venerdì 19 giugno 2015

L'INTERVISTA


Giovanna Botteri, corrispondente Rai dagli Usa: E Curzi mi disse, "Vai a Mosca"
 e racconta quello che vedi come a una persona cara...
Giovanna Botteri, corrispondente Rai dagli Stati Uniti

È stata testimone, e ha raccontato, l’assedio a Sarajevo durante la guerra in Bosnia dal ’92 al ’96, l’incendio della Biblioteca nazionale, la strage del pane, il genocidio dei musulmani a Srebrenica l’11 luglio 1995. Con occhi pieni di curiosità, passione, professionalità, con penna e telecamera, è stata in Algeria, Sudafrica, Iran, Albania, dove ha seguito la ribellione a Valona nel 1997, per poi passare al conflitto in Kosovo ed entrare a Pec' insieme all’esercito italiano nel 1999.
La triestina Giovanna Botteri, dal 2007 corrispondente Rai dagli Stati Uniti, è uno dei volti più noti della televisione italiana. Dagli anni Novanta, non c’è scenario di guerra, teatro “caldo” del mondo, che non l’abbia vista protagonista, con impegno, umanità e quell’inconfondibile energia che sempre trasmette dal video, nel documentare fatti e testimoniarci storie di uomini: nel ’91 il crollo dell’Urss, poi la guerra d’indipendenza in Croazia, l’Afghanistan dei talebani, l’inizio dei bombardamenti a Baghdad il 20 marzo 2003, che ha filmato in esclusiva mondiale con Guido Cravero, l’arrivo dei carri armati statunitensi il 9 aprile. Una carriera internazionale lunga e prestigiosa, cui va quest’anno il Premio speciale Marco Luchetta, che la giornalista riceverà al Politeama Rossetti il 2 luglio. Una sorta di premio alla carriera, dalla sua città. Come si sente, Giovanna?
«Magari dovrei rispondere semplicemente “vecchia”, pensando ai tempi in cui con Marco Luchetta dividevamo i corridoi del Dante, al tempo che è passato, a tutte le cose fatte, viste. Invece l’unica cosa che mi viene in mente è: “viva”. Sopravvissuta a quella terribile guerra in Bosnia che ha ucciso i miei amici, i miei colleghi, e assieme a loro città, famiglie. Alle altre che hanno devastato e continuano a devastare la vita e i sogni di migliaia di bambini e di civili. Ma anche a quella guerra sorda e sotterranea che ti rende cinica, fa dimenticare quello che è importante, il tuo dovere di raccontare, ed essere onesto. “Viva”, e contentissima di ricevere il Premio».
Giovanna Botteri ha sempre voluto fare la giornalista o aveva altri sogni?
«Non volevo fare la giornalista. Lo era già mio papà, non avrei mai osato un confronto con lui. Mi stavo laureando in filosofia, ero a Parigi a preparare la tesi, e leggevo i romanzi di Danilo Kiš. Avrei dato qualsiasi cosa pur di incontrarlo. Così gli scrivo attraverso la sua casa editrice italiana, e invento che voglio fargli un’intervista. Lui mi riceve, e io, con un registratore vecchissimo, gli chiedo tutto quello che posso... Euforica, trascrivo tutto, e trovo anche chi mi pubblica l’intervista! E capisco che non può esistere un mestiere più bello al mondo. Incontri gente straordinaria, attraversi come un viaggiatore le storie della gente e dei paesi, e ti pagano per farlo…»
Qual è stato l’incontro, o l’occasione, che ha dato una svolta alla sua carriera?
«Quando sono arrivata al tg3, Alessandro Curzi mi ha fatto fare la gavetta. Federica Sciarelli faceva la praticante al politico, Michele Santoro era viceredattore capo alla cultura. Cinque righe di notizia e un po’ di immagini a riporto. Poi mi manda a Mosca, dove Demetrio Volcic’ era il grande corrispondente in capo, per imparare. E io faccio la ragazzetta di bottega, le riunioni del mattino, una telefonata alla Tass per capire la versione ufficiale, una telefonata a quelli dell’opposizione per sentire altre fonti, e alla fine il confronto con i colleghi di Bbc e della Reuters prima della verifica sul posto. Il mondo è in ebollizione, e quando scoppia anche la Jugoslavia, Curzi mi manda a Sarajevo. Che cosa devo fare, che pezzi volete?, gli chiedo. E lui mi dice solo… “racconta”. Racconta quello che succede come stessi parlando a qualcuno a cui tieni. Non lo dimenticherò mai».
Ex Jugoslavia, Algeria, Iran, Albania, Afghanistan, Iraq: qual è l’esperienza che l’ha più coinvolta o dove ha avuto paura per la sua vita?
«A Sarajevo mi hanno insegnato a non vergognarsi della paura. Aver paura serve a essere prudenti, a pensar bene prima di commettere imprudenze, a non sottovalutare i rischi. Il panico, quello è pericoloso, perché non sei più lucido. Ho avuto paura tante volte, tante. Una volta siamo andati con uno dei battaglioni che difendeva Sarajevo sulla prima linea del monte Trebevi„, nelle trincee. Se l’artiglieria centra la tua trincea, finisci sepolto dalla terra, soffocato. Avevo un giubbotto antiproiettile, inutile, ma la notte mi ha aiutato a dormire».
Un bimbo gioca durante l'assedio di Sarajevo il 22 aprile 1996 (foto AFP)
Lei è all’ufficio di corrispondenza forse più invidiato del mondo. Dopo gli Stati Uniti, ha ancora un sogno da realizzare?
«Mi piacerebbe moltissimo lavorare a un programma di reportages, riprendere a girare e montare come una volta, con tempo e cura, raccontando le storie con le pause, i sospiri, il silenzio».
Le sarà capitato spesso di occuparsi di infanzia violata quando era inviata in teatri di guerra. C’è una storia che le è rimasta nel cuore?
«A Baghdad dopo i primi giorni di bombardamento e guerra, le madri non riuscivano più a tenere a casa i bambini. I ragazzini scappavano in strada, anche se le scuole erano chiuse, per giocare a pallone con gli amici. Era così che morivano, colpiti dalle schegge dell’esplosione, diventate come pugnali appuntiti. Allora le madri li riempivano di valium, perché stessero calmi, per poterli tenere in casa. La guerra è terribile, e lascia ferite che non guariscono mai».


Il bombardamento di Baghdad nel 2003: Botteri lo filmò con Guido Cravero in esclusiva mondiale

Ma oggi il mondo della rete, dei “social”, ha moltiplicato le forme di abuso sui minori anche lontano da guerre o degrado sociale...
«Penso che internet sia un grande strumento. Di libertà e di democrazia, oppure di violenza gratuita e vigliacca. Dipende da chi lo usa».
Che bambina era Giovanna Botteri?
«Classica. Grembiule bianco, cartella rigida sulle spalle, macchie di inchiostro sulle dita, cicciottella, non la prima della classe ma neanche l’ultima, spettinata, già allora».
Aveva dei miti, o dei modelli a cui voleva assomigliare?
«Da piccola, esistevano solo i miei. Mia mamma era perfetta. Era magra, elegante, parlava l’inglese benissimo. Mio papà sapeva tutto, sapeva dove stava il bene e il male. Così quando sono diventata un’adolescente, ho pensato solo a scappare…».
Qual è il servizio più frivolo che ha firmato?
«Non esistono servizi o notizie “frivole”. Tutto racconta la società in cui viviamo, i suoi gusti, le sue debolezze. I pezzi di società sono divertenti, e ti fanno capire con leggerezza quello che succede vicino o lontano da noi».
Iniziare ora a fare il giornalista è un’impresa difficile, ovunque. Se la sente di dare un suggerimento?
«Adesso è veramente difficile. Sempre meno spazi, e meno soldi. Chi comincia adesso deve avere davvero tanta forza, coraggio e determinazione. Crederci veramente, e non mollare».
Come vede la sua città, Trieste, dal suo osservatorio internazionale?
«No tuti quei che xe mati xe dentro, e no tuti quei che xe dentro xe mati, avevano scritto su un muro di San Giovanni. Mi è sempre sembrato un buon punto di vista, per Trieste e per la vita»
Ha un libro suo nel cassetto?
«Son piena di libri, ovunque, cassetti, scrivanie, in cucina e in bagno. Mi piace più leggere che
 scrivere"
@boria_a

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