sabato 2 giugno 2018

L'INTERVISTA

Vittorio Zucconi e l'accappatoio rubato a Trieste 



La Lettera 22 su cui suo padre, giornalista, batteva furiosamente, fino all’alba. Il videoregistratore Betamax che gli permise, con moglie e figli piccoli, di non soccombere alla plumbea televisione sovietica, negli anni da corrispondente da Mosca. Il pacchetto di wafer divorato a Kuwait City, nel giorno della liberazione da Saddam, accanto a un’imbronciata Oriana Fallaci, che voleva essere la sola. E l’America percorsa in lungo e in largo dietro agli aspiranti presidenti, scoprendone i lati privati, le debolezze e le virtù.

La vita di un giornalista di razza come Vittorio Zucconi è fitta di incontri, personaggi, occasioni straordinarie. Di sapori, oggetti, auto, animali, trovati o lasciati da un capo all’altro del mondo. Cose e paesi che, nel suo ultimo libro, “Il lato fresco del cuscino” (Feltrinelli), gli permettono di ripercorrere un’eccezionale avventura di cronista, in un viaggio nella memoria condotto tra ironia e un po’ di nostalgia. Ne ha parlato a Trieste, in occasione del Premio Luchetta, e ha promesso di fare ammenda per un lontano "fattaccio".


Lei ha coperto per quattordici volte le campagne presidenziali americane. Ci racconta qualche presidente? Clinton, per esempio…
«Tra tutti quelli che ho seguito da vicino era il più grande candidato elettorale che abbia mai visto. Un mostro. Quando entrava in una sala, ci fossero 20 o 2000 persone, lui risucchiava tutta l’aria... anche se la parola risucchiare non è la più indicata, visti i precedenti... Aveva la capacità di trasformarsi nei suoi interlocutori: se parlava con una donna diventava donna, se parlava con un ricco diventava ricco, se parlava con un nero diventava nero. Era completamente zelighiano e ti dava l’impressione, che tu in quel momento fossi la persona più importante del mondo. Ecco perché era così bravo a sedurre le donne. L’altro grande candidato che ho visto all’opera è stato Ronald Reagan: simpatico, umano, spiritoso. Clinton non era spiritoso...».


L’ex attore che pochi prendevano sul serio… «Sì, dimenticando una cosa che avremmo poi tutti scoperto, anche in Italia, che ogni uomo o donna che voglia far fortuna in politica deve essere un po’ attore o attrice. Dopo gli anni ’60, dopo l’irruzione della televisione come elemento dominante, tutti devono saper recitare la loro parte. Reagan disse a un giovane deputato repubblicano che era andato a rendergli omaggio alla Casa Bianca: “Ricordati che in politica per avere successo devi essere sincero. Se riesci a sembrare sincero ce l’hai fatta”».


E Obama? «Un grande oratore, però con lo spartito. Non era bravo a improvvisare come Clinton, ma, come Reagan, aveva il copione e anche la battuta pronta. I presidenti ripetono cinque, sei, sette volte al giorno, in paesi e città diverse, sempre le stesse cose, ma quando le diceva Obama acquistavano vita. Aveva lo stesso problema che poi avrebbe avuto Hillary Clinton, quello di non sembrare troppo nero, di dare l’impressione che lui fosse un uomo qualsiasi, un candidato da votare indipendentemente dal colore della pelle, o, come sarebbe stato per Hillary, dal genere. Quindi non era bravo come gli altri, era bravissimo. In rapporto agli avversari, s’intende, perché la politica ha la stessa legge dello sport: non puoi battere qualcuno con nessuno. I suoi avversari erano dei nessuno, quindi ebbe buon gioco».


Hillary? «Due donne in assoluto contrasto tra di loro: c’era la Hillary pubblica, quella dei comizi, completamente rigida, chiusa nella sua bravura, nella sua intelligenza, nella sua preparazione. Straordinaria, però non sapeva comunicare. Poi c’era la Hillary privata, che ho avuto la fortuna di incontrare in alcune occasioni. Mi colpiva moltissimo come rideva. In pubblico aveva una risata da palcoscenico, fredda, artificiale. Quando era in privato rideva come una ragazza, risate spontanee, cristalline, anche un po’ “stupidine”. Sono stato tentato più volte di dirle: “Hillary ma perché non porti ai comizi questa donna? Butta via quell’altra. Parla dei nipoti, della figlia, della tua vita”. Le due Hillary che non si sono mai ricomposte, alla fine hanno creato una tragedia umana grandissima. Una donna che alle 8 di sera dell’8 novembre 2016 era presidente degli Stati Uniti, la prima donna presidente, e tre ore dopo era una donna qualsiasi».


Hillary ha sofferto la modaiola Michelle Obama? «Michelle non l’ha sofferta tanto personalmente, anche se dei rapporti tra le due abbiamo poche tracce, perché erano molto diverse. Hillary non avrebbe mai indossato jeans o zampettato per pomodori e peperoni in cortile. Michelle aveva il grande vantaggio che, essendo donna e non avendo un ruolo istituzionale, poteva non nascondere né la sua femminilità, che era prorompente, né il suo sangue di origine africana. I colori che indossava avevano chiaramente un sapore di Africa. Mentre Hillary con quel tailleur pantalone sembrava un soldatino di piombo. Erano assolutamente incompatibili, ma non credo che Hillary abbia sofferto direttamente il confronto... Il suo confronto era secondo me con il fantasma del marito, di Bill».


Aveva previsto la possibilità che Trump vincesse? «Non posso dire di averlo fatto, anche perché chi potevo essere io contro gli ultimi 158 sondaggi, dei quali 157 davano Hillary come sicura vincitrice? Sarebbe stato un po’ presuntuoso... Però avevo avvertito sia il giornale, sia attraverso twitter e i social network, che esisteva più di una possibilità che Trump ce la facesse. Perché sentivo arrivare il brontolio dal ventre dell’America. E soprattutto la non voglia di eleggere un altro Clinton alla Casa Bianca. In gergo americano si chiama la “Clinton fatigue”, la stanchezza: era pure buono, ma otto piatti di caviale no, datemi un pezzo di pane. Ho visto arrivare non tanto la vittoria di Trump quanto la sconfitta di Hillary».


Che ne pensa della first lady Melania?  «Mi fa un po’ pena, mi sembra una farfalla inchiodata con uno spillo, come in certi musei di storia naturale. Bella, terrorizzata all’idea di invecchiare e lo si vede, perché è una donna che finora ha fatto della bellezza la sua forza. Vive un po’ prigioniera nella Casa Bianca, aggrappata a quel bellissimo bambino, Barron, che riesce a difendere come un’orsa coi cuccioli. Ha tentato qualche sortita in pubblico con delle iniziative, ma tutto molto artificiale. Michelle era notoriamente non contenta di stare alla Casa Bianca, però recitava la sua parte col massimo possibile della felicità. Melania mi sembra una prigioniera del castello: della funzione istituzionale, dell’imbarazzo di essere la prima first lady che parla con un fortissimo accento straniero. E poi vive all’ombra di un mostro, del gigante con la pannocchia in testa, che si mangia tutta la scena, che dice delle cose invereconde, che ha chiaramente un rapporto con le donne non proprio esemplare».


La passione per questo mestiere è nata con la famosa Lettera 22 di suo padre? «Beh sì, anche se nel libro racconto che rimasi completamente sedotto dalla prima visita in tipografia, dall’odore del piombo fuso. Mio padre lavorava credo al Popolo, che era l’edizione milanese del giornale della Democrazia cristiana. I miei fratelli e sorelle non provarono mai il desiderio di fare il giornalista, mentre a me affascinava l’idea da quando vidi mio padre partire per l’Ungheria nel ’56. Ero un bambino, la rivolta di Budapest, i carri armati... Mia madre piangeva, io provavo un’invidia divorante: mio padre va al centro della cosa di cui oggi tutti parlano... Ma ho visto anche l’altra faccia del mestiere di scrivere, cioè l’immensa fatica. Chi dice che fare il giornalista è sempre meglio che lavorare, è perché non l’ha mai fatto davvero». 


Nel libro confessa un “reato”, commesso proprio a Trieste... «Mi vuole mettere in difficoltà perché ci devo tornare… Beh, sono stato affascinato da un meraviglioso accappatoio e l’ho rubato... Lo uso ancora a Washington, di un cotone fantastico, resistentissimo. E me lo sono insaccato in valigia. Una di quelle cose vergognose perché non è che non potessi permettermelo, quindi quando tornerò in quell’albergo (i Duchi, nel libro lo scrive, ndr) cercherò di pagarlo. Voglio saldare questo debito perché ho rubato solo due cose nella mia vita. La prima, un chiodo: una volta stavo piazzando dei quadri in casa e andai dal ferramenta lì a Washington. I chiodi li vendevano dentro delle grandi ceste, ma c’era la fila... io ne presi uno, me lo misi in tasca e uscii. Sono passati sedici anni e quel chiodo mi brucia in tasca da allora. E l’accappatoio, ogni volta che esco dalla doccia a Washington e me lo infilo, mi dà un brivido di colpa che cercherò di saldare tornando a Trieste».


Com’è l’Italia vista dall’America in questo momento? «È come l’Italia vista dall’Italia. Cioè un enigma avvolto in un mistero, si diceva una volta nell’Unione Sovietica. È inquietante per me vedere come questo paese stia tornando furiosamente indietro nel tempo e come si stia di nuovo dividendo in vari paesi, signorie, comuni. Abbiamo due Italie che non si parlano praticamente più e che vivono una vita parallela. E che rischiano soprattutto di staccarsi dall’Europa, l’ipotesi che mi preoccupa di più. È venuta in Italia mia figlia, una signora nei suoi anta, con delle amiche, e hanno deciso di andare a Roma. Ero spaventato un po’ all’idea, non tanto per mia figlia, ma per quelle signore di sobborgo americano col praticello verde, il golden retriver, lo steccato bianco, che arrivano nel merdaio romano… Invece, sono tornate con una cotta da ragazzine, entusiaste, drogate di pastasciutta, cacio e pepe. A volte forse noi siamo più severi nel giudicarci di quanto facciano gli altri. Stare a Roma cinque giorni non è come viverci, però abbiamo ancora una capacità di seduzione, nonostante tutto, che sottovalutiamo
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@boria_a

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