venerdì 27 febbraio 2015

IL LIBRO

Marino Niola, metti un vegano e un paleo-dietista a tavola... 



Vegani contro ortoressici, cultori della paleo-dieta versus seguaci della dieta del gruppo sanguigno, fanatici del crudo opposti ai puristi del cereale. Sushisti, vegetariani, popolo del gluten-free, paladini del no-carb. Anche a tavola si combatte una battaglia di opposti estremismi, ciascuno in nome del proprio credo alimentare, alla ricerca della formula magica se non per l’immortalità, almeno per la longevità.
Perchè il cibo è diventato una religione globale? Perchè intorno alla tavola si consumano contrapposizioni, scismi ed eresie, si formano sette e si lanciano anatemi? Quand’è, insomma, che siamo entrati nell’era dell’«homo dieteticus»? L’antropologo Marino Niola ha deciso di fare una ricerca sul campo, alla scoperta di tribù contemporanee più a portata di mano, ma esotiche e affascinanti almeno quanto quelle relegate ai confini del mondo: le tribù alimentari. E nel suo ultimo libro, per l’appunto “Homo Dieteticus” (Il Mulino, pagg. 145, euro 13,00), ci conduce in un viaggio colto e leggero alla scoperta delle loro passioni e ossessioni, quelle che spesso stravolgono sane abitudini in imperativi categorici, cancellando ogni piacere di convivialità e scambio. E che ci fanno vivere da malati, per morire sani. O almeno, magri.

L'antropologo Marino Niola
Capovolgendo Feuerbach, diciamo pure che oggi, in una società in cui il grande nemico non è più la fame ma l’abbondanza, noi «siamo quello che non mangiamo». La dietetica è diventata diet-etica, pratica fisica ma soprattutto morale, una religione senza Dio fatta di privazioni spontanee, penitenze laiche, rinunce autoinflitte, allo scopo di trovare la pace con se stessi, depurando il corpo da qualsiasi insidioso elemento possa attentare alla sua perfezione interna ed esterna. D’altro canto ogni religione, ci spiega Niola, dalla creazione di Adamo ed Eva fino alle cosmogonie primitive, inizia dalla plasmazione del corpo. Solo che ora siamo noi stessi, ogni giorno, a “plasmarci”, a “modellarci” e a sottoporci al giudizio non di un dio misericordioso o di un qualche santo con la bilancia della giustizia, ma a quello inappellabile di un’altra bilancia.
Se il regime alimentare è una fede, non c’è da meravigliarsi che si assista spesso a processi di “evangelizzazione” militante. E che si tenda a guardare con diffidenza, quando non con sincera disistima, chi segue altre regole o non ne ha nessuna. Potreste mai immaginare a una stessa tavola un seguace della “paleodieta” e un vegano? Ovvero un mangiatore di cacciagione e un vegetariano scismatico, l’ala integralista, che epura della sua mensa anche latte, uova, miele, tutti alimenti che considera ottenuti forzando le normali funzioni biologiche degli animali?
Intanto, facciamo chiarezza. Chi professa la “stone age diet”, la dieta dell’età della pietra, segue gli studi dell’etnologo Vilhjalmur Stefansson, esploratore dell’Alaska e grande esperto di cultura eschimese, secondo cui gli animali cacciati e pescati, insieme a bacche, radici e a qualche vegetale spontaneo, possono garantirci una lunga vita. L’alimentazione giurassica aborre tutti i regimi che contemplano cereali e carboidrati, dieta mediterranea in testa, incurante del fatto che quest’ultima sia riconosciuta dalla medicina ufficiale come uno dei sistemi nutrizionali più adatti a prevenire le malattie cardio-cerebrovascolari.
La carne è al centro della "paleo-dieta" (foto da www.ideegreen.it)
Tra paleo-mangiatori e vegani - talebanismo a parte - c’è però un punto di contatto: l’idea rassicurante di trovare un’armonia originaria. Il veganismo nasce nel 1944, suo malgrado da una “costola” della Vegetarian Society di Londra, capitanato dai vegetariani scissionisti Donald Watson ed Elsie Schringley, secondo cui lo stile di vita ideale è quello che non procura alcun danno agli animali. Non si tratta dunque solo di evitare cocktail di gamberetti, hamburger e frittate, ma di non portare scarpe di pelle (per le borse di coccodrillo non c’è proprio partita...), maglioncini di mohair o di cachmere, di non visitare zoo e acquari, templi della “cattività”, di boicottare l’equitazione e il circo. Gli adepti nel mondo sono in crescita, al punto che in America l’industria alimentare, attentissima al business, ha inondato i supermercati di “vegan junk food”, cibo spazzatura non violento, che è una sorta di transizione morbida verso la mensa veg, mentre il giornalista Mark Bittman ha lanciato il “vegan before six”: ortodossi fino alle sei, poi liberi di ingurgitare a piacimento, anche per non isolarsi troppo dagli amici onnivori. Perchè il rischio di ossessionarsi è concreto, e può limitare molto la vita sociale, a tavola ma pure a letto: i vegansexuals, infatti, rifiutano relazioni carnali con partner carnivori per non essere contaminati.
A proposito di ritorno ai ritmi naturali, a un’ideale, e assai problematica tavola, dovrebbero sedersi anche i modaioli “crudisti”, paladini di marinature, emulsioni, macerazioni in cui avvolgere pesci e carni, per far loro perdere scivolosità e ferinità in nome della seduzione del palato e dell’occhio. E dove sistemare i seguaci del naturopata Peter D’Adamo, secondo cui nei nostri gruppi sanguigni sarebbero contenute tolleranze e intolleranze, disposizioni e indisposizioni, che influenzano il sistema immunitario e il metabolismo, determinando la reazione agli alimenti? Dunque: gruppo zero, avi cacciatori, in tavola carne e proteine; gruppo A, agricoltori, pasta e verdura; gruppo B, progenitori nomadi, latte e derivati. 


Vegan before six (da www.berrybreeze.com)
Anche qui, il credo alimentare ha a che fare con la rassicurazione interiore: prendere ordini da madre natura ci fa sentire meno responsabili di scelte problematiche. La tribù più estrema è però quella degli “ortoressici”, ossessionati dai cibi che mangiano. È una vera e propria patologia, che coinvolge almeno il 15% dei tre milioni di italiani affetti da disturbi vari del comportamento alimentare. Crudisti e vegani sono tra le categorie a rischio degenerazione, ma anche gli atleti, sempre in competizione con se stessi e con gli altri e ansiogeni su tutto quanto ingeriscono.
L’Homo dieteticus è un essere complicato. Trascinato dalle mode, vittima di false credenze, preda di fobie collettive, esposto allo stupidario globish. Ma - avverte Niola - tutto questo non basta a spiegare una “cibomania” così forte e coinvolgente come quella odierna.

Alla base ci sono due potenti correnti sociali. Da una parte, quelle che Michel Foucault chiama “le tecnologie del Sè”, cioè l’insieme di conoscenze, esperienze, competenze che induce a prendersi cura del proprio corpo per essere sempre più belli, sani, giovani, attivi, longevi, potenzialmente immortali. Dall’altra, le spinte bio-politiche di grandi organizzazioni internazionali - Fao, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di cibo e agricoltura, Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e del commercio (Omc) - e il planetario business del benessere, una lobby che orienta la domanda di salute e bellezza, condiziona stili di vita, propone diete miracolose, facendo leva sul nostro bisogno di sicurezza ma anche su un desiderio di conoscenza e di cura personale che risale alla notte dei tempi.
Come far sì che l’homo dieteticus non diventi una specie in via di estinzione, vittima delle sue stesse cibo-fobie? L’autore, per restare in tema, evita le ricette. Ma pare suggerire un Qb, quanto basta, di tutto: salutismo, ecologia, economia e anche ideologia. Senza dimenticare la fantasia che, ai nostri nonni, serviva per temperare l’abbondanza di frugalità, a noi per realizzare la frugalità dell’abbondanza. Perchè alle religioni della tavola abbiamo sacrificato tanto. Soprattutto il gusto.
twitter@boria_a

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