesse del bambino che siamo stati».


Il finale è sospeso, non consolatorio, ogni esito è possibile. E ci interroga nel profondo sul nostro essere genitori e figli. Perchè a ognuno è capitato, in entrambi i ruoli, di pensare che un legame così stretto vada protetto da ogni intrusione esterna, che ogni richiesta d’aiuto sia un tradimento. E il prezzo da pagare dura una vita.


sabato 9 giugno 2018

IL LIBRO

Il cold case del burattinaio Dicker 





Dopo vent’anni un sanguinoso caso di cronaca viene riaperto. E la verità che sembrava giudizialmente cristallina si disintegra, mandando migliaia di pezzi a conficcarsi nella vita senza scossoni di una cittadina balneare sull’oceano, dove nulla, e nessuno, sarà più come prima. Era il 30 giugno 1994 quando nell’immaginaria Orphea, collocata nello Stato di New York, mentre si sta per inaugurare la prima edizione del festival teatrale, vengono freddati nella loro casa, a colpi di pistola, il sindaco, sua moglie e il loro figlioletto. All’esterno, un altro cadavere: una ragazza in tenuta da jogging è stata uccisa con la stessa arma, forse per aver visto l’assassino. Il caso viene affidato a due giovani e promettenti agenti, Jesse Rosenberg e Derek Scott, i primi ad arrivare sul posto, che conducono le indagini con solerzia e inchiodano il colpevole, un ricco ristoratore della zona. In galera non ci arriva: muore in un incidente durante l’inchiesta.

Siamo nel 2014, ancora una volta in prossimità dell’apertura del festival, e Jesse, diventato capitano (anzi, il capitano 100%, che non fallisce un’indagine...), sta festeggiando con i colleghi il suo prossimo pensionamento. È allora che Stephanie Mailer, una giovane giornalista imbucatasi al ricevimento, gli si avvicina e, brandendo un ritaglio di giornale, lo apostrofa con studiata malizia: «Nel 1994 ha sbagliato colpevole. Mi sembrava giusto che lo sapesse prima di lasciare il corpo». Il poliziotto e la cronista si incontreranno quell’unica volta, perchè nello stesso giorno Stephanie sparirà nel nulla.


Joël Dicker è tornato, e alla grande. Chi si è lasciato catturare e travolgere da “La verità sul caso Harry Quebert” (2012, Bompiani), best seller da sei milioni di copie, tradotto in 33 lingue, proverà ora la stessa ansia di arrivare all’ultima riga di “La scomparsa di Stephanie Mailer” (La Nave di Teseo, pagg. 708, euro 22,00), il suo nuovo, fluviale e intricatissimo giallo. Perchè al termine di ogni capitolo lo scrittore svizzero, con sbalorditiva abilità, apre un altro fronte, lascia una risposta in sospeso, getta un indizio, smantella una certezza, incastra una coincidenza, trascinando il lettore avanti e indietro dal 1994 al 2014, tra vecchie indagini e nuovi indizi, giù giù fino in fondo nelle vicende e nella personalità dei tanti personaggi, tutti cesellati eppure pieni di ombre, sempre alla fine sfuggenti. Con un espediente narrativo che sfaccetta ancor di più la trama, lasciando la prima persona solo alle voci degli investigatori Jesse e Derek, che sembrano così sovrastare il fruscio dei sospetti, delle rivelazioni, delle mezze parole in cui è avviluppata l’anonima esistenza di Orphea, un cellophane trasparente e asfittico, sotto cui si nascondono e si proteggono reciproci segreti.





La vera protagonista, in questo che è un grandioso thriller corale, è proprio l’opaca cittadina di provincia e il suo festival teatrale, evento di richiamo turistico e quindi di guadagno, ma anche palcoscenico per piccole e grandi vanità, occasione per realizzare un sogno o colpire a tradimento. Intorno a “La notte buia”, lo squinternato copione che l’ex comandante della polizia della città Kirk Harvey, vuol mettere in scena al festival del 2014, riscattando la figuraccia di vent’anni prima, quando lo spettacolo fu cancellato dal sindaco ucciso, si affollano i sospetti: il nuovo primo cittadino, Alan Brown, che prontamente, forse troppo, prese il posto del defunto, e sua moglie Charlotte, veterinaria e attrice di talento; il direttore del “New York Literary Magazine” Steven Bergdorf e la sua bella e avida amante Alice, il manager televisivo newyorkese Jerry Eden e la figlia Dakota, tossica e infelice, l’ambiguo critico teatrale Meta Ostrovski, che, insieme agli altri, ha trovato in Orphea un comodo riparo.


Tutti, a cominciare da Jesse e Derek, hanno un passato da cui fuggire e fantasmi da disseppellire, come gli indizi tralasciati nell’indagine, che continuano a seminare morte. La verità, dice Stephanie a Jesse Rosenberg nel loro primo e ultimo incontro, era sotto i suoi occhi, ma lui non ha saputo vederla.

Magistrale burattinaio, Dicker tiene alta la suspense fino alla fine, districando tutti i fili, solo in apparenza lasciati penzolare a vuoto lungo la trama. La notte buia, sembra suggerirci l’autore, non è solo quella della mano omicida, ma è il lato oscuro custodito in ognuno di noi, dissimulato nel tran tran quotidiano, dietro la facciata, che, in circostanze favorevoli, viene a galla e deflagra. Lasciando tutti, lettori compresi, senza fiato.

@boria_a

lunedì 4 giugno 2018

MODA & MODI

Il mollettone alla conquista del Rossetti






Il mollettone fermacapelli di plastica è sdoganato. Esce dalle docce, dalle palestre, dalle spiagge e marcia orgogliosamente alla conquista del Teatro Rossetti di Trieste, in una recente soirée di mondanità a chilometro zero. Chi l’ha detto che l’utile aggeggio debba restare confinato all’intimità domestica o al tempo libero? Avvistato nell’affollato parterre del Politeama, svettava senza timidezze su un abito fiammante e alla sommità di un capino platinato, rivendicando il suo posto tra stiletti, plateau e pochettine bonbon. Un caso isolato? Tutt’altro. Nella stessa giornata, all’Hotel Savoia, nel pomeriggio con relatore illustre che ha preceduto il gala in teatro, un altro mollettone, ingentilito da strass, passeggiava nell’uditorio ad altezza considerevole. Due nello stesso giorno non fanno temere l’epidemia, ma ce n’è abbastanza per registrare un inquietante “upgrade”.

Le orfane e le fan di Sex&TheCity ricorderanno lo “scrunchie”, quell’elastico di tessuto per capelli da insegnante di aerobica che Carrie, la protagonista della serie, bollava senza pietà come segno inequivocabile di provincialismo e gusto ordinario. Qualche anno fa l’elasticone visse un estemporaneo ritorno di fiamma, quando Hillary Clinton fu paparazzata in occasioni ufficiali all’estero con i capelli trattenuti da dischi di stoffa bianchi e neri. Contribuirono alla resurrezione anche un paio di attrici come Catherine Zeta-Jones e Sienna Miller, beccate a fare shopping con lo “scrunchie” abbinato alla pelliccia e agli occhiali da diva.


Fu un momento di gloria intenso, ma breve. In fondo si trattava solo del segretario di Stato americano, mica di un’influencer da milioni di follower su Instagram. Accettata la candidatura democratica alla Casa Bianca, cinque anni dopo, Hillary si tolse il grillo dalla testa e ricomparve in pubblico solo con la “political bob” o “pob”, mezza frangia per donne di potere, come la Merkel e Theresa May, che manuteneva a prezzi da capogiro. Dello scrunchie si perse ogni traccia.

Oggi, però, la moda la detta l’influencer.
Teniamo le dita incrociate: se un’azienda di mollettoni griffati ne regalerà una scorta alle Ferragni sparpagliate in tutto il mondo, anche il forchettone di plastica avrà di nuovo il suo meritato momento di gloria. E l’anonima signora triestina sarà stata un’involontaria e geniale anticipatrice di tendenza.

@boria_a

sabato 2 giugno 2018

L'INTERVISTA

Vittorio Zucconi e l'accappatoio rubato a Trieste 



La Lettera 22 su cui suo padre, giornalista, batteva furiosamente, fino all’alba. Il videoregistratore Betamax che gli permise, con moglie e figli piccoli, di non soccombere alla plumbea televisione sovietica, negli anni da corrispondente da Mosca. Il pacchetto di wafer divorato a Kuwait City, nel giorno della liberazione da Saddam, accanto a un’imbronciata Oriana Fallaci, che voleva essere la sola. E l’America percorsa in lungo e in largo dietro agli aspiranti presidenti, scoprendone i lati privati, le debolezze e le virtù.

La vita di un giornalista di razza come Vittorio Zucconi è fitta di incontri, personaggi, occasioni straordinarie. Di sapori, oggetti, auto, animali, trovati o lasciati da un capo all’altro del mondo. Cose e paesi che, nel suo ultimo libro, “Il lato fresco del cuscino” (Feltrinelli), gli permettono di ripercorrere un’eccezionale avventura di cronista, in un viaggio nella memoria condotto tra ironia e un po’ di nostalgia. Ne ha parlato a Trieste, in occasione del Premio Luchetta, e ha promesso di fare ammenda per un lontano "fattaccio".


Lei ha coperto per quattordici volte le campagne presidenziali americane. Ci racconta qualche presidente? Clinton, per esempio…
«Tra tutti quelli che ho seguito da vicino era il più grande candidato elettorale che abbia mai visto. Un mostro. Quando entrava in una sala, ci fossero 20 o 2000 persone, lui risucchiava tutta l’aria... anche se la parola risucchiare non è la più indicata, visti i precedenti... Aveva la capacità di trasformarsi nei suoi interlocutori: se parlava con una donna diventava donna, se parlava con un ricco diventava ricco, se parlava con un nero diventava nero. Era completamente zelighiano e ti dava l’impressione, che tu in quel momento fossi la persona più importante del mondo. Ecco perché era così bravo a sedurre le donne. L’altro grande candidato che ho visto all’opera è stato Ronald Reagan: simpatico, umano, spiritoso. Clinton non era spiritoso...».


L’ex attore che pochi prendevano sul serio… «Sì, dimenticando una cosa che avremmo poi tutti scoperto, anche in Italia, che ogni uomo o donna che voglia far fortuna in politica deve essere un po’ attore o attrice. Dopo gli anni ’60, dopo l’irruzione della televisione come elemento dominante, tutti devono saper recitare la loro parte. Reagan disse a un giovane deputato repubblicano che era andato a rendergli omaggio alla Casa Bianca: “Ricordati che in politica per avere successo devi essere sincero. Se riesci a sembrare sincero ce l’hai fatta”».


E Obama? «Un grande oratore, però con lo spartito. Non era bravo a improvvisare come Clinton, ma, come Reagan, aveva il copione e anche la battuta pronta. I presidenti ripetono cinque, sei, sette volte al giorno, in paesi e città diverse, sempre le stesse cose, ma quando le diceva Obama acquistavano vita. Aveva lo stesso problema che poi avrebbe avuto Hillary Clinton, quello di non sembrare troppo nero, di dare l’impressione che lui fosse un uomo qualsiasi, un candidato da votare indipendentemente dal colore della pelle, o, come sarebbe stato per Hillary, dal genere. Quindi non era bravo come gli altri, era bravissimo. In rapporto agli avversari, s’intende, perché la politica ha la stessa legge dello sport: non puoi battere qualcuno con nessuno. I suoi avversari erano dei nessuno, quindi ebbe buon gioco».


Hillary? «Due donne in assoluto contrasto tra di loro: c’era la Hillary pubblica, quella dei comizi, completamente rigida, chiusa nella sua bravura, nella sua intelligenza, nella sua preparazione. Straordinaria, però non sapeva comunicare. Poi c’era la Hillary privata, che ho avuto la fortuna di incontrare in alcune occasioni. Mi colpiva moltissimo come rideva. In pubblico aveva una risata da palcoscenico, fredda, artificiale. Quando era in privato rideva come una ragazza, risate spontanee, cristalline, anche un po’ “stupidine”. Sono stato tentato più volte di dirle: “Hillary ma perché non porti ai comizi questa donna? Butta via quell’altra. Parla dei nipoti, della figlia, della tua vita”. Le due Hillary che non si sono mai ricomposte, alla fine hanno creato una tragedia umana grandissima. Una donna che alle 8 di sera dell’8 novembre 2016 era presidente degli Stati Uniti, la prima donna presidente, e tre ore dopo era una donna qualsiasi».


Hillary ha sofferto la modaiola Michelle Obama? «Michelle non l’ha sofferta tanto personalmente, anche se dei rapporti tra le due abbiamo poche tracce, perché erano molto diverse. Hillary non avrebbe mai indossato jeans o zampettato per pomodori e peperoni in cortile. Michelle aveva il grande vantaggio che, essendo donna e non avendo un ruolo istituzionale, poteva non nascondere né la sua femminilità, che era prorompente, né il suo sangue di origine africana. I colori che indossava avevano chiaramente un sapore di Africa. Mentre Hillary con quel tailleur pantalone sembrava un soldatino di piombo. Erano assolutamente incompatibili, ma non credo che Hillary abbia sofferto direttamente il confronto... Il suo confronto era secondo me con il fantasma del marito, di Bill».


Aveva previsto la possibilità che Trump vincesse? «Non posso dire di averlo fatto, anche perché chi potevo essere io contro gli ultimi 158 sondaggi, dei quali 157 davano Hillary come sicura vincitrice? Sarebbe stato un po’ presuntuoso... Però avevo avvertito sia il giornale, sia attraverso twitter e i social network, che esisteva più di una possibilità che Trump ce la facesse. Perché sentivo arrivare il brontolio dal ventre dell’America. E soprattutto la non voglia di eleggere un altro Clinton alla Casa Bianca. In gergo americano si chiama la “Clinton fatigue”, la stanchezza: era pure buono, ma otto piatti di caviale no, datemi un pezzo di pane. Ho visto arrivare non tanto la vittoria di Trump quanto la sconfitta di Hillary».


Che ne pensa della first lady Melania?  «Mi fa un po’ pena, mi sembra una farfalla inchiodata con uno spillo, come in certi musei di storia naturale. Bella, terrorizzata all’idea di invecchiare e lo si vede, perché è una donna che finora ha fatto della bellezza la sua forza. Vive un po’ prigioniera nella Casa Bianca, aggrappata a quel bellissimo bambino, Barron, che riesce a difendere come un’orsa coi cuccioli. Ha tentato qualche sortita in pubblico con delle iniziative, ma tutto molto artificiale. Michelle era notoriamente non contenta di stare alla Casa Bianca, però recitava la sua parte col massimo possibile della felicità. Melania mi sembra una prigioniera del castello: della funzione istituzionale, dell’imbarazzo di essere la prima first lady che parla con un fortissimo accento straniero. E poi vive all’ombra di un mostro, del gigante con la pannocchia in testa, che si mangia tutta la scena, che dice delle cose invereconde, che ha chiaramente un rapporto con le donne non proprio esemplare».


La passione per questo mestiere è nata con la famosa Lettera 22 di suo padre? «Beh sì, anche se nel libro racconto che rimasi completamente sedotto dalla prima visita in tipografia, dall’odore del piombo fuso. Mio padre lavorava credo al Popolo, che era l’edizione milanese del giornale della Democrazia cristiana. I miei fratelli e sorelle non provarono mai il desiderio di fare il giornalista, mentre a me affascinava l’idea da quando vidi mio padre partire per l’Ungheria nel ’56. Ero un bambino, la rivolta di Budapest, i carri armati... Mia madre piangeva, io provavo un’invidia divorante: mio padre va al centro della cosa di cui oggi tutti parlano... Ma ho visto anche l’altra faccia del mestiere di scrivere, cioè l’immensa fatica. Chi dice che fare il giornalista è sempre meglio che lavorare, è perché non l’ha mai fatto davvero». 


Nel libro confessa un “reato”, commesso proprio a Trieste... «Mi vuole mettere in difficoltà perché ci devo tornare… Beh, sono stato affascinato da un meraviglioso accappatoio e l’ho rubato... Lo uso ancora a Washington, di un cotone fantastico, resistentissimo. E me lo sono insaccato in valigia. Una di quelle cose vergognose perché non è che non potessi permettermelo, quindi quando tornerò in quell’albergo (i Duchi, nel libro lo scrive, ndr) cercherò di pagarlo. Voglio saldare questo debito perché ho rubato solo due cose nella mia vita. La prima, un chiodo: una volta stavo piazzando dei quadri in casa e andai dal ferramenta lì a Washington. I chiodi li vendevano dentro delle grandi ceste, ma c’era la fila... io ne presi uno, me lo misi in tasca e uscii. Sono passati sedici anni e quel chiodo mi brucia in tasca da allora. E l’accappatoio, ogni volta che esco dalla doccia a Washington e me lo infilo, mi dà un brivido di colpa che cercherò di saldare tornando a Trieste».


Com’è l’Italia vista dall’America in questo momento? «È come l’Italia vista dall’Italia. Cioè un enigma avvolto in un mistero, si diceva una volta nell’Unione Sovietica. È inquietante per me vedere come questo paese stia tornando furiosamente indietro nel tempo e come si stia di nuovo dividendo in vari paesi, signorie, comuni. Abbiamo due Italie che non si parlano praticamente più e che vivono una vita parallela. E che rischiano soprattutto di staccarsi dall’Europa, l’ipotesi che mi preoccupa di più. È venuta in Italia mia figlia, una signora nei suoi anta, con delle amiche, e hanno deciso di andare a Roma. Ero spaventato un po’ all’idea, non tanto per mia figlia, ma per quelle signore di sobborgo americano col praticello verde, il golden retriver, lo steccato bianco, che arrivano nel merdaio romano… Invece, sono tornate con una cotta da ragazzine, entusiaste, drogate di pastasciutta, cacio e pepe. A volte forse noi siamo più severi nel giudicarci di quanto facciano gli altri. Stare a Roma cinque giorni non è come viverci, però abbiamo ancora una capacità di seduzione, nonostante tutto, che sottovalutiamo
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@boria_a