sabato 8 ottobre 2016

IL LIBRO

"Le ragazze" di Emma Cline hanno sfiorato l'abisso




Emma Cline




Peccato che parlando dello straordinario esordio letterario dell’anno, “Le ragazze” della ventiquattrenne americana Emma Cline (Einaudi Stile Libero, pagg. 334, euro 18,00), si citino spesso Charles Manson e la strage compiuta da quattro componenti della sua “family” nella villa di Cielo Drive a Los Angeles, in cui, con altre quattro persone, fu ammazzata Sharon Tate, la moglie di Polanski incinta di otto mesi. Cline si è rifatta a questo sconvolgente fatto di cronaca, ha ambientato il suo romanzo nello stesso anno, il 1969, e il guru della comune al centro della storia, Russell, è un musicista fallito in cerca di vendetta, proprio come Manson.

Peccato comunque, nonostante la stessa giovane autrice abbia dichiarato la fonte dell’ispirazione. Perchè le immagini violente di quel crimine che, a distanza di anni, ancora abbiamo sotto gli occhi, riproposte periodicamente da giornali e tivù, si sovrappongono al crudele nitore, all’originalità della scrittura e, in qualche modo, intralciano col fastidio della cronaca nota, vista e stravista, la potenza e insieme la desolazione del racconto.


Che non è quello di una mattanza, compiuta sotto l’effetto di droga, da individui soggiogati e amorali. E nemmeno quella di un santone che irretisce ragazze sbandate e le obbliga a soddisfare le sue voglie, a mantenerlo, a uccidere per lui. Ma è la storia della “banalità del male”, filtrata attraverso gli occhi di una ragazzina sola che, nel giro di qualche mese, in un’estate torrida nella contea di Sonoma, in California, tra la fine di un ciclo scolastico e l’inizio di un altro, è attraversata da un orrore che le rimarrà appiccicato addosso per sempre, da un crimine non compiuto ma mai espiato. «Mia madre sarebbe stata via tutto il giorno, l’alcol mi aiutava a stenografare la mia solitudine. Era strano che ci volesse così poco per provare sensazioni diverse, che ci fosse un metodo sicuro per ammorbidire la massa incrostata della mia tristezza».





È la stessa protagonista, Evie Boyd, ormai una donna di mezza età, a ricostruire quell’estate adolescenziale sull’orlo del baratro, quell’ubriacatura incosciente di trasgressione, in lunghi flashback dove ai ricordi si mescola una sensazione che ancora le affiora dentro a distanza di tanti anni, il senso di aver toccato il limite oscuro tra indifferenza e malvagità ed esserne rimasta sedotta. «L’odio che vibrava sotto la superficie della mia faccia da bambina, penso che Suzanne l’avesse riconosciuto. Certo che la mia mano aspettava il peso di un coltello. La particolare cedevolezza di un corpo umano. C’era così tanta roba da distruggere».


Evie ha quindici anni all’epoca dei fatti e una famiglia spezzata: il padre se n’è andato con la giovane segretaria e la madre, prosciugandosi con stretching, tisane e cucina macrobiotica, cerca affannosamente un altro uomo. Vivono insieme, divise e accomunate dalla stessa disperata fame d’amore. È allora che "le ragazze" entrano nella vita di quest'adolescente in cerca di appigli, di qualcuno che la “guardi”. E finalmente la veda.


Donna, Helen, Roos e le altre hanno capelli lunghi e aggrovigliati, frugano nei cassonetti e rubano per mangiare, ma quando passano tra la gente sembrano "squali che tagliano l'acqua". Soprattutto Suzanne, bizzarra e selvatica, “una provocazione smaccata e pungente che equivaleva quasi alla bellezza”. Evie ne rimane affascinata e si trasferisce nella comune dove tutte vivono insieme al capo carismatico, Russell, artista senza talento, che le tiene agganciate a sè tra droga e materassi condivisi, bambini che non sono di nessuno perché appartengono a tutti, squallore e sporcizia, spostandosi su uno scuolabus dipinto di nero nell’appiccicosa estate californiana, in attesa di quel disco che non inciderà mai. Suzanne, col suo oscuro carisma, domina questa anomala trama di relazioni al femminile - amicizia, preferenze, sesso - ed Evie se ne sente violentemente attratta, compete per la sua attenzione, per la prima volta esplora un desiderio e un ordine di valori che non è quello del (e per) il maschio.


L'estate finirà come la cronaca, in un macello di innocenti che la giovane protagonista, poi cresciuta in un'adulta inaridita e amara, porterà su di sè come una cicatrice, come il marchio del trapasso ad un'altra età in cui continua a sentirsi estranea. «Suzanne mi impedì di fare quello che forse sarei stata capace di fare. E così mi restituì al mondo come avatar della ragazza che lei non sarebbe stata... Era un dono. Cosa ci ho fatto? La mia vita non ha preso la forma che un tempo mi ero immaginata».


A volte qualcuno chiede a Evie di ricordare l’estate della casa fatiscente, dei bimbi scottati dal sole. A volte è un odore, il sapore della soia o il fumo sui capelli ad aprirle una crepa nel petto. A Evie è toccata la storia smorta del testimone impotente, in fuga senza aver commesso un crimine, «un po’ con la speranza e un po’ con il terrore che nessuno mi venisse più a cercare». È questa la condanna più dura: sapere che il bisogno di “essere guardati”, di riempire il buco nel cuore, non si esaurisce mai. Che per farlo si può diventare cattivi. E che la vita è un continuo arretrare dal ciglio del burrone.

@boria_a

Nessun commento:

Posta un commento