sabato 18 aprile 2020

L'INTERVISTA

Gianfanco Calligarich e Vittorio Bottego
"Una statua, un'amica, Roma di notte
così ho incontrato l'esploratore..."


Lo scrittore triestino Gianfranco Calligarich
 



“Meglio la guerra, meglio i bombardamenti”. Nel piccolo appartamento romano, che definisce la sua tana e la sua fortezza, Gianfranco Calligarich, scrittore e sceneggiatore triestino nato ad Asmara, si gode il nuovo successo del suo libro del 1973, “L’ultima estate in città”, che folgorò Natalia Ginzburg dopo una notte di lettura senza sosta e vinse quell’anno il Premio Inedito.

Pubblicato da Garzanti, riscoperto da Aragno e poi da Bompiani nel 2016, oggi vive una seconda giovinezza con l’edizione in audiolibro, letto dallo stesso autore. “Meglio la guerra, certo”, dice Calligarich. Quella, almeno, la vedevi e potevi cercare scampo e conforto in una cantina o tra le braccia del tuo prossimo. Non è più così. Il solo conforto che al momento puoi trovare è in una forzata solitudine, che ti chiude in casa a guardare la televisione, sperando di non entrare a far parte del numero dei contagiati e dei morti. Non granché, come prospettiva, ma è così”.
 
Anche il virus è una guerra... "Durante la seconda guerra mondiale, tornati dall’Africa, con la mia famiglia, mia madre e i miei fratelli di tredici e dieci anni, abitavamo a Milano, al quinto piano di un vecchio palazzo senza ascensore davanti al parco Sempione. Aspettavamo che la guerra finisse e che mio padre tornasse a casa. Era prigioniero degli inglesi in una zona del deserto egiziano chiamata dei laghi amari, per le immense pozze che trasudavano dalla sabbia, data la vicinanza del mare di Suez. Quando suonavano le sirene dei bombardamenti tutti gli abitanti del palazzo, che era come una grande famiglia suddivisa in piani, si rifugiavano nelle cantine. I vecchi con i vecchi, le donne con le donne, molte con i figli piccoli in braccio, senza per questo rinunciare ad abbracciarsi, a stringersi. Erano momenti terrorizzanti, ma c’era una grande solidarietà umana, perchè il pericolo si vedeva: le bombe che cadevano dal cielo. Col coronavirus è esattamente il contrario. Se la guerra univa, il virus divide. E al tuo prossimo non puoi nenanche dargli la mano perchè la stretta potrebbe, silenziosamente, uccidervi. Il massimo che puoi fare, quando nelle strade deserte incroci qualcuno che conosci, è dirgli buongiorno da dietro una mascherina. E lui, il tuo prossimo, ti risponderà buongiorno nello stesso modo, anche lui dietro una mascherina, per poi affrettare il passo lasciandoti soltanto la vista della sua schiena. Per questo dico: meglio la guerra".

Intanto: Callìgarich o Calligàrich? "L’accento sul mio cognome ha una storia antica. Mio nonno, vecchio asburgico, chiamava noi nipoti ragazzini alla sua poltrona per chiederci come ci chiamassimo. Noi che sapevamo cosa voleva rispondevamo sempre Callìgarich a differenza dei nostri padri che, ormai italianizzati, avevano scelto Calligàrich. Poi, crescendo, e nella usuale contestazione dei padri, abbiamo tutti scelto di schierarci col nonno". 



Che effetto le ha fatto prestare la sua voce a “L’ultima estate in città”? "Un effetto strano. È stato come entrarci dentro da visitatore non pagante.
Da clandestino, da spia... E con la sensazione che i personaggi da un momento all’altro volessero arrestarmi". 

Mezzo secolo dopo, questo romanzo piace ancora. Lo definiscono un “cult”: che cosa vuol dire? "Non lo so. Quello che so è che in tutti questi anni ogni tanto qualcuno mi scriveva, o mi telefonava, o compariva su Facebook dicendo che lo aveva trovato, letto e che era stato colpito al cuore. Negli anni si erano formati anche dei gruppi di lettura e in alcuni casi con gente che parlava usando certe frasi del libro, come “alzare le vele” per dire andare via, o “sfinocchiato” per dire che qualcuno non si sentiva bene, o “da Sant’uffizio” quando subiva qualche duro castigo. È una storia che riguarda la malinconia che può avere la giovinezza, credo tutto sia dipeso da questo". 





Lei ha pronto un nuovo libro, che in qualche modo la riporta alla terra dove è nato, l’Eritrea…  "Il libro si chiama “Una Vita all’Estremo” ed è la storia di Vittorio Bottego, esploratore in Africa della fine dell’Ottocento e della sua feroce smania di vivere. Smania che lo avrebbe distrutto e, insieme a lui, avrebbe distrutto le vite di tutti quelli che lo hanno incontrato. È un libro di avventura ma anche sostanzialmente esistenziale. Come gli altri miei: perché cos’altro vuoi raccontare se non della vita?".


Com’è incappato in questo esploratore morto giovanissimo? "Nel modo migliore in cui potevo incapparci. Vale a dire accompagnando tutte le notti a casa una amica con cui, diciamo, andavo al cinema. Abitava in una lunga e quasi periferica strada romana dietro la quale c’era una piazzetta dove sostavamo piuttosto a lungo per darci la buonanotte e vagamente infastiditi dalla presenza di un monumento di bronzo con un militare che puntava il fucile verso la notte. Era una terza presenza che in qualche modo ci disturbava, per cui una notte sono andato a leggere il suo nome alla base del monumento. Vittorio Bottego. Nome che non mi diceva niente, così il giorno dopo ho cominciato a fare delle ricerche sul web finchè ho scoperto che era un avventuroso esploratore africano. Allora ho comprato una sua biografia scoprendo che era un personaggio straordinario a tal punto che ci ho scritto un libro". 



 
Vittorio Bottego (1860-1897)




Immaginiamo una lettera da aggiungere alla sua raccolta di racconti Posta prioritaria. Una lettera sulla quarantena. Chi la firmerebbe? "Ho solo un nome da fare, Albert Camus che ha scritto La Peste. Ma non sarebbe necessario resuscitarlo, basta leggere i giornali di questi giorni".


E una persona comune scriverebbe..."Sulla mascherina. La lettera di una ragazza che vuole rompere col fidanzato perché lui pretende di baciarla senza togliersela".


Che cosa le manca di più in queste giornale di clausura forzata? "Diverse cose. Gli amici con cui vedere le partite (che non ci sono più), gli amici chiusi in casa anche loro davanti alla televisione a misurare l’immane disastro in cui siamo precipitati, ma che l’uomo ha sciaguratamente voluto. E poi le passeggiate notturne lungo il Tevere (che scorre, gira per la città e nessuno può fermarlo e multarlo), la colazione al bar la mattina con il caffè e la lettura dei giornali (che comunque col corona virus è meglio non leggerli) ". 


La consola che cosa? "Gli animali che lasciano le loro tane liberi di andarsene dove vogliono a cercare da mangiare. I cervi che escono sui campi da golf deserti, i cinghiali che percorrono le strade libere dei gas delle auto. C’è solo una domanda da farsi, gli uomini stanno finalmente comprendendo di avere distrutto il pianeta? Qualcosa mi dice di no".


Secondo lei, quando torneremo alla normalità, riusciremo a vivere più lentamente? "Non so se saremo così saggi da apprezzare la lentezza, ma forse il mondo lo sarà per forza indipendentemente dall’uomo e da tutti i suoi sciagurati tentativi di distruggerlo".

 C’è un libro che rilegge in queste giornate e perché?  "Sto leggendo per l'ennesima volta i 49 Racconti di Hemingway. Che sono inarrivabili. Le cose più straordinarie che ha scritto".

E invece la prossima storia che ha in mente? "Quella di un vecchio uomo che di notte scende nella bellissima strada romana dove abita per portare a spasso i suoi due cani e intanto ripensa a tutta la sua vita. Infatti si chiamerà Passeggiata con i Cani".
 

Ha paura? "Stando chiuso in casa? Vivo da solo in un seminterrato di quaranta metri quadrati tutti occupati da libri e quadri di amici pittori e con due grandi finestre sul bellissimo giardino condominiale di un bellissimo palazzo anni Trenta. Scrivo, e questo in qualche misura mi aiuta a pensare anche ad altro. Scrivere è pur sempre il miglior rifugio che ho a disposizione".

Lei vive da tanti anni a Roma. Come vede Trieste da lontano? "Più che vederla la sento. Sento, le sue voci nei bar all’aperto, sento il rumore del mare che a Trieste è nascosto ma ti racconta vecchie e stupende storie austrungariche come quelle di Roth. Però anche la vedo. Vedo il monumento di Saba sul marciapiede, vedo i vecchi caffè dove andava mio nonno e che ho messo all’inizio de La Malinconia dei Crusich che è la storia della mia famiglia lunga tutto il Novecento, vedo…"
twitter@boria_a

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