sabato 12 dicembre 2020

L'INEDITO

 

I segreti di Umberto Saba: un figlio naturale

e due commesse che si avvelenarono per lui 




5 marzo 1955, Umberto Saba scrive al suo medico, Umberto Levi, primario nella clinica San Giusto di Gorizia. È la lettera numero tredici del piccolo carteggio tra il poeta e il dottore. Una confessione, finora inedita e dal contenuto scioccante, perchè conferma illazioni già da tempo in circolazione su un oscuro e terribile privato di Saba: l’esistenza di un figlio, Sergio, mai riconosciuto e il suicidio di due sorelle, Margherita e Malvina, entrambe commesse della libreria, che si avvelenarono a breve distanza l’una dall’altra il 19 aprile e il 20 giugno 1922.


Quello che scrive al dottor Levi è un Saba minato nel fisico, bisognoso di continue dosi di morfina, querulo e annebbiato, ma sempre sottilmente manipolatore (glielo imputava lo stesso Bazlen, quando di lui diceva: “ha fatto della sua malattia il suo monumento ed anche un terribile meccanismo per creare negli altri dipendenza affettiva e amorosa”). Scrive dunque Saba a Levi: «Sono tremendamente solo anche perchè ho preteso questa condizione. Non ho mai voluto che qualcuno potesse prendersi cura di me perchè mi sarei sentito offeso e in colpa. Dapprima verso mia figlia che non ha la tempra mentale per curarmi e sollevarmi... Avrei voluto che a prendersi cura di me ci fosse un figlio più forte; lo avrei avuto se non l’avessi respinto. Ma come potevo, stretto dall’odiato-amato amore di due donne, presentare un figlio? Per giunta sano e di un’altra donna? Lina ne sarebbe morta».


La scottante lettera numero 13 fa parte del Fondo Umberto Levi, oggi custodito nella Biblioteca Statale Isontina di Gorizia, dopo l’acquisizione da una famiglia di Cormons imparentata con Giustina Venezian, moglie di Levi. È stata una scelta precisa del bibliofilo Simone Volpato e di Mario Menato, direttore della Biblioteca, quella di non divulgare la missiva incriminata separatamente dall’intero carteggio, perchè avrebbe calamitato l’attenzione morbosa dei lettori, eclissando gli altri passaggi importanti della corrispondenza. La lettera viene ora pubblicata integralmente in “Immondi librai antiquari. Saba libraio, lettore e paziente di Umberto Levi” (Biblion Edizioni, pagg. 370, 25 euro) dal 12 dicembre in libreria, un corposo saggio dei due ricercatori che fa luce anche sulla varietà e consistenza della biblioteca dell’autore del “Canzoniere”, una dimensione coesistente, negli stessi spazi “fisici”, con l’attività di libraio antiquario.

 


 

 

Le lettere raccontano anche dei rapporti di Saba con Gobetti, mentre un altro gustoso inedito è la missiva indirizzata ad Anita Pittoni e scritta dopo il ’52, in cui Saba, dopo averle detto piuttosto seccamente che il fatto di annoverarlo tra gli autori dello Zibaldone non la autorizza a pretendere una pubblicità militante della casa editrice, le suggerisce la pubblicazione de “I pianti” in friulano di Pasolini (“ragazzo ... che sembra si sia formato in un’arcadia letteraria barbarica priva di modelli, che sperimenti una voce arcaica, quasi barbara, che non me lo fa dispiacere...”). 


Completa il saggio una lunga nota di Antonio Della Rocca sulle famiglie Levi e Venezian. A parlare del figlio naturale di Saba, Sergio, fu per la prima volta Stelio Mattioni, nella sua biografia pubblicata da Camunia nell’89. Era il 1959 - e lo riporta il Piccolo nel 2016 - quando una donna di mezza età andò a trovare Mattioni nel suo ufficio alla sede triestina della raffineria Total, rispondendo all’appello che lo stesso scrittore aveva fatto pubblicare sul Piccolo per la ricerca, dietro compenso, di lettere, appunti, ricordi personali del poeta in vista dell’opera biografica a cui stava lavorando. La donna aveva con sè una ventina di lettere, che sosteneva autentiche, in cui si svelava tutta la storia di Sergio, figlio mai riconosciuto del poeta. Per lasciarle a Mattioni, però, chiedeva l’assunzione del ragazzo nella raffineria. Nonostante Mattioni si schermisse, non potendo promettere alcun impiego, la donna gli regalò una missiva per stuzzicare la sua attenzione, datata 2 luglio 1929, e indirizzata da Saba a una sua commessa nella libreria antiquaria, Erna Poleselli. La latrice delle lettere lasciò un recapito, ma quando Mattioni tentò di rintracciarla, la misteriosa Erna, ovvero Ernesta, aveva cambiato casa.


La lettera n. 13 prosegue ed entra nella parte più spinosa della confessione al medico Levi, pregandolo di non farne parola con altri: «Ma in quella libreria ho sempre convissuto con il senso di colpa di aver spinto a morire due giovani ragazze di cui amai con fervore la loro giovane carne; due sorelle che, per la vergogna di tale sentimento e per aver sottratto dei libri decisero di uccidersi. E per me che ebbi tanta parte in questa loro decisione, giocando sulla loro giovinezza, fu una continua fonte di ansia e di dolore convivere con la loro morte. La libreria fu il luogo della mia morte e ciò è la pena».

 
Di Margherita e Malvina Frankel, 23 e 21 anni, figlie di Elena Fano, una cugina della moglie di Saba, aveva già parlato Roberto Curci nel suo libro “Via San Nicolò 30. Traditori e traditi nella Trieste nazista” (Il Mulino). Saba insidiava le sorelle nella libreria. Lo stesso Mattioni ricorda come l’appetito sessuale sempre acceso del poeta fosse stato trasfigurato nei versi per “Chiaretta” e “Paolina”, dove palpita la felicità dell’uomo maturo che ruba un bacio, tocca il seno, seduce due giovani donne. Perchè si avvelenarono Margherita e Malvina? Per la vergogna di aver ceduto alle attenzioni di Saba? O forse per il legame di parentela che le univa a Lina e rendeva impossibile rivelarle le attenzioni del marito?


Il poeta non le aveva dimenticate, a distanza di anni le sorelle suicide pesavano sulla sua coscienza. A Malvina aveva dedicato una delle liriche di “Fanciulle” del 1925, di Margherita parlava in una lettera ad Aldo Fortuna: «La mia signorina si è uccisa, due giorni dopo il mio ritorno a Trieste. Era una ragazza ben singolare, ch’io ebbi il torto di nemmeno vedere fin ch’era viva, ma il modo come s’è ucciso m’ha fatto accorto d’aver avuto accanto per sei mesi una creatura che avrei dovuto ammirare e curare».

 
La lettera n. 13 va al di là delle congetture. Certo, il Saba che scrive a Levi non è lucido, ma mai c’era stata un’ammissione così esplicita della sua responsabilità nel suicidio delle ragazze, avvenuto in quella libreria che è una sorta di scena del crimine degli “abusi” sessuali. Confessione piena? Affatto. Anche questa volta si infila tra le righe la manipolazione: ha amato sì “la giovane carne” delle Frankel, ma loro potrebbero anche essersi avvelenate “per aver sottratto dei libri”. Il poeta voleva alleggerire il suo ruolo? Insinuava il dubbio sulla probità delle commesse? La stessa chiusa fa dubitare: Saba prega il dottore di ricordarlo “come una buona persona che spesso cadeva nel gusto di far male”, non come poeta, perchè, aggiunge, “non lo sono mai stato”. Un congedo del tutto in contraddizione con altre lettere a Levi, già pubblicate da Zovatto nel 1986, in cui Saba rivendica fieramente la sua arte.


Ugualmente drammatica è l’altra lettera inedita presentata nel volume di Volpato e Menato. Non c’è data nella missiva. «Dobbiamo fare un patto, segreto», esordisce Saba rivolto al medico. «Ad ogni mia richiesta di morfina lei dovrà rispondere positivamente ed io le sarò grato e la ricompenserò diventando un paziente diligente. In più, per sdebitarmi le regalerò alcuni libri». È un tentativo di corruzione destinato a rimanere vano. Saba lo sa bene, anche se cerca di allettare il “buon amico dottore” con i preziosi volumi, “tutti esemplari assai costosi”, sottratti dalla sua libreria, sotto il naso di Carletto: Nievo, Leopardi, un Petrarca, anche un certo Pascoli, non quello sdolcinato dell’aquilone e dell’assiuolo, a cui si riteneva assolutamente superiore. 


E prosegue, pregando il medico di tagliare i tempi e fornirgli i medicinali, con un’insistenza che si avverte sottotraccia: «Avrò bisogno di vederla per tediarla con tutti i miei problemi mentali che si presentano con malanni fisici insopportabili; lei mi ascolterà per breve tempo e poi sarà perentorio nella cura (perchè non accelerare l’evento in modo tale da risparmiarci una dolorosa commedia?»).
La lettera deve rimanere segreta, conclude il poeta, ringraziando Levi per la sua “pazienza sterminata” e definendosi “intransigente e del tutto irrecuperabile”.
Poi un guizzo, tenta la carta dell’ironia: «Le mancherò, sono certo, un giorno!», chiude la missiva.

Nessun commento:

Posta un commento