martedì 18 ottobre 2016

L'INTERVISTA

Ilvo Diamanti: Le frontiere sono un male solo se diventano muri 





Ilvo Diamanti




Barriere o ponti? Si apre con un confronto sul tema delle migrazioni e sull’atteggiamento dell’Europa e dei suoi paesi verso un fenomeno che sta cambiando radicalmente gli equilibri sociali e politici del vecchio continente, la tre giorni “Ad alta voce” di Coop Alleanza 3.0 a Trieste, rassegna di letture e dibattiti con protagonisti della cultura, delle arti, del giornalismo e della società civile.

Alle 17.30 di giovedì 20 ottobre 2016, al Salone degli Incanti di Trieste, di accoglienza e respingimenti parleranno la ricercatrice Marina Calculli, esperta di Medio Oriente, in particolare Siria e Libano, il direttore del Piccolo Enzo D’Antona, il sociologo e politologo Ilvo Diamanti, il giornalista Ezio Mauro, già direttore di Repubblica, e il presidente di Coop Alleanza 3.0 Adriano Turrini, presentati dall’attore e regista Gaetano Ruocco Guadagno.

Un’analisi, come ha anticipato Diamanti, particolarmente opportuna a Trieste e in una regione come il Friuli Venezia Giulia che si confronta da vicino con l’Austria, spaccata su un’eventuale chiusura del Brennero per contrastare gli afflussi di migranti dall’Italia, e con i paesi dell’ex Jugoslavia, che alzano muri spinati per bloccare la rotta balcanica.
Proprio a Ilvo Diamanti, presidente della società di ricerche sulle dinamiche sociali Demos & Pi, abbiamo chiesto di anticipare alcuni dei nodi che verranno affrontati nel dibattito. Matteo Renzi, infatti, alla vigilia dell’esame della commissione europea sulla manovra economica italiana, ha rimandato al mittente le critiche alle nostre spese sull’immigrazione, sollecitando piuttosto gli altri paesi ad aiutarci. Da parte sua Pierre Moscovici, commissario agli Affari monetari, ha ammesso che «in questo momento l’Ue non è in grande forma».


Professor Diamanti, c’è la sensazione che in Europa stiano crescendo le barriere più che i ponti. Siamo diventati meno solidali? «La solidarietà è più facile nel momento in cui è a distanza, in cui gli “altri” non sono qui, a casa nostra. È una solidarietà che costa meno. Non che sia meno importante, ma non mette in discussione la nostra vita, la nostra percezione dell’ambiente, la qualità della nostra esistenza quotidiana. Oggi il problema principale è che ci sentiamo “esposti” al mondo. Un problema che non riguarda solo noi, ovviamente, è quasi esistenziale. La globalizzazione - un termine spesso usato in modo generico - sta a sottolineare qualcosa di ben preciso: tutto ciò che avviene nel mondo ha effetti su di noi, in questo momento. Ci sono i media che amplificano le informazioni, c’è la rete su cui le notizie corrono. Quindi ci sentiamo vulnerabili, senza tutela. E abbiamo più bisogno di confini».


Per questo sale la paura?  «L’ultima rilevazione di Demos testimonia una crescita evidente delle “paure globali”, le paure del mondo che incombe su di noi. C’è la paura senza volto, quella dei mercati, dello spread, della Fed, parole che la gente comune a volte non capisce ma che le danno la sensazione di essere colpita nei suoi interessi. E poi c’è la paura che assume un volto, quello dell’altro che entra a casa tua, degli stranieri che premono alle frontiere spinti dalla disperazione. L’Italia è di per sè un paese di frontiera e di costiera. A questo si aggiunge ora il problema che ci sentiamo minacciati perchè i confini vengono messi in discussione. Ti accorgi che non servono questi confini, ma al tempo stesso ne hai bisogno, perchè hai paura dello straniero. Così vorremmo chiuderli, proprio mentre intorno a noi altri lo stanno già facendo, come la Svizzera e l’Ungheria, e in Austria non tira una buona aria...».


Sono timori affrontabili o questo conflitto tra noi e gli altri diventerà strutturale? «Credo che la paura si possa affrontare se esiste un’autorità che rassicura. Accetto l’altro, con cui “negozio” la mia identità, nel momento in cui qualcuno tutela entrambi. Naturalmente se questo avviene su base europea siamo davanti a uno scenario, se ciascun paese negozia per sè, la situazione è diversa. L’Inghilterra ha votato la Brexit, i paesi del Nord chiudono le frontiere con noi: così semplicemente finisce l’Europa. L’Europa è fondata su questo più che sull’euro. Non credo si possano affidare un progetto e un’identità comune a una moneta. Preferirei avere un riferimento religioso, addirittura una squadra di calcio, piuttosto che una moneta. Cedere la sovranità ai mercati finanziari. Il vero progetto europeo è nato a Schengen: casa mia è dove mi muovo liberamente senza porte chiuse, ma ho una recinzione che mi protegge dall’esterno. Se invece abbiamo relazioni bilaterali con l’esterno, ovvero ciascun paese fa quel che vuole, e all’interno chiudiamo i confini, allora l’Europa non esiste più».


La Francia ci accusa di non riconoscere i migranti... Se non siamo più tanto solidali, certamente siamo più soli in Europa. «Diciamo che facciamo un po’ i furbi. Se i migranti vengono controllati vengono anche “riconosciuti”, quindi per il diritto internazionale dobbiamo tenerceli e gli altri paesi li rimandano da noi. Certo che ci hanno lasciati soli, perchè l’immigrazione suscita maggiore tensione e sul tema della sicurezza e insicurezza si gioca il consenso. Puoi avere politiche europee in tema di economia e di movimenti migratori, ma poi i governi sono eletti su base nazionale. La collisione è inevitabile».


C’è una geografia della nostra paura dello straniero? «Noi abbiamo sempre più paura degli stranieri perchè demograficamente siamo fermi. L’Italia è in calo demografico da tre anni. Il saldo tra nascite e decessi, compresi gli immigrati (perchè i loro tassi di fertilità si adeguano al paese), è negativo: un dato che non si verificava dal 1917-’18. Siamo sotto la soglia dell’equilibrio demografico. Dovremmo chiudere le frontiere, ma perchè gli immigrati non se ne vadano. E chi ha più paura degli stranieri? Secondo i dati che abbiamo rilevato: i più anziani, i meno istruiti, le casalinghe, chi sta più di quattro ore al giorno davanti alla televisione. Se incrociamo le informazioni la risposta viene da sè: siamo un paese più vecchio, quindi più impaurito».



Il trattato di Schengen ha le ore contate? «Non voglio fare previsioni impegnative, nè essere l’uccello del malaugurio. Mi limito ai dati del sondaggio che abbiamo realizzato nel gennaio 2016, testando una serie di paesi europei. In Italia il 48% vuole ripristinare i controlli alle frontiere, per il 35% i controlli vanno ripristinati in determinate circostanze, per il 15% va mantenuta la situazione attuale. Schengen non piace a otto persone su dieci. In Italia, Francia, Spagna e Germania solo una minoranza è a favore di Schengen, in Italia e Francia questa minoranza è ancora più ridotta, da noi la maggioranza vuole ripristinare i controlli tout-court. Solo i giovani si sottraggono a questa logica e sono per l’apertura, contro le frontiere».


È solo l’ondata migratoria all’origine della crisi dell’Europa? «C’è una forte difficoltà nel costruire l’Europa perchè non c’è condivisione. L’Europa non nasce da sola, ci vuole un investimento chiaro e determinato. Ora cominciamo ad avere problemi anche a Est... È come se avessimo nostalgia dei muri».


Che risposta possiamo dare al problema migranti? «I confini sono importanti per distinguere noi dagli altri e per riconoscersi reciprocamente. Il filosofo francese Régis Debray ha scritto un “Elogio delle frontiere”. Il problema nasce quando le frontiere diventano muri che ci rendono schiavi delle nostre paure, che alimentano il senso di sicurezza ma non ci proteggono dalla disperazione altrui».

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