mercoledì 15 maggio 2019

IL LIBRO

Roberta De Falco e i misteri tra Trieste e Grado: debutta Elettra Morin


Il commissario Ettore Benussi della Mobile di Trieste d’ora in poi potrà godersi in pace tutte le sue amate grappe Nonino. La scrittrice Roberta De Falco, dopo quattro indagini firmate per l’editore Sperling&Kupfer, l’ha pensionato suo malgrado, con tanto di festa di quiescenza organizzatagli dalla moglie Carla. Filone esaurito? Nient’affatto, soprattutto se l’autrice è anche una sceneggiatrice che conosce bene i meccanismi della serialità. Come in uno spin off televisivo, quando il comprimario di una serie diventa il protagonista di un’altra, l’ispettrice Elettra Morin, che i lettori hanno già imparato a conoscere come giovane e volitiva collaboratrice di Benussi, viene promossa a capo della mobile di Monfalcone. È lei infatti la protagonista di “Sangue del mio sangue”, il nuovo giallo di De Falco - pseudonimo di Roberta Mazzoni, milanese, una lunga esperienza professionale romana nel mondo del cinema, triestina d’affezione e frequentazione - che esce giovedì 16 maggio 2019 con l’editore Piemme (euro 17,90, pagg. 
279).



La location dell’indagine abbraccia tutto il golfo, da Trieste si allunga verso Monfalcone, poi Grado e la sua laguna, con qualche rimpatriata nel capoluogo per tartine e aperitivo in una celebre stuzzicheria di pesce di Cavana. Non sarà un esordio facile per Elettra - figuretta androgina, jeans sdruciti, berretto di lana e giacca marinara, che l’autrice ha detto in passato di aver modellato “esteticamente” su quella di Susanna Tamaro, sua amica da trent’anni - subito catapultata nei segreti di una famiglia allargata, dove un colto e invalido anziano collezionista d’arte, Alvise Donda, ormai allettato nell’aristocratica villa con barchesse a San Pier d’Isonzo, assisterà alla consunzione della sua progenie, naturale e adottiva, tra delitti, droga, tradimenti e gelosie mortali.


Tutto comincia con un cadavere carbonizzato, rinvenuto in un’auto che è andata a sbattere contro un cancello a Punta Sdobba. Il diamante all’orecchio della morta fa risalire a tale Terry Kupnick, inquieta fidanzata di Federico, il rampollo Donda che si occupa principalmente di saccheggiare le opere d’arte del padre. A poche centinaia di metri viene fermato un uomo nudo e ferito, che scappa da una vettura mezza sfasciata: è il marocchino Ahmed Choukri, figlio della governante di casa Donda, Nabila, cresciuto nella villa e prediletto dall’anziano capofamiglia come fosse, appunto, sangue del suo sangue. Possibile che sia lui il colpevole? Federico lo odia, perchè lo considera responsabile della morte del fratello gemello Raffaello, stroncato da un’overdose di eroina appena rientrato da San Patrignano.


I legami familiari sono al centro della trama, riaffiorano dal passato, si accampano nel presente e tengono in ostaggio le menti più fragili. Anche Elettra sarà messa alla prova dall’incontro col padre naturale, che non ha mai visto ma di cui riconosce su di sè i tratti somatici, le mani, certe derive caratteriali. Fisicamente sembra ripugnarla (al contrario di sua madre Laura, che vuol riacciuffare un altro pezzo di passato...) e questo sentimento, innaturale e incontrollabile, la destabilizza, come i comportamenti del genitore, una sfida sul suo stesso terreno, quello della legalità.


Nella famiglia Donda i rapporti sono impastati di segreti, primo fra tutti quello sulla morte di Raffaello, “Lello”, che lega sinistramente Federico e Ahmed in un reciproco patto di silenzio. Il vecchio Alvise non ha mai nascosto la sua predilezione per il giovane marocchino, allontanando da sè il figlio vero, geloso e inaridito. In questo viluppo di relazioni entra anche il giovane Fabio Visentin, tuttofare della famiglia e nipote della tata dei gemelli, che sembra il debole e manovrabile anello di congiunzione tra tutti i personaggi, a sua volta cresciuto nella gabbia dorata della villa. L’aristocratica dimora si è trasformata negli anni in un incubatore di risentimento e anaffettività e l’unica a registrarlo con lucidità sembra essere Nabila, che ne scrive al padre in Marocco.



Roberta De Falco


La soluzione del mistero non poteva che uscire sul Piccolo. In un “fake” articolo, De Falco mette tutte le pedine al loro posto. In fondo, l’intreccio non è troppo ingarbugliato e i molti indizi disseminati lungo la trama portano il lettore a sospettare un cortocircuito affettivo, che ha armato la mano del più fragile.
Più che delitto e colpevole, però, alla scrittrice interessa, ancora una volta, gettare uno sguardo sul presente, sfruttando il popolarissimo genere della crime story per parlarci delle famiglie di oggi. Microcellule in cui confliggono vecchiaia e malattia, genitorialità smagliate e nuovi innesti, necessari per l’accudimento ma spesso vissuti come insidiose intromissioni. Equilibri precari, specchio dei tempi, dove il problema vero non è l’integrazione ma la solitudine, le solitudini. 

@boria_a

Nessun commento:

Posta un commento