martedì 3 novembre 2015

L'INTERVISTA

Elvira Seminara: "Le voci nell'armadio sono i nostri vestiti. Sanno tutto di noi"

"Atlante degli abiti smessi" di Elvira Seminara (Einaudi)

Ci sono vestiti impostori, che sono costati tanto ma non hanno portato la fortuna che ci si aspettava da loro. Vestiti liberi e indipendenti, da raccogliere con pazienza e devozione, perchè non sottilizzano fra estate e inverno, basta metterci sopra un golf o uno scialle non temono piogge nè mode. Ci sono vestiti coscienziosi, senza fretta, e vestiti elfi, che non trovi in nessun posto quando li cerchi e poi rispuntano come se niente fosse. E anche i vestiti possono essere sopravvissuti: li guardi e ti chiedi come sono rimasti intatti, senza strappi o smagliature, dopo tutto quello che hanno provato, come non hanno ceduto alla disperazione di chi li ha indossati.
L’armadio di ogni donna è un campionario di stoffe e di varia umanità, è un concentrato di storie, un intreccio di gioie e dolori imprigionati nella tela, custoditi in ogni piega, nascosti nei plissè. Aprendolo, questo armadio, e guardando tutto quello che vi è appeso o riposto, si può parlare a una figlia lontana, darle consigli, confidarle segreti, trasmetterle un’eredità di affetti.

Lo fa Eleonora, la protagonista di “Atlante degli abiti smessi” (Einaudi, pagg. 179, euro 17,00), l’ultimo libro dell’artista e scrittrice Elvira Seminara. Da Parigi, dov’è andata a vivere dopo la fine del suo matrimonio, Eleonora racconta a Corinne, rimasta a Pisa, l’eredità di vestiti che le ha lasciato. Con quali parole? «L’armadio - dice Elvira Seminara - è una metafora, un atlante, una mappa di possibili itinerari esistenziali e sentimentali. La protagonista parte dall’idea di consegnare alla figlia un catalogo di abiti, ma già alla seconda voce, quando le descrive gli “abiti pazzi”, capiamo che le sta trasmettendo qualcos’altro, che si tratta di esperienze, di modalità di vita. E l’antologia diventa “ontologia”».

 
Elvira Seminara




Ma non c’è il rischio che quell’armadio, una volta aperto, non si riesca a chiuderlo più?
«A me è capitato. Sono stata catturata dall’immagine di questo turbinio di vestiti, da un volo di abiti che evadevano e chiedevano di essere raccontati. Perchè i vestiti sono mappe narrative, non oggetti inanimati. Io credo nell’aspetto formativo del vestire, nella reinvenzione dei propri vestiti. Come artista utilizzo materiali di riciclo, creo borse con oggetti di recupero domestico, retine, guanti da cucina, caffettiere, che così vengono riconvertiti e riabilitati. È il pensiero zen, che seguo: le cose hanno una vita propria, non si lasciano, non si sprecano. Con un’espressione bellissima Heidegger ricorda che “bisogna aver cura delle cose”».
Distinzione, questa tra “oggetti” e “cose”, che lei puntualizza.
«Ce lo dice Remo Bodei nel suo libro “La vita delle cose”. Le cose sono gli oggetti che hanno subíto una “transustanziazione”, sono diventati sacri perchè noi li investiamo di relazioni, di affetti. I vestiti hanno questo vissuto addosso, si impregnano dei nostri umori, si strappano, si lacerano, portano dentro i nostri dolori. I vestiti noi li abitiamo, sono “giacimenti”. Anche di gesti, di chi li ha disegnati, tagliati, di chi ha attaccato i bottoni, fatto gli orli... Pensiamo alle metafore lessicali che rimandano al tema dell’abito: diciamo “ha stoffa” di qualcuno che vale, diciamo “tessere una relazione”, “ricucire un rapporto”..., tutto ci rimanda a un mondo con gli altri».
Lei ce l’ha un vestito come gli uccelli di Hitchcock, un vestito-ossessione, che cerca di scacciare ma torna sempre?
«Più che vestiti-ossessione, ho vestiti dell’”impermanenza”, instabili, che non sostano, che spariscono e non li rimpiangi, dimentichi».
E un vestito occhiuto, che butta fuori gli altri per tornare di moda?
«Sì, ne ho un paio che spingono perchè li metta. In ogni armadio di donna ci sono abiti che scendono dalle grucce per essere indossati».
Un passaggio del libro farà sentire in colpa molte: “Ci vuole misericordia coi vestiti. Anche quando è tardi, e sei stanca, non abbandonare il vestito a terra, o sul letto, Allargalo e stendilo con dolcezza”...
«Prima citavo Heidegger, Bodei. E aggiungo Rilke, che parla di “larificazione”. Le cose amate sono i nostri lari. E James Hillman che scrive dell’”anima delle cose”. Oggi manca questo sentimento compassionevole verso le cose, che subiscono il nostro atteggiamento predatorio, la nostra rapacità. La cura attiene a un universo di rispetto sia per le cose in sè sia per il lavoro di chi le ha fatte. È uno dei miei principi di ecologia della mente. La protagonista del libro, Eleonora, torna spesso su questo punto: quanta felicità sprechiamo, quante occasioni. Ho voluto trasmettere il senso della consapevolezza delle relazioni e degli affetti, ma anche dell’ambiente, di quello che ci circonda».


Vestiti impostori, vestiti rabbiosi, vestiti revenants, vestiti dall'alito pesante...

Infatti nell’armadio ci sono i vestiti rabbiosi...
«Che hanno patito alla nascita. Vestiti che appena nati, ancora in forma di stoffa, hanno assorbito dolore, cuciti da mani bambine, o dita di ragazze. I vestiti non sono inanimati come noi immaginiamo. Anche la mia protagonista in un primo tempo, a Parigi, vive una vita riflessa, osserva gli altri, è distaccata. Un po’ alla volta si apre alle relazioni. Questo è il messaggio: non sprechiamole».
Corinne, la figlia alla quale è destinato questo inventario, come l’ha immaginata?
«Sportiva, un po’ trascurata, con pantaloni comodi, scarponcini, una sciarpa intorno al collo, un giubbotto. Non curata nè teatrale come la madre. E infatti quando la vede la critica: dice che solo lei poteva andare in giro con una gardenia di stoffa nei capelli identica a quelle del foulard che indossa».
Esiste un abito che madre e figlia possono condividere?
«Una gonna lunga, di maglia, a righe, che unisce comodità e sportività alla bizzarria, che è estrosa ma domestica. Il loro sarà un ricongiungimento allegro, la cura delle cose le rimetterà insieme».
Come sono i suoi armadi?
«Ne ho alcuni al piano di sotto, in una stanza buia, e quando ci vado sento il bisogno che hanno i vestiti di uscire, la loro fame d’aria. Così apro le ante e li faccio respirare. Quelli che stanno negli armadi al piano di sopra, vicino alla camera da letto, sono più fortunati, hanno voci allegre. I vestiti parlano, chiedono di essere indossati. Se non sono messi da molto tempo sentono un senso di colpa. Così li porto a fare due passi».
O si immalinconiscono.
«Infatti, si macchiano, prendono quel colore giallino, l’eritema da cassetto. Le cose hanno una vita a prescindere da noi, hanno bisogno di ossigeno, di avere il loro spazio. I tessuti sono vivi. Se li lasci chiusi, soffrono».
Cos’ha lasciato fuori da questo atlante?
«I vestiti in quarantena. Quelli che aspettano mogi, spesso piegati in una busta, che li soccorriamo. E gli facciamo dunque l'orlo, o riattacchiamo quel bottone. E finalmente li portiamo in giro».
E i suoi vestiti più cari?
«Quelli che condivido con le mie figlie».

twitter@boria_a

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