domenica 15 maggio 2022

IL PERSONAGGIO

 

Il mito Anita Pittoni

e quel golfino all'uncinetto

sotto casa delle sorelle Wulz 


Anita Pittoni indossa una sua creazione


 Anita Pittoni inventiva creatrice di moda? Creatrice sì, prima di tutto di se stessa. In alcune note autobiografiche, manoscritte e dattiloscritte, l’artigiana artista triestina si raccontava con particolari diversi, costruiva e adattava il suo profilo alle occasioni, agli incontri, agli interlocutori cui erano dirette. Si voleva designer naturale, autodidatta ispirata, mitizzava gli inizi. Del tutto priva di esperienza - diceva di sè - si era messa a lavorare all’uncinetto un golfino, sul gradino davanti alla porta dello studio delle sorelle Wulz, Wanda e Marion, al numero 19 di Corso Vittorio Emanuele III a Trieste, oggi corso Italia. In un altro suo testo, “La boutique de la femme italienne”, scherzava sulla sua griffe, ma con l’orgoglio di appartenere di diritto a una dimensione artistica: “Vostra moglie non vi ama. Donatele un costume Pittoni. Il vostro amante vi dimentica. Donategli una fotografia Wulz”.


Capitava, però, che qualche dettaglio sfuggisse al controllo di Anita, che qualche nota non fosse rivista e allineata. Ecco allora un’altra delle sue autorappresentazioni delineare un percorso diverso, chiarendo ruoli e suddivisione dei compiti nello Studio di arte decorativa che all’inizio teneva nella dimora delle Wulz, prima di trasferirsi in via D’Annunzio 1 (l’odierna via del Teatro) e poi in via Cassa di Risparmio: loro fotografavano capi e accessori, lei li realizzava, ma i disegni e i bozzetti erano firmati dal grafico pubblicitario polesano Marcello Claris. Non modelli di suo pugno, dunque, ma di un artista al quale va certamente attribuito l’album dei gilet ora conservato al Museo Wolfsonian di Genova e ritenuto di Anita.


Fingere abilità, o sottacere collaborazioni, contribuiva a creare il suo personaggio. Le piaceva dare di sè una descrizione “verosimile”, dove coesistono verità, un pizzico di esagerazione e ruoli di pura invenzione. Accade, per esempio, sempre secondo un’altra delle sue autobiografie, quando affermò di essere stata aiuto del regista Anton Giulio Bragaglia per le scene de “Il suggeritore nudo” di Marinetti. Una fantasia: le realizzò in realtà l’artista e designer Bruno Munari.
C’è una biblioteca di moda che racconta molto sulle fonti dell’ispirazione della Pittoni e sulle origini della sua opera tessile. Ma anche sui vezzi, sulle debolezze della donna e della creativa. Un centinaio di pubblicazioni preziose per “contestualizzare” questa singolare ed eclettica figura di “genio della manualità”, per citare la definizione che di lei diede Tullio Kezich, il cui lavoro di designer si nutriva di moltissime letture e sollecitazioni visive, era dunque tutt’altro che spontaneo.

 

Anita Pittoni nel 1933 con una sciarpa di lana lavorata all'uncinetto

 


Sui volumi, di proprietà di vari collezionisti, sta lavorando il libraio Simone Volpato, al quale si devono mostra e catalogo FuturAnita del 2016, dedicati alla vita quotidiana dello Studio di arte decorativa, a clienti, patronesse e testimonial di sangue blu, a committenti e fornitori, alla corrispondenza e ai contatti mantenuti negli anni della moda, dal 1920 in poi, quando non era neanche ventenne. Nel 1949 Anita lascerà la moda per una nuova avventura, l’editoria di pregio. Se ne sono occupati di recente Michela Messina e Sergio Vatta, mentre lo studio di Volpato diventerà un libro, per i tipi dell’editore Ronzani.


Sfogliamo i volumi. Per imparare a riconoscere le tipologie di tessuti e studiare armature di stoffe, Anita legge due manuali editi da Hoepli, di Oscarre Giudici e Pietro Pinchetti, del 1904 e 1910. Ne “L’arte decorativa contemporanea” di Carlo Carrà, del 1923, si sofferma sulla sezione arazzi, pannelli, tappeti, merletti, dove l’autore parla di Fortunato Depero, di Rosa Menni Giolli, maestra delle arti decorative applicate alle stoffe, del designer e architetto Marcello Nizzoli e dell’Associazione del Batik di Trieste fondata dalla pittrice Maria Lupieri. Tra queste pagine è conservato il suo primo monogramma “AP”, sotto forma di ex libris.


Dello stesso anno è un’altra opera consultata da Pittoni, “Le arti a Monza nel MCMXXIII” di Roberto Papini, dove sottolinea i passi dedicati a Depero, alle sete di Guido Ravasi, ai velluti di Lorenzo Rubelli e agli arazzi di Vittorio Zecchin. Nel numero monografico di “Noi. Rivista d’arte futurista”, ancora del ’23, studia i cuscini e i pannelli di Depero e Valente. Nel 1925 visita la Seconda internazionale delle arti decorative a Monza, di cui acquista il catalogo, mentre per approfondire la lavorazione dei cuscini in panno consulta quelli della ditta torinese Lenci degli anni ’26 e ’28. Infine, quando si avvicina al mondo delle navi nel 1932, si fa donare da Ernesto Nathan Rogers il volume di Anselmo Bucci, “Arte decorativa navale”.

 

Un cappello di Anita Pittoni alla Triennale di Milano nel 2016

 


Nella biblioteca Pittoni trovano spazio tutte le novità editoriali dell’epoca in materia di interior design. Negli scaffali anche volumi d’arte e i cataloghi della mostra del Novecento Italiano di Margherita Sarfatti del 1926 e 1929. La “pittrice dell’ago”, come la chiamava Bragaglia, è curiosa e attenta alle uscite. Legge, sfoglia, si imbeve di immagini, colori, grafismi. Assorbe come una spugna.


Se si potesse dunque idealmente allargare la foto in cui Anita Pittoni dice di aver uncinettato il golfino perfetto sotto casa delle amiche Wulz, nell’inquadratura entrerebbero Carrà, Depero, la moda femminile dei futuristi, teorizzata nel manifesto di Volt (il poeta Vincenzo Fani Ciotti), la stessa Sarfatti. Era il mondo dell’arte che le offriva spunti per disegnare il moodboard delle sue collezioni. Anita lo faceva, e spesso lo credeva, tutto ed esclusivamente suo.

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