domenica 3 marzo 2019

IL LIBRO

Le ragazze Aubrey diventano grandi
mentre l'Europa corre verso la guerra









Se avete amato le atmosfere domestiche, le pagine gonfie di musica, il rito del the e della conversazione, le angustie di una famiglia impoverita ma ricca di cultura e di talento, la scrittura precisa e pastosa che procede lentamente, senza l’urgenza dei fatti, sfidando piuttosto il lettore a esercitare i sensi - l’orecchio sulle note, ma anche il senso del colore nelle fioriture dei giardini e le papille gustative - potete farvi accompagnare, ancora una volta, nel salotto degli Aubrey, guidati dalla penna di Rebecca West. In libreria, con Fazi, arriva il secondo capitolo della sua trilogia, “Nel cuore della notte” (pagg. 404, euro 20,00), che originariamente uscì postumo, nel 1984, quasi trent’anni dopo il primo libro, anch’esso ripubblicato l’anno scorso dallo stesso editore col titolo di “La famiglia Aubrey” e diventato un caso editoriale.




Tutti i protagonisti, bambini nell’età edoardiana, sono cresciuti e la grande guerra si avvicina: le gemelle Rose e Mary studiano musica in collegi prestigiosi e si concentrano su un futuro da concertiste (hanno persino differenziato il cognome, per non pregiudicarsi), la sorella maggiore Cordelia ha accantonato il sogno del violino e pragmaticamente abbraccia una vita da donna sposata, quasi allontanata come un corpo estraneo in una famiglia dove l’appartenenza si misura sull’eccellenza musicale, l’unico fratello maschio, Richard Quin, è diventato un giovanotto piacente con un sacco di amici, la cugina Rosamund, solida e splendente, studia da infermiera e la madre Claire vigila con grazia sulla formazione artistica delle figlie, consumandosi per la sparizione del marito, brillante e scialacquatore, e per l’antico virtuosismo al piano che sente venir meno, con l’indurirsi delle dita, come la sua salute.


È sempre Rose a raccontare, alter ego della scrittrice inglese, al secolo Cicely Isabel Fairfield (1892-1983), giornalista e femminista (il suo pseudonimo lo prese dall’eroina ribelle di Ibsen), che firmò nel ’41 un reportage fondamentale per l’approfondimento della storia e della cultura jugoslava, “Black Lamb and Grey Falcon”, pubblicato solo in parte in Italia come “La vecchia Serbia e viaggio in Bosnia ed Erzegovina”. Ed è un racconto, quello di Rose, che cambia il tempo e i registri man mano che, lasciandosi alle spalle la fanciullezza e avvicinandosi all’età adulta, la vicenda corre verso la tragedia bellica e, nel microcosmo domestico, entra prima un’assenza ancor più lancinante di quella del padre Piers, poi la morte.


Come in una partitura, il larghissimo delle visite, delle disquisizioni d’arte, delle passeggiate, lascia il posto al presto dei distacchi, degli uomini curvi sotto il peso degli zaini, a un ultimo momento di affettuosità tra il soldato e la sua ragazza in un corridoio di Victoria Station, sotto il manifesto che pubblicizza un concerto di Rose tenutosi un anno prima...
La voce della narratrice è sicura mentre valuta il suo talento per la prima volta messo in discussione da un docente, con un filo di rimpianto per la spietatezza della formazione («Cos’altro avevo fatto in tutta la mia vita se non “apprendere la tecnica?” Questo era il motivo per cui non avevo avuto un’infanzia...»), è una voce feroce quando testimonia il classismo della società che la circonda («era dei debiti di nostro padre che le nostre compagne bisbigliavano in un angolo»), e sarcastica sul cattivo gusto di certi ambienti, in particolare la casa dei futuri parenti della sorella Cordelia («era un dimora vittoriana in mattoni grigi, a Campden Hill; e all’interno delle sue mura l’Asia si era presa la rivincita sulla colonizzazione. Ogni stanza era piena di cobra di ottone, zampe di elefante, mobili in teak, ciotole d’argento indiane e paraventi d’ebano e avorio...»).


Poi il ritmo della narrazione accelera, la musica si fa presaga della guerra. È il tempo dei concerti che diminuiscono, delle profezie sul futuro, delle licenze di Richard Quin attese con ansia, dell’ultima. «Vedemmo il puntino di luce rossa della sua sigaretta che passava dalle labbra alla mano e il bagliore della sua uniforme che lo rendeva simile a una lucciola...». La voce di Rose si distende nelle luminose pagine finali, il tempo è di nuovo larghissimo, quando la madre se ne va e ritrova l’energia indomabile, il nervo della concertista: «Sì, sì, non ci siamo ancora, ma è così che dovrebbe essere». E noi lettori restiamo in attesa di un altro movimento.

@boria_a

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