martedì 4 settembre 2012

IL LIBRO

Widad Tamimi e il caffè delle donne


Widad Tamimi
Al rito del caffè è legato un giorno importante nella vita della piccola Qamar: imparare a prepararlo con l'ibriq, il pentolino dal becco lungo dove viene fatto bollire e schiumare, profumandolo col cardamomo, significa diventare donna, abbandonare l'adolescenza ed essere ammessa nel consesso femminile di nonna, zie, cugine, vicine di casa, dove tra confidenze e iniziazioni, ogni giorno, a una prescelta, viene letto il futuro nei fondi che si depositano nella tazzina. È l'estate dei suoi quattordici anni, in Giordania, in casa della famiglia del padre, l'ultima che Qamar ricorderà con la spensieratezza dell'infanzia e la prima da giovane donna innamorata, quando scoprirà con tormento quanto diverse siano le culture di cui è figlia. Per riconciliarle, la protagonista compie un lungo viaggio di ritorno, al termine del quale anche il futuro letto nella tazzina, da cui è fuggita molti anni prima, trova una sua composizione.

 Esce "Il caffè delle donne" (Mondadori, pagg. 300, euro 17,50), il libro di esordio di Widad Tamimi, scrittrice trentaduenne figlia di un profugo palestinese e di un'ebrea di origini triestine, la cui famiglia scappò a New York durante la seconda guerra mondiale.Widad e Qamar sono la stessa persona? O quanto dell'una c'è nell'altra?
«Non c'è personaggio di un libro che non sia in parte specchio del proprio autore, credo. Widad è in ognuno dei personaggi, ma poi forse in nessuno, perché a un certo punto bisogna lasciarli andare, far sì che camminino da soli. Forse potrebbe essere appropriato dire che l'autore è genitore, più che sosia dei propri personaggi. D'altra parte tutti si chiedono cosa sia vero e cosa no nella scrittura di chi ci narra una storia. Addirittura mio padre mi ha chiamata al telefono per chiedermi tutto allarmato se abbia veramente rubato la macchina di mio cugino a dodici anni. Ho riso, e gli ho risposto che non lo saprà mai».

Lei si è mai fatta leggere il futuro nei fondi della tazzina del caffè? «Naturalmente! Sono una curiosa nata».

E si è spaventata come la protagonista del libro? «No, spaventata no, ma sono sempre stata molto scettica. Poi ho capito: non si tratta di stregoneria o lettura del futuro con la sfera magica. La lettura è soprattutto un dialogo, uno scambio e una condivisione, tra donne più giovani e donne più anziane, con più esperienza, più sagge. E quando ho finalmente messo a fuoco la natura di questo rito, ho capito quanto mi manchi questo aspetto della vita nella società in cui sono cresciuta. Quando mai ci sediamo con le nostre zie, cugine e nonne a chiacchierare della vita, dei dispiaceri, dei sogni, delle aspettative e delle delusioni?».

Nel suo libro, il rito del caffè scandisce la vita delle donne: l'ingresso nell'età adulta, la preparazione al matrimonio, la condivisione dei segreti. Lei l'ha vissuto e lo vive ancora così? «I caffè scandiscono la giornata di molti di noi. A me piace sedermi, avere una tazza di caffè gigante, riposare i pensieri o lasciarli andare. In questo senso il caffè segna dei passaggi, perché non c'è giorno in cui non ce ne sia uno, di passaggio».

Il caffè regala anche l'unica vera scena d'amore, quella in cui Qamar lo prepara col cugino Yusef. I due sono all'aria aperta, ma è tutto molto intimo e segreto... «Nonostante le proibizioni culturali, non c'è parte di mondo in cui due giovani innamorati non riescano a rubare l'intimità per incontrarsi, e sognare. E quando l'amore è così difficile da raggiungere, quando ogni attimo insieme alla persona amata è così difficile da conquistare, diventa persino più emozionante, più intenso». 

Anche lei, come la protagonista, racchiude in sè diverse culture e identità: la palestinese, l'ebrea, l'italiana, la slovena per matrimonio...Come le ha composte? «Per la verità faccio fatica a scomporle. Non so cosa ci sia di italiano, cosa di arabo e cosa di ebreo in me. So per certo che c'è posto per tutte queste identità, e molte altre, in ognuno di noi. Così come c'è posto in ognuno di noi per amare all'infinto. È più facile e bello vivere con tante identità, che coltivarne e coccolarne una sola. Ora che abito in Slovenia e che ascolto le prime parole dei miei figli in una lingua che capisco poco, mi si riempie il cuore di gioia, perché sento che la tradizione continua, le identità si moltiplicano e ai miei bambini sto offrendo un mondo ancora più ampio del mio». 

E c'è mai un momento in cui una di queste identità si impone, magari conflittualmente, sulle altre?«In famiglia hanno sempre detto che ho la testa dura. Da bambina mio padre diceva che è tipica hebbronese, mio nonno che è ebrea. A mio figlio, che ha ereditato la determinazione che ora mi si ritorce contro in ogni capriccio ostinato con cui mi sfida, diranno che ha la testa di un vero sloveno. Insomma, chi sa dirlo quale si impone?».

A un certo punto del libro, quando l'adulta Qamar presenta il marito Giacomo alla nonna, l'anziana gli offre il caffè nel bicchiere e loro due ricordano il "capo in B" bevuto a Trieste...
«Mio nonno materno è nato in una benestante famiglia ebrea triestina, nipote, fra l'altro, di Italo Svevo. Purtroppo, però, nel 1938 la famiglia fu costretta a lasciare l'Italia a causa delle leggi razziali e nel 1940 si stabilì negli Stati Uniti. Mio nonno era legatissimo alla sua città natale e io oggi sono felice di essermici avvicinata. Il nonno amava raccontare barzellette in triestino ed era divertente sentirlo prununciare "coccola", in quel modo tipico...».

Lei lo dice nella postfazione: il libro è nato da un dolore privato, da una perdita. In quel momento, andare alla ricerca delle sue origini è stata una consolazione?«Inizialmente ho pensato che la scrittura mi avrebbe aiutata a rielaborare una vicenda personale, poi ho scoperto che mi portava più lontano, che mi offriva molto di più. Forse per Qamar la ricerca delle origini era importante, ma Widad le origini non le ha mai del tutto cercate. Le lascio vivere, coesistere. La vera emozione è stato lasciar fluire i ricordi dell'infanzia, gli odori, i colori, e accorgermi di come sia possibile non crescere mai, non invecchiare, perché ci sono sensazioni che rimangono appiccicate per sempre, e per sempre suscitano emozioni enormi, fortissime. Certo, il Medio Oriente mi manca in questo periodo, ma la scrittura mi ha permesso di viverlo, sentirlo più vicino».

Multiculturale è una parola di cui spesso si abusa. Che cosa significa? «Essere liberi, soprattutto. Significa accogliere, invece che temere. Significa essere curiosi. Significa essere più ricchi».

C'è un'altra storia che sta maturando? «Eccome, è da tanto tempo che penso a un altro progetto. Ed è proprio da Trieste che comincerà la prossima storia. La mia è una famiglia di esuli: sia da parte materna che da parte paterna ha vissuto la difficile esperienza dell'esilio e, nonostante si tratti di momenti storici e luoghi completamente diversi, queste esperienze si intrecciano profondamente. Vorrei raccontare di questo: della sofferenza di un bambino che è costretto a lasciare i luoghi della sua infanzia, a scappare, sognando la terra natale senza capire perchè abbia dovuto abbandonarla. Mio nonno ha conservato nel cuore il sogno di Trieste per tutta la vita ed è lì che ha chiesto di riposare, perchè non c'è luogo al mondo che abbia amato di più…».
twitter@boria_a

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