martedì 29 gennaio 2019

LA MOSTRA E IL LIBRO

 Roberto Capucci e Massimo Gardone, alchiminia nel segno dei fiori




Roberto Capucci e Massimo Gardone fotografati da Giuliano Koren



Colori, forme, matite, obiettivi (fotografici). Gli abiti di Roberto Capucci e le immagini di Massimo Gardone si incrociano e intercettano in ognuna di queste parole. Da una scultura tessile del grande couturier romano sembra uscire un fiore stilizzato del fotografo, che a Trieste ha il suo Studio Azimut, come se l’uno fosse la prosecuzione dell’altro e tra l’uno e l’altro non ci fosse interruzione, solo diversità di materiali. La mostra “L’atelier dei fiori”, fino al 14 febbraio visitabile ai Musei di Borgo Castello a Gorizia, celebra questa inedita alchimia nel segno dell’astrazione. Perchè gli abiti di Capucci sembrano sculture e le foto di Gardone creature animate: entrambi, quindi, lasciano il mondo floreale, cui si ispirano e che riproducono, per diventare potente e libera espressione di creatività, sempre però sorvegliatissima nel processo di realizzazione.


L'abito di Capucci che ha sfilato alla Galleria d'arte moderna di Roma nel 1989 e, sullo sfondo, l'escolzia interpretata da Gardone


Dalla contaminazione dei linguaggi del sarto e del fotografo sono nati l’esposizione goriziana (che ha avuto un primo assaggio, nel marzo scorso, a Villa Manin, dov’è conservato l’imponente archivio Capucci, con oltre cinquecento “creazioni” tessili e migliaia e migliaia di foto e documenti) e ora il catalogo curato da Raffaella Sgubin (Antiga Edizioni), arricchito dalle schede degli abiti di Enrico Minio Capucci e dalle schede botaniche di Matteo La Civita, su progetto grafico di Francesco Messina. Il catalogo verrà presentato giovedì 31 gennaio, alle 17, al Magazzino delle Idee di Trieste, alla presenza dei due protagonisti di questo speciale e poetico “atelier”.



L'abito Capucci per Valentina Cortese e il ranuncolo fotografato da Gardone


Nel volume, una lunga intervista a Capucci firmata dalla stessa Sgubin - che curò un grandioso allestimento di 110 abiti del maestro, nel 2004, a Palazzo Attems di Gorizia - racconta il rapporto dello stilista con i fiori, da cui vive letteralmente circondato nel suo appartamento con giardino pensile, proteso sul cuore monumentale di Roma. Fiori di ogni specie e colore, che, mediati dall’ispirazione, si trasferiscono e materializzano nei taffetà, mai citati pedissequamente, ma suggeriti dal gioco dei volumi.


Succede come per magia nell’abito “Bocciolo di rosa”, creato da un Capucci ventiseienne nel 1956 per presentarlo alla Sala Bianca di Palazzo Pitti a Firenze, accostato a una rosa di Gardone, i cui petali sembrano nati apposta per riprendere le sovrapposizioni del tessuto. O nell’abito da sera dell’82, un lungo stelo di velluto di viscosa color prugna interrotto da un’infiorescenza di petali di taffetà cangianti, che si sposa col fiore della pianta grassa dai colori cupi di Gardone. O ancora nell’abito dell’87 disegnato da Capucci per l’amica Valentina Cortese, in faille di seta, le cui sfumature rosate dilagano in quelle del ranuncolo, che il fotografo schiude in primo piano davanti agli occhi dello spettatore.



Il cinabro, presentato alla Biennale di Venezia nel 1995, con il papavero


E si potrebbe continuare, in un gioco di affinità elettive, di “osmosi involontarie”, lungo tutto il percorso della mostra, e del libro, punteggiato da venticinque fiori tessili e da venti fiori cartacei. Dice Gardone a Carla Cerutti, che firma un altro dei contributi del catalogo: «È stato tutto naturalissimo e in poche ore abbiamo trovato i perfetti abbinamenti tra i soggetti dei nostri rispettivi lavori. Le similitudini, me ne rendo conto, sono così incredibili che è difficile pensare che non siano stati creati ad hoc, ma che fossero impronte che entrambi avevamo lasciato durante il nostro cammino professionale».



"Primavera", abito di Capucci del 1989, abbinato alla camomilla di Gardone


Così, accanto alle imperiali e molto materiche creature floreali di Capucci, i fiori di Gardone - fotografo dal cuore artistico, che cominciò con le immagini della danza, “seguendo” un’ispirazione genetica trasmessagli dai genitori ballerini, che suona e ama la Polaroid dei suoi primi album di bambino - sembrano ideali compagni di un viaggio, figure eteree e sfumate in un percorso di sensazioni ed emozioni. Sintesi di questo incontro gli abiti fluorescenti del 1956, abbinati agli ellebori. I ricami realizzati con le perline dei rosari si illuminano al buio, in un’esplosione di verde cui fa da quinta la foglia, vera protagonista: una sorpresa, come l’incontro di due sensibilità affini. 

@boria_a

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