martedì 1 settembre 2020

L'INTERVISTA


Abir Mukherjee: "La Brexit è il nostro populismo, ma l'Inghilterra resta un paese tollerante"






Proprio in questi giorni in Gran Bretagna è scoppiata la polemica sul passato colonialista del paese, con la Bbc accusata di aver cassato i canti patriottici “Rule, Britannia” e “Land of Hope and Glory” dalla notte di chiusura dei “Proms”, grande evento concertistico del 12 settembre 2020 alla Royal Albert Hall di Londra. I giornali filo-conservatori si sono scatenati, accusando la Bbc di resa ai movimenti contro razzismo e schiavismo sulla scia del Black Lives Matter, mentre il premier Boris Johnson ha sentenziato: “È tempo di smetterla di imbarazzarci della nostra storia".

Un lancio di stretta attualità, dunque, per il nuovo romanzo storico dello scrittore anglo-indiano Abir Mukherjee, da giovedì 3 settembre 2020 in libreria con “Fumo e cenere” (Sem). È il terzo tradotto in italiano (mentre in Gran Bretagna è già uscito il quarto) della serie che ha al centro le investigazioni ambientate a Calcutta, al tempo del British Raj, di una strana coppia di detective, il capitano britannico Wyndham, veterano della Grande guerra, e il poliziotto indiano, educato a Cambridge, Surrender-not (semplificazione dell’impronunciabile nome originale, Banerjee).


Il crimine - questa volta una serie di omicidi e mutilazioni - è un pretesto per approfondire un periodo storico, quello dell’impero coloniale inglese in India, da cui l’autore è affascinato e incuriosito e che restituisce al lettore in storie fresche, ritmate e percorse da un inconfondibile humour britannico. In questa terza crime story siamo nel 1921, in una Calcutta dove il movimento non violento di Gandhi dilaga.

Abir Mukherjee (foto Nick Tucker)


Abir Mukherjee, lei ha una doppia identità, come i suoi personaggi, dove caratteristiche, buone e meno buone, dell’una e dell’altra si mescolano. Essere figlio di immigrati indiani l’ha abituata a questo sguardo duplice? «Assolutamente. Quando sei figlio di immigrati, cresci con due culture differenti e questo ti dà una prospettiva diversa sulle cose. Fin da piccolo impari a interrogarti su tutto quello che ti viene detto e che gli altri accettano come un dato di fatto. Vedi la verità e l’ipocrisia da entrambi i lati».


Perchè il periodo coloniale è ancora studiato così poco nelle scuole britanniche? «Credo che ci piaccia sempre vedere il meglio di noi. Il mito britannico è basato su una narrazione piuttosto eroica: costruire un impero, contrastare il fascismo mentre il resto dell’Europa ci soccombe. Nessuno ama affrontare la cruda verità che la propria narrazione nazionale possa essere una bugia. E a differenza di Italia, Germania o anche Francia, la Gran Bretagna non è stata mai costretta a esaminare veramente i torti del suo passato. Parliamo di un paese che non ha subito un’invasione in mille anni, che non ha perso una guerra in oltre cento. Questo favorisce lo sviluppo di una certa mentalità, che non si fa mettere in discussione da fatti esterni. Ma qualcosa sta cambiando. La storia coloniale viene finalmente insegnata, col buono e il cattivo, fino a un certo punto nelle scuole britanniche».


Cos’è rimasto dell’impero in India e in Gran Bretagna?
«Credo che l’eredità dell’impero sia stata più forte in India che in Gran Bretagna. Per almeno cinquant’anni dopo che gli inglesi se ne erano andati, molti indiani hanno continuato a patire un senso di inferiorità, un colonialismo della mente. Solo negli ultimi vent’anni, con la crescita di una generazione senza ricordi dell’impero e con lo sviluppo dell’India come potenza economica, queste catene sono finalmente state spezzate».


Oggi l’Inghilterra vive la delicata fase della Brexit. La società multiculturale nata dopo la guerra è in crisi. C’è nostalgia di una supremazia britannica sul mondo? «Bella domanda. Credo che la Brexit sia la manifestazione “inglese” (non britannica, perchè nè la Scozia nè l’Irlanda del Nord la volevano) del populismo che sta spazzando il mondo. E questo è dovuto al fatto che molta gente è stata lasciata indietro dal capitalismo globale neo-liberale. Sentono di non ricavare niente dalla società dal punto di vista economico e se la prendono con facili capri espiatori, stranieri e immigrati. Ma c’è anche un altro aspetto. Credo che l’Inghilterra sia la più tollerante e integrata grande nazione nel mondo. Il Covid ha ricordato al paese quanto abbiamo bisogno delle nostre minoranze etniche, dei nostri dottori e infermieri indiani, caraibici, africani. Al tempo stesso, dopo il Primo ministro, le due più importanti cariche governative, quelle di Cancelliere dello scacchiere e di segretario di Stato per gli Affari interni, sono ricoperte da inglesi che, come me, hanno radici indiane. Il cancelliere, Rishi Sunak, è probabilmente il politico più popolare nel governo in questo momento, e il segretario di Stato, Priti Patel, sembra essere più ostile agli immigranti di molti di quelli che hanno avuto il suo stesso incarico. Posso essere in disaccordo con le loro politiche, ma sono fiero di un paese dove perfino il partito conservatore di destra ha minoranze etniche in ruoli così alti dello stato. L’Inghilterra non è perfetta, tutt’altro, ma penso che sia un paese molto più tollerante rispetto alla maggioranza degli altri. Non credo invece ci sia nostalgia per una supremazia britannica. Pochi ricordano l’impero. Il nazionalismo che vediamo oggi deriva dalla paura. La gente vuole solo più controllo sulla sua vita. Credono nello slogan “Riprendere il controllo”. Il problema è che sono parole vuote».


L’India è un gigante economico che ha ancora terribili sacche di povertà e oggi ha a che fare anche con l’assalto del nazionalismo. Che cosa ne pensa? «Non soltanto sacche di povertà, ma anche enormi disparità di ricchezza tra ricchi e poveri. Il Covid sta mettendo il paese a dura prova e sono i poveri a pagare il prezzo più alto. È vero, nazionalismo e populismo stanno crescendo, come in molte altre parti nel mondo. In India, hanno le sembianze del fondamentalismo indù. Questo mi preoccupa molto. L’India sembra tradire i principi di secolarismo e tolleranza ispirati da Gandhi, su cui si è fondato il paese. Ma spero che questa ondata di intolleranza finisca. L’India è una democrazia e la stragrande maggioranza della popolazione è giusta, tollerante, buona. Voglio sperare che, sul lungo periodo, sia questa a trionfare sulla mentalità ristretta di populisti e nazionalisti».


Perchè Wyndham e Surrender-not piacciono tanto ai lettori? «Onestamente non lo so. Forse ha qualcosa a che fare con il fatto che nessuno dei due è perfetto. In realtà entrambi sembrano due persone oneste, perse in un mondo che fanno fatica a capire. Hanno bisogno l’uno dell’altro per venirne a capo».





Nel libro lei parla di esperimenti con gas tossici condotti dagli inglesi nel British Raj. Quali sono le sue fonti storiche? «C’è una documentazione storica molto scarsa su questi test (che vennero effettuati negli anni Trenta), ma la mia ricerca si basa su rapporti scoperti da giornalisti, in particolare Rob Evans, che scrive per il Guardian».


La storia si svolge nel 1921, l’anno in cui Gandhi incitava alla resistenza non violenta e il Principe di Galles, Edward, era mandato in visita ufficiale in India. Una coincidenza cruciale... «Non una concidenza, una tattica, ancor oggi molto praticata dalla diplomazia britannica. Mandare membri della famiglia reale in viaggi all’estero è una parte importante del soft power britannico. Il tour in India del Principe di Galles era considerato un mezzo per rafforzare il patriottismo e i sentimenti di calore in ogni parte dell’impero. Inoltre il governo voleva allontanarlo dalla sua amante di allora e pensava che con un viaggio in India avrebbe preso due piccioni con una fava. Ma Edward odiava gli indiani, che lo accolsero con sommosse a Bombay. Passò buona parte del viaggio cacciando e sparando in lungo e in largo per il Paese, arrivando a Calcutta in giorno di Natale».


L’impero britannico in India termina nel 1947. Quanto dureranno le investigazioni dei suoi personaggi? «Speriamo che siano ancora in giro al momento dell’indipendenza, ma questo significa vent’anni ancora di libri. Mi auguro di vivere abbastanza a lungo per scriverli tutti. Ma la storia che davvero voglio raccontare è quella della carestia in Bengala del 1943. Nello stesso anno in cui tre milioni di ebrei venivano uccisi col gas in Europa, tre milioni di indiani morivano per una carestia indotta dall’uomo, per la quale Winston Churchill ha una grande responsabilità morale. La carestia avrebbe potuto essere evitata, ma Churchill non riteneva che le vite degli indiani valessero quanto quelle dei bianchi. Questa carestia è stata cancellata dalla storia britannica e io vorrei ricordarla alla gente».




Ci dia un’anticipazione: Wyndham si libererà dalla dipendenza all’oppio? «Per questo bisogna leggere il quarto libro...».


Ed entrambi, Wyndham e Surrender-not, troveranno l’amore? «Nessuno dei due è particolarmente bravo con le donne. Wyndham è troppo rigido e inglese, e Surrender-not è un'imbranato quando si tratta del sesso opposto, che se ne accorge subito. Forse se fossero italiani le cose andrebbero diversamente. Non lo so se troveranno l’amore, ma non vedo l’ora di scoprirlo».

@boria_a

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